L’11 Giugno 1970 gli avvocati Dante Ricci e Sergio Castelfranco presentano la richiesta d’appello per Stefano Mele.
Questa la richiesta: 11 Giugno 1970 – Appello avvocati Mele
Questa la trascrizione:
CORTE DI ASSISE DI FIRENZE
per la Corte d’Assise d’Appello di Firenze
MOTIVI
a sostegno dell’appello proposto da
STEFANO MELE
avverso la sentenza di questa Corte in data 25 Marzo u.s.
I
IL MELE NON E’ L’IDEATORE DEL DELITTO E NEMMENO L’ESECUTORE MATERIALE DI ESSO
Invano l’impugnata sentenza sembra obliare troppe circostanze e fatti salienti e insuperabili.
Restano valide perciò tutte le argomentazioni che la difesa svolse neli dibattimento, e che qui vengono sommariamente riassunte per poter poi essere di nuovo sviluppate nella discussione orale dinanzi il Giudice d’Appello:
A) è da escludere che il Mele abbia mai posseduto un’arma da fuoco e, in particolare, una pistola. Tutte – niuna esclusa – le voci e le fonti di prova autorevoli e pertinenti hanno concordemente escluso questa possibilità: dai Carabinieri ai familiari, agli amici, ai datori e ai compagni di lavoro, è un coro unanime di sorpresa e di ripulsa. Non solo egli non ha mai posseduto un’arma da fuoco, ma era sicuramente incapace di usarla, sia per naturale mitezza d’animo, sia per specifica inesperienza nel maneggio di essa.
B) il movente prospettato e assunto come valido dalla Corte di Assise si rivela, al’lume d’un semplice vaglio critico sorretto da logica, non diciamo inconsistente, ma addirittura assurdo e arbitrario. Mele non ha mai fatto soverchio conto del denaro, in nessuna occasione, anche per quello stato di “fanciullezza” intellettuale che fatalmente e morbosamente lo accompagna dalla nascita. Tutte le voci, le fonti e le prove sono concordi anche su questo punto fondamentale. Egli era infatti solito consegnare tutto il suo guadagno alla moglie, senza mai chiederle conto dell’uso di esso, con un totale e perfino incredibile disinteresse. Perciò, il volerę, con arbitrio assolutamente ingiustificato (perché respinto da ogni legittima e valida prova), porre un tal movente come molla per così furibondo e passionato delitto, è non solo fuori della realtà processuale, ma finanche da ogni realtà umana. E’perciò da respingere – come gravemente lesivo della giustizia – un metodo come quello usato dalla sentenza di primo grado, che all’esame lOgico e concatenato di sicuri elementi di fatto emersi dal processo, sostituisce una serie di apodittiche e fantasiose congetture su nulla fondate e da nulla desunte.
C) la Corte d’Assise ha trascurato (o non convenientemente valutato) l’inquietante e ingombrante presenza nel delitto (e quindi nel processo) di un personaggio ambiguo, scaltro, violento, pericolosissimo, che unimamente la voce popolare e la semplice logica umana indicarono fin dall’inizio come il vero colpevole: Francesco Vinci. Perfino nel capo d’imputazione formulato dal P.M. si legge che il delitto il Mele lo avrebbe commesso “in concorso eventuale con altri”, (Sic!); e perciò avvertiamo un profondo e indomabile senso di insofferenza nei confronti di talune argomentazioni adottate dal primo Giudice per escludere tale possibilità, Si è dimenticato di dire e di notare (ma perché queste omissioni, che paiono voragini?) che costui fortemente “preso” della moglie del Mele, per non si sa quale febbre carnale, intratteneva con lei un’aperta relazione adulterina della quale era fiero, orgoglioso e gelosissimo.
Episodi di alto ed evidente significato e gravidi di valore sintomatico furono inspiegabilmente dimenticati e taciuti: le minacce da costui profferite verso l’amante ritenuta infedele, il possesso della pistola; il temperamento violento e dominatore che lo portava a escludere dalla cerchia delle conoscenze della propria amante ogni altra persona, fosse pure il fratello Salvatore; le minacce e il disprezzo verso sua moglie Vitalia Muscas.
