Il 27 luglio 1982 gli inquirenti nella persona del Giudice Istruttore Vincenzo Tricomi e del Tenente Colonello Olinto dell’Amico, raggiunsero Ronco all’Adige per interrogare Stefano Mele. Vedi: Sentenza Rotella pag. 24
Prima di cominciare l’interrogatorio fu messo a verbale: “Prendo atto che vengo a questo punto interrogato come teste soltanto in quanto da emergenze successive alla mia condanna risulta che con la pistola usata per uccidere mia moglie e il Lo Bianco Antonio sono stati commessi altri quattro duplici omicidi che io sicuramente non posso aver commesso in quanto detenuto nel 1974 e a Ronco all’Adige nel 1981 e nel 1982” L’avvertimento ha per oggetto implicito il divieto dell’art. 348 u.p. CPP (cfr.: Premessa). In effetti, la situazione è modificata, anche se Mele viene sentito con riferimento a quello che sa, e risulta arrestato un secondo giorno d’indagini (23/8/1968). Peraltro, per giurisprudenza consolidata, egli può fare acquiescenza all’inquisizione. Vedi Sentenza Rotella 13 dicembre 1989 Pag. 62
Stefano Mele ribadì la sua accusa a Francesco Vinci per il duplice omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco.
Senonché Mele nega di aver preso parte all’omicidio del 1968, riprendendo l’alibi fornito il primo giorno d’indagini, da lui e da suo figlio, e poi da entrambi abbandonato, di essere stato a letto ammalato; dichiara di aver confessato, rispondendo in maniera affermativa, perché ‘istupidito’ dall’accaduto, ad un brigadiere sardo. Spiega di aver appreso ‘dopo l’interrogatorio’ da suo figlio, che gli era stato concesso di vedere, che ad uccidere la moglie e l’amante e ad accompagnare Natalino vicino a delle case, era stato Francesco Vinci che avrebbe minacciato di ucciderlo e con lui suo padre se avessero parlato. Perciò si era addossato il delitto. Ma che si trattasse di Vinci lo si poteva desumere anche dalla descrizione che il cassiere del cinema di Signa aveva fatto in giudizio della persona entrata nel locale per controllare i due che poi sarebbero stati uccisi. Proseguendo nelle sue accuse contro Francesco Vinci, ne indica torti e sopraffazioni, dall’essersi installato in casa sua, alle conseguenze di un incidente subito per sua colpa, alle minacce nei confronti di sua moglie. Precisa anche i rapporti tra Francesco ed il fratello Salvatore. Vedi Sentenza Rotella 13 dicembre 1989 Pag. 62/63
L’interrogatorio proseguì con le parole di Mele: “Inizialmente feci il nome di Salvatore Vinci per non chiamare in causa Francesco Vinci. Poi pressato dagli interrogatori, parlai di Francesco Vinci per cui questo fu arrestato e mentre ero alle Murate mi minacciò dicendomi che se avessi ritrattato tutto avrebbe ucciso me e la mia famiglia. Fu così che feci il nome di Carmelo Cutrona in quanto questi sapeva che stavo male ed era venuto a casa mia. Il giorno 22 agosto, dopo essere stato interrogato ed aver passato in caserma tutta la giornata sono stato rilasciato e tornai a casa con il bambino. Quella sera stessa, prima di addormentarsi, mi disse che ad uccidere sua madre e a portarlo in braccio era stato Francesco Vinci che lo aveva minacciato di morte se avesse parlato”. Vedi Sentenza Rotella 13 dicembre 1989 Pag. 63
Nell’interrogatorio Francesco Mele riferisce che fu la moglie di Francesco Vinci, Vitalia Muscas, a dirgli che Francesco aveva una pistola nel bauletto della vespa, il Giudice Istruttore gli contesta l’episodio e Francesco Mele ribatte che anche Francesco Vinci gli aveva detto la stessa cosa. In effetti questa affermazione (di essere stato informato dalla cognata che suo fratello Francesco possedesse una pistola in quel nascondiglio) era stata fatta nel 1968, da Salvatore Vinci, all’evidenza per scagionarsi e far cadere i sospetti su Francesco. Mele aveva invece detto, trasferendo la chiamata in correità da Salvatore a quest’ultimo, di sapere direttamente da lui del possesso della pistola, e che Francesco la deteneva in un posto che non conosceva neanche Vitalia (la moglie — cfr.: il verbale d’interrogatorio del pomeriggio del 24 agosto 1968 e capi II e VIII). A contestazione del giudice, Mele aggiunge che lo stesso Francesco Vinci gli aveva parlato della pistola nel cassetto della lambretta, senza mai mostrargliela. Vedi Sentenza Rotella 13 dicembre 1989 Pag. 63/64
Esclude che Natalino possa essere stato successivamente avvicinato (e perciò ulteriormente minacciato) dal Vinci, mentre era in collegio. E a domanda risponde: «Non sono in grado di formulare ipotesi su chi abbia potuto indurre il bambino a dire che ero stato io [a commettere il delitto]. Posso dire che veniva regolarmente visitato sia dai parenti della madre che dai miei parenti. I miei parenti erano convinti che ero stato io, a maggior ragione quelli di mia moglie.”
Dopo aver fornito notizie approssimative di suo figlio, le quali dimostrano che non ha rapporti frequenti con lui, afferma: “… negli ultimi tempi la mia famiglia è timorosa del Vinci Francesco. Loro non vogliono che ritorni a Scandicci ed hanno dimostrato di non gradire la mia presenza.
Credo che abbiano paura anche dei parenti del morto, questo perché mia sorella [la maggiore, Maria, ved. Baldini] mi ha detto che quando io ero da loro non avrebbero aperto la porta a nessuno in quanto, mentre c’ero io, temevano di essere ammazzati tutti. Non so se si riferissero al Vinci Francesco o ai parenti del morto”. Vedi Sentenza Rotella 13 dicembre 1989 Pag. 63/64
In precedenza, sondato dal giudice circa la sorte del figlio dopo il delitto, ha ricordato che fu preso dalla sorella Teresa che abita in provincia di Livorno, e che costei non gli ha scritto dal giorno dell’omicidio.
Infine, a contestazione di un particolare significativo per indicare la sua presenza sul luogo del delitto (l’urto accidentale della levetta delle luci sull’autovettura del Lo Bianco dopo il delitto), lo qualifica insignificante e dice di non ricordarlo. Ricorda invece di aver sbagliato strada durante il sopralluogo con i carabinieri e che si dovette chiedere indicazioni ad una donna, in quanto lui non sarebbe mai stato a Castelletti di Signa. Vedi Sentenza Rotella 13 dicembre 1989 Pag. 64
Infine concluse il verbale dicendo: “Non sono in grado di formulare ipotesi su chi abbia potuto indurre il bambino a dire che ero stato io. Posso dire che veniva regolarmente visitato sia dai parenti della madre che dai miei parenti. I miei parenti erano convinti che ero stato io, a maggior ragione quelli di mia moglie“. “… negli ultimi tempi la mia famiglia è timorosa del Vinci Francesco. Loro non vogliono che ritorni a Scandicci ed hanno dimostrato di non gradire la mia presenza. Credo che abbiano paura anche dei parenti del morto, questo perché mia sorella, la maggiore, Maria, mia ha detto che quando io ero da loro non avrebbero aperto la porta a nessuno in quanto, mentre c’ero io, temevano di essere ammazzati tutti. Non so se riferissero al Vinci Francesco o ai parenti del morto“.