E) Escludere il possesso della pistola da parte del Vinci sol perché, a giudizio della Corte, essa non poteva esser contenuta e custodita nel piccolo vano del cofano del ciclomotore di marca “Gabbiano” del Vinci, è cosa davvero di poco conto, ove si pensi che questi poté agevolmente custodirla altrove. Dire, come incredibilmente fa la sentenza, che, trattandosi di arma vecchia e arrugginita (ma poi chi autorizza a ritenerla tale?), è più probabile che appartenesse a “un vecchio (?) pastore sardo”, piuttosto che a dei “giovinetti” (?), è davvero non più ragionare, ma invece “arzigogolare” senza controllo e senza misura. Ci sembra perciò doveroso respingere siffatta “motivazione” in tanto grave e impegnativa sentenza. L’unico, dunque, che poté avere (e non ne fece mistero) un serio e bruciante motivo per commettere il delitto; l’unico che è di mostrato fosse in possesso d’una pistola; l’unico che, col suo comportamento prima e dopo il delitto, fornì assai più che semplici sospetti d’averlo potuto commettere, appare invece nel processo, nientemeno, che come vittima d’una calunnia. La presenza del vero assassino, da non identificarsi certamente nel Mele, è reclamata e dimostrata dalle più importanti risultanze processuali quali, ad esempio, il rapporto dei Carabinieri di Lastra a Signa dove si colgono dubbi più che fondati sulla validità della così detta “confessione” del Mele inficiata e annullata dalle sconcertanti e incredibili lacune e contraddizioni. L’unanime vox populi addita altre vie e altri sbocchi all’indagine processuale.
F) Anche la stessa perizia psichiatrica postula chiaramente la presenza nel delitto di almeno “un determinatore” che abbia agito come condicio sine qua non sulla fiacca e passiva personalità di Stefano Mele che, succubo per tutta la vita della moglie, mai ebbe con essa un alterco e mai ebbe a fa ridire qualcosa a suo carico dai conoscenti, dai vicini, dai compagni di lavoro e, in genere, da chi lo conobbe.
G) La così detta prova del “guanto di paraffina” è così screditata e inadeguata che anche la stessa sentenza mostra di darle ben poco credito; abbiamo prodotto in atti quanto c’è di meglio – oggi – sull’argomento, nella più autorevole e riconosciuta dottrina italiana e straniera.
Non vogliamo ripeterci; d’altronde, non si dimentichi che il Cutrona (estraneo al delitto) recava in entrambe le mani tracce di nitrati!
H) E’ del pari inaccettabile, perché contraria alla logica e all’esperienza di tutti, l’apodittica affermazione che il Mele, sfornito, com’è pacifico, di mezzi di trasporto, abbia potuto da solo sorvegliare l’uscita della moglie e dell’ultimo suo drudo dal cinematografo e – nientemeno! – precedere (lui, a piedi) o raggiungere i due che si accoppiavano in un sentiero di campagna dentro la “Giulietta”, che, certo, aveva sfrecciato su per l’erta e aspra strada che congiunge Signa al luogo della strage (quasi 3 km.!).
I) Si sforzano così, e si torcono a impossibili dimostrazioni talune fondamentali ed evidentissime circostanze che, da sole, bastano a respingere come assurda l’ipotesi d’un Mele freddo e spietato omicida. Anche l’arma ch’egli disse (nella pretesa quanto inattendibile “confessione”) d’aver gettato nel fosso che costeggia l’argine lungo il quale la vettura, non venne mai ritrovata, nonostante le pronte e complete indagini ( anche con mezzi elettromagnetici), compiute dai vigili del fuoco e dai Militari. Prova ulteriore – se pur ce ne fosse bisogno – che l’arma se la riportò via il vero assassino!
Si palesa, dunque, inadeguato e lontano da ogni verità storica e processuale quel preteso movente stranamente adottato dalla sentenza (che ricalca supinamente il rapporto del Capitano dei Carabinieri Dell’Amico), e che – per l’evidente contrasto con la obiettiva realtà delle cose – era stato abbandonato perfino dal P.M. di udienza il quale lo cercò invece (altrettanto, per noi, vanamente) in un preteso rifiuto della moglie alle richieste sessuali del marito.
E’ proprio tale discordanza che rivela a tutti l’insoddisfazione e l’incertezza sia degli inquirenti, sia dei requirenti, sia dei Giudici e che – in definitiva – documenta la fallacia della impugnata sentenza.
II
(In ipotesi) – NON SI POTREBBE MAI NEGARE AL MELE STEFANO L’ATTENUANTE DI CUI ALL’ART. 114 U. CPV. C.P. IN RELAZIONE ALL’ART. 112 N. 4 DELLO STESSO CODICE.
E’ pacifico (ved. perizia psichiatrica in atti) che il Mele è grandemente incapace di autodeterminarsi. E’ pacifica altresì la facilità che questi deficienti cadano vittime della volontà altrui. Egli risulta, dunque, per malattia mentale, incapace di resistere alle suggestioni di un determinatore. Sappiamo che è un frenastenico di elevato grado, cioè un individuo affetto da tale malattia mentale congenita da determinare una disarmonia anche fra psiche ed etica, cioè anche fra personalità psichica e morale. La spiegazione – altrimenti impossibile – di certa sua impressionante “insensibilità” dinanzi alle depravazioni morali della moglie è tutta qui. Come è tutta qui anche la prova della necessaria presenza in questo agghiacciante delitto d’un vero autore e determinatore che accese la scintilla, e preordinò l’azione di cui fu anche il primario motore ed esecutore.
Sembra impossibile che la sentenza non si sia posta, fra i tanti interrogativi che la causa impone, anche questo, che è certo fra i più gravi e inquietanti, e l’abbia sorvolato ignorandolo, cioè negando che, accanto al Mele e in un ruolo ben più importante del suo, agì – senza dubbio – un feroce, lucido, spietato assassino che, purtroppo, è sfuggito alla Giustizia.
III
RITENERSI L’ATTENUANTE DELLA PROVOCAZIONE
Come si potrebbe negare la sussistenza di quello “stato d’ira” (non “impeto”), che la legge contempla come conseguenza d’un altrui ingiusto comportamento? La sentenza fa ancora un discorso impossibile quando pretende d’ignorare o di obliare che i due amanti furono sorpresi e uccisi nella flagranza del coito, compiuto dentro la autovettura ferma sul sentiero, davanti al bambino; e, con sorprendente levità, cerca di mettere in rapporto non già questa situazione di fatto di per sé atrocemente offensiva e oltraggiosa, ma invece il “malcontento” o il “disappunto” del Mele per il preteso sperpero di denaro compiuto dalla moglie! Anche questo punto della sentenza è un cumulo di artificio dialettico e d’errori d’impostazione sia di fatto, sia di diritto, sia di psicologia. In essa si parla addirittura di “reazione stizzosa e di risentimento che caratterizzarono la condotta del Mele”, e che perciò nella specie esulerebbe totalmente quel rapporto di proporzione e di adeguatezza tra fatto provocante e fatto provocato che deve pur sempre esistere perché si configuri il nesso causale richiesto dall’art. 62 n. 2 C.P. In sostanza, si pretenderebbe (ma come è mai possibile?) dimenticare la sanguinosa offesa all’amor proprio di chiunque (anche del succubo, umiliato e offeso Mele), arrecata dall’oscenità del coito carnale consumato in presenza del bambino, per sostituirla con un preteso e inesistente malumore per un altrettanto preteso “sperpero” di appena 24.000 lire! L’arbitrio, fratello qui della più sbrigliata fantasia, trionfa sovrano, e la Giustizia non sembra davvero avvantaggiarsene.
E’ superfluo anzitutto anche solamente accennare che l’elemento della “proporzione” fra offesa e reazione non è richiesto dalla legge, e che perciò non si può introdurvelo con la pretesa d’una interpretazione estensiva, vietata dal nostro sistema penale. Ma non è questo il punto della questione; esso consiste invece – e ancora ci meraviglia che la sentenza lo ignori – nell’evidente offesa, enorme e brutale -, che il Mele dové ricevere alla vista crudissima dello spettacolo surriferito.
Il piccolo Natalino, l’unico superstite affetto della sua vita, era lì (si disse, forse per carità, addormentato): e non basterebbe questo, per la normale sensibilità di chiunque, anche del povero Mele, a costituire quel “fatto ingiusto” di cui parla, appunto, la legge? Non esiste uomo, anche patibolare, che possa rinunciare all’ultima dignità e all’ultimo affetto. Su quella piccola strada di campagna, in quella tragica notte, l’una e l’altro vennero, in fatti, atrocemente distrutti dai due adulteri.
IV
SULLA CALUNNIA
Al Mele erano originariamente contestati tre distinti delitti di calunnia: contro Francesco Vinci, contro Salvatore Vinci e contro Carmelo Cutrona. Là sentenza impugnata li ha unificati sotto il profilo della continuazione, implicazione dell’art. 81, 10 cpv. C.P. E’ ugualmente necessario, però, esaminare singolarmente le tre e mosse dal Mele e la loro genesi. Quella contro Francesco Vinci è sicuramente veritiera, perciò non costituisce calunnia.
Già nei precedenti motivi si è diffusamente parlato di questo personaggio, che incombe su tutto il processo e domina l’intera vicenda: prima come amante fisso – e geloso! – di Barbara poi come ideatore ed esecutore materiale del duplice omicidio.
E, nonostante le gravi lacune dell’istruttoria scritta, solo in minima parte colmate da quella dibattimentale, si addensano sul suo capo gravi e numerosi indizi che convergono ad additarlo come l’unico, gelido esecutore della strage.
E l’unico del quale si sa per certo che possedeva una pistola, come dichiarato lo stesso suo fratello Salvatore fin dai primi atti istruttori.
Era innamorato della moglie del Mele e ne era gelosissimo, tanto che la sorvegliava di nascosto e la seguiva, non soltanto quando essa si recava a Firenze in compagnia del di lui fratello Salvatore (V. dichiarazioni di quest’ultimo), ma anche quando usciva col marito e col bambino. E’ significativo, in proposito, quanto lo stesso Francesco Vinci ha dichiarato ai Carabinieri il 28 agosto 1968 (C. 112). In quell’occasione egli fa il nome di tutti gli amanti di Barbara Locci (il che conferma che egli la sorvegliava e ne spiava tutte le mosse) e narra l’episodio delle Cascine di Lastra a Signa in cui un tale Francesco, rimasto momentaneamente solo con Barbara, ne aveva approfittato per toccarle le mammelle, facendole anche saltare un bottone della veste. Scena alla quale egli, Francesco Vinci, aveva assistito non visto. Tutti, d’altronde, da Francesco Drago a Rosalia Barranco, moglie del Lo Bianco, lo indicano come l’amante di Barbara. E le sue scenate di gelosia risultano, oltre che da varie deposizioni testimoniali (per tacere di alcune dichiarazioni del Mele medesimo anche dagli atti del procedimento penale a carico suo e della Locci per concubinato; atti allegati al presente processo. Fatto, questo, veramente sintomatico a dimostrazione dell’insana passione che lo legava alla Barbara e che lo portava non soltanto a trascurare nel modo più ignobile la sua famiglia, ma addirittura a parlare sprezzantemente della moglie ed a manifestare verso di lei un vero disgusto.
E’ chiaro che, mentre per Barbara, specie negli ultimi tempi, e gli era solo uno dei tanti, Barbara, per lui, rappresentava la “sua” donna: quella alla quale non sapeva né voleva rinunciare, che pretendeva tutta e sola per sé. Chiarificatrici e significative al riguardo sono le prime dichiarazioni del Mele ai carabinieri, rese alle ore 9.40 del 22 agosto 1968, cioè quando ancora non gli era stata contestata alcuna accusa, e che perciò devono ritenersi assolutamente spontanee e genuine. Alla domanda se qualcuno poteva avere interesse ad uccidere sua moglie e a quale scopo, il Mele risponde che nel precedente mese di giugno Francesco Vinci l’aveva minacciata di morte se avesse frequentato altri uomini.
Di fronte a sì poderoso complesso di elementi accusatori (di cui si è fatto qui solo un sintetico cenno), è davvero sorprendente il modo con cui la sentenza dei primi giudici si sbarazza del l’ingombrante presenza di Francesco Vinci,
In realtà, se ne sbarazza abliando del tutto gli innumerevoli indizi a di lui carico.
Ma non è questa la strada maestra per giungere alla verità e alla giustizia; e la Corte d’Assise d’Appello dovrà riesaminare e rivalutare, alla luce dei fatti accertati e della loro interpretazione logica, tutti i seri elementi che la difesa aveva già proposto all’attenzione dei giudizi di primo grado. Pertanto l’accusa contro Francesco Vinci non è calunniosa; e si ha ferma fiducia che i giudici di secondo grado – sperabilmente anche nell’eventualità che passano emergere a carico di costui nuovi elementi da portare al vaglio della giustizia – esamineranno col massimo impegno la di lui posizione e troveranno materia per incriminarlo o, quanto meno, per sospettarlo reo coadiuvatore del duplice omicidio, sì da assolvere il Mele dall’imputazione di calunnia nei di lui confronti. Restano da esaminare le accuse del Mele contro Salvatore Vinci e contro Carmelo Cutrona. La prima sorge al momento del suo primo interrogatorio come imputato, alle ore 21 del 23 agosto 1968. E’ chiaro che egli in- dica come istigatore e correo Salvatore Vinci perché ha paura di accusare apertamente Francesco come spiegherà più tardi al G.I. – Egli narra i fatti di quella tragica notte secondo come li ricorda alla fine del secondo giorno di fermo, dopo oltre quarantotto ore di snervante attesa e di vari interrogatori, non tutti, ovviamente, verbalizzati. Sostituisce, però, a Francesco, del quale conosce la fredda risolutezza e l’irreversibile spirito di vendetta e che, quindi, teme grandemente – Salvatore Vinci.
Non lo muove, perciò, all’accusa, la volontà determinata e cosciente di incolpare un innocente, ma soltanto la forza istintiva, perché sbocciante dalla verità sostanziale, di far capire agli inquirenti che non era solo ma che qualcuno, di lui più capace e più determinato, lo aveva indotto al delitto fornendogli i mezzi ed il proprio ausilio. Qualcuno che egli non ha ancora il coraggio di indicare in Francesco Vinci, figura che ha dominato sinistramente gli ultimi anni della sua vita e che lo ha soggiogato con la sua assai maggiore intelligenza e scaltrezza e forse – chissà! – col fascino misterioso dei suoi trascorsi di pastore – bandito in Sardegna, dei quali molto si mormorava in paese e dei quali egli, Mele, probabilmente sapeva assai più degli altri, per le confidenze presumibilmente ricevute.
Una figura, dunque, quasi mitica per il meschino Mele, così piccolo e così gracile di mente e di spirito. Una figura che forse, inconsciamente, egli ammira, ma della quale ha, nello stesso tempo, terrore perché ne riconosce la supremazia e ne conosce l’implacabile decisione. Si intrecciano, perciò, il legittimo desiderio di fare apparire la sua azione criminosa per quello che realmente è stata (una supina e provocata partecipazione) e la paura di addossarne la responsabilità a Francesco Vinci, ad un tempo ammirato ed esecrato, ma soprattutto temuto.
E’ facile immaginare come, nella fragile e debole psiche del Mele, già duramente provata da quarantotto ore di detenzione e di interrogatori seguiti alla selvaggia tempesta che aveva squassato la sua vita, sia affiorato, quasi inconsciamente, il nome della persona più affine e vicina al vero responsabile: quello, cioè, di Salvatore Vinci, amante anch’egli – oltre tutto di sua moglie. Non si può ravvisare, pertanto, in questa accusa la precisa e cosciente volontà di incolpare persona che si ‘sa estranea al fatti: ma soltanto una forza confusa e primitiva, istintiva e incontrollata, che la labile volontà del Mele non riesce a ricacciare negli abissi dell’inconscio e che, appunto, senza o contro la sua volontà, perviene alle labbra e si fa parola.
L’accusa contro il Cutrona ha un’origine completamente diversa. Il Mele era finalmente riuscito a scuotersi di dosso il terrore del Vinci Francesco e lo aveva apertamente accusato nell’interrogatorio del 24 agosto alle ore 14,30. Accusa ribadita in quello dello stesso giorno alle 21,15 ed in quello del 26 agosto. Proprio nel corso di quest’ultimo, quando egli si era dichiarato disposto a sostenere un confronto con Francesco Vinci, gli viene riferito che la prova del guanto di paraffina è stata negativa per costui e positiva per il Cutrona. Egli rimane turbato. Poi, con un’incertezza che traspare dalle sue stesse parole, dichiara: “Se gli accertamenti sono come voi dite, vuol dire che è stato il Cutrona”. Questa non è calunnia. E’ un’accusa indotta dagli stessi inquirenti, che il Mele non vuole contrariare. Nella sua ignoranza e nella sua pochezza intellettiva, teme che le accuse lanciate contro Francesco Vinci debbano naufragare perché non convalidate dalla prova del guanto di paraffina. Nel contempo, l’apprendere che questa è stata, invece, positiva per il Cotrona, lo induce a ritenere che gli inquirenti propendano a considerare costui lo sparatore. Inconsapevolmente viene quindi trascinato ad ammettere che sia stato lui a sparare.
Ma l’accusa (se così si può chiamare) al Cutrona finisce qui. Nessun particolare viene fornito dal Mele circa la di lui partecipazione al crimine.
Tutto si esaurisce in quell’ammissione, non spontanea ne volontaria, ma provocata.
Ed e questa una prova ulteriore dell’estrema debolezza volitivi del Mele, che con sconcertante facilità si lascia indurre a dire o fare qualunque cosa.
Anche in questo caso, dunque, l’indagine del giudice deve essere portata sul dolo; per giudicare del quale, peraltro, si dovranno tenere costantemente presenti le minorate capacità psichiche del Mele. Si dovrà, allora, riconoscere che per costui è necessario usare un metro diverso del consueto in considerazione, appunto, delle sue minime capacità di volontà e d’intelligenza.
Le osservazioni che precedono dovranno portare alla completa assoluzione del Mele dall’imputazione di calunnia continuata perché, residuati a due gli episodi ritenuti calunniosi, in quanto l’accusa contro Francesco Vinci è fondata e veritiera – stessi risultano privi dell’indispensabile supporto della volontarietà e della spontaneità, si che non viene integrato il dolo necessario alla sussistenza del delitto in esame. Per puro scrupolo di difesa è, tuttavia, opportuno considerare il caso in cui la Corte d’Assise di Appello ritenga, nonostante tutto, l’esistenza della calunnia continuata. In proposito si rileva – come già dedotto in primo grado – che non si può ipotizzare il delitto di calunnia continuata perché il soggetto passivo è unico, cioè lo Stato. Ed anche se più sono le persone fisiche incolpate, unica è l’azione criminosa ed unico resta il soggetto passivo. Non si potrà, infine, negare al Mele l’attenuante di cui al n. 6 dell’art. 62 C.P. – Per l’applicabilità di essa la Cassazione stabilisce il principio che l’azione diretta ad eludere o ad attenuare il danno deve essere spontanea ed efficace, Nessun dubbio sulla sussistenza di entrambi questi requisiti nella ritrattazione del Mele. Essa fu spontanea ed accompagnata da pianto dirotto con invocazione di perdono verso Salvatore Vinci e Carmelo Cutrona. Fu anche efficace perché valse a far sospendere immediatamente ogni azione penale, ed anche ogni indagine, ne con fronti degli incolpati.
Non e vero, perciò, quanto si legge nella sentenza impugnata, e cioè che il Mele non avrebbe mostrato “quella resipiscenza che può giustificare la diminuzione della pena”. E’ vero proprio il contrario, come resulta chiaramente dagli atti.
Nella prima parte di questo motivo abbiamo dimostrato come il Mele si sia indotto e sia stato indotto a formulare le false incolpazioni, Non “per malvagia finalità egoistico”, come si legge nella sentenza dei primi giudici (la quale, anche in questo caso, dimostra di aver capito ben poco dello spaventoso dramma del quale era vittima quel meschino), ma per quell’aggrovigliato complesso di ragioni interne ed esterne che abbiamo sufficientemente illustrato e riteniamo inutile ripetere. Concludendo si questo punto si chiede che il Mele sia assolto da l’imputazione di calunnia; o, in denegata ed impugnata ipotesi, sia ritenuto responsabile di un unico delitto di calunnia con l’attenuante di cui al n. 6, seconda ipotesi, dell’art. 62 C.P.
V
SULLE CONTRAVVENZIONI
E’ risultato provato da tutti gli atti processuali – nonostante le contrarie ed arbitrarie fantasie della sentenza impugnata – che: il Mele non ha mai posseduto una pistola, e quindi non poteva averla né in casa né altrove. Ne consegue che neanche può avei la portata fuori con sé; e quella che servì ad uccidere la Locci e il Lo Bianco o gli fu data sul momento – ipotesi assai più probabile – fu usata dallo stesso detentore e possessore dell’arma.
Perciò egli dovrà essere assolto da queste imputazioni.
VI
DICHIARAZIONE DI PREVALENZA DELLE ATTENUANTI SU TUTTE LE AGGRAVANTI RITENUTE DAL PRIMO GIUDICE.
Valgano, a sostegno e motivazione di questo motivo di gravame, le argomentazioni qua e là diffusamente adottate nei motivi precedenti, soprattutto per quanto concerne la personalità psichica ed etica del Mele – che abbiamo visto così gravemente compromessa. L’art. 133 C.P. soccorre qui col suo illuminato e prezioso contenuto normativo, a guidare il Giudice d’appello nel difficilissimo compito della “misura” della pena da infliggere. Noi sappiamo che, anzitutto, non è affatto provato che Mele sia l’autore del crimine, ma solo un forse passivo spettatore, o – al più – un modesto complice non necessario, secondo l’antica ma pur sempre valida terminologia, TUTTO converge, dunque, e concorre a far ritenere la prevalenza e non solamente l’equivalenza delle riconosciute attenuanti, al fine di contenere nei minimi di legge la pena da irrogarsi.
VII
(In via istruttoria)
RINNOVAZIONE PARZIALE DEL DIBATTIMENTO EX ART. 520 C.P.P. PER L’AUDIZIONE DI TESTI NUOVI.
Soltanto dopo il processo di primo grado, la difesa è venuta a conoscenza di elementi e di circostanze di notevole rilievo probatorio, soprattutto per quanto concerne il movente del delitto. qual’è quello così impensatamente individuato dalla sentenza gravata. Si è detto, infatti, (ma non si sa perché) che il Mele avrebbe ucciso la moglie e il drudo per lo sdegno di aver visto sfumare il suo denaro così faticosamente guadagnato, il che “avrebbe sicuramente turbato il suo animo”. A provare l’assoluta gratuità e diremo senza ingiuria, “peregrinità” dell’assunto, ci sembra perciò utilissimo ascoltare la testimonianza dei vicini di casa e coinquilini Signor Di Pierro Giovanni e sua moglie (di cui la Ecc.ma Corte vorrà individuare generalità, per il momento a noi ignote), abitanti in Lastra a Signa, Via 24 Maggio, per dire che mai, in nessuna occasione. hanno sentito liti di sorta né alterchi o anche semplici discussioni a tono di voce più alto (ogni più lieve rumore o anche ogni conversazione ad alta voce è percepibile dalla loro casa) nei colloqui tra il Mele Stefano e sua moglie, il cui accordo sembrava anzi perfetto. Diranno anche essere a loro conoscenza che il Mele Stefano, del tutto disinteressato del ménage economico della famiglia, era solito consegnare l’intero suo guadagno alla moglie, senza curarsi di come venisse impiegato. Che la sua tolleranza, anche su questo punto era notoria nel vicinato e fra i conoscenti.
Un’altra circostanza, che alla difesa sembra assai importante, è quella relativa alla prova certa, (oltre quelle già acquisite) del possesso di una pistola da parte del Vinci.
E’ a tal fine che si propone alla Corte l’audizione del teste Claudio Conticelli, attualmente detenuto alle Murate in Firenze, per dire che più volte egli, che ben conosce il Vinci Francesco, lo ha visto esercitarsi al tiro a segno con la pistola. Anche di questa circostanza la difesa è venuta a conoscenza solo dopo la celebrazione del processo, in quanto uno di noi difensori (Avv. S. Castelfranco) l’ha occasionalmente apprese parlando con il Contincelli nel carcere.
Con ossequio.
Firenze, 11 Giugno 1970
I DIFENSORI
Avv. Sergio Castelfranco
Avv. Dante Ricci