I Procuratori della Repubblica Silvia Della Monica e Pier Luigi Vigna convocano Piero Mucciarini per interrogarlo sul delitto di Signa del 1968.
Innanzitutto egli rafforza il convincimento che Mele, implicato nell’assassinio della moglie e del Lo Bianco, non parli per paura.
Il Mucciarini riferisce che ha sentito il nipote Natalino, il giorno 16 agosto 1968, parlare con sua moglie Antonietta alla quale diceva che dopo l’omicidio della madre era stato accompagnato a casa del De Felice da una persona che non era suo padre.
Il Mucciarini ricorda inoltre di essere stato, assieme al cognato Marcello Chiaramonti, il giorno 23 agosto 1968 presso l’abitazione di Stefano Mele, il quale piangente ripeteva che lo avrebbero condannato all’ergastolo.
Quando Mele ci vide arrivare scoppiò a piangere, dicendo che gli avrebbero dato l’ergastolo. “Io gli chiesi cosa aveva fatto e lui rispose: «non ce la facevo più» e piangeva”. Condotto in caserma il Mele, egli aveva parlato con lui, per invitarlo a dire la verità, ma Stefano rispondeva: “Mi ammazzano il figlio”. Alla domanda ‘chi?’, taceva. Il Mele non gli dava risposta neanche alla domanda: “la pistola dove l’hai comprata e dove l’hai messa?”.
In secondo luogo lascia intendere che Natalino ricorda che il padre non era solo sul luogo del delitto. Riferisce che la sera in cui era stata sentita Antonietta Mele, sua moglie (v. retro, e v. la telefonata della donna che, appena andati via i magistrati, chiama il nipote per parlargli), il ragazzo gli aveva fatto capire che, secondo lui, le zie Maria ed Antonietta sapevano. Viceversa Natalino, pur affermando di non ricordare, ‘nella confusione’ (sembra d’intendere ‘del momento del delitto’), come fossero andate le cose, aveva detto che, andando alla casa (l’accompagnamento dopo il delitto) c’era uno che non sapeva chi fosse, ma che non gli sembrava suo padre (si tratta, come si vede, di posizione difforme da quella di Maria Mele, ed anche di Teresa. Mucciarini sa bene che il bambino fece il suo nome e non lo negherà mai, cfr. capo VII).
Quanto ai Vinci, Mucciarini ricorda che dopo l’omicidio si seppe della tresca della Locci con uno di loro, e che nella famiglia Mele si sospettava di lui. Conferma anche l’intestazione del motorino di un Vinci a Stefano, e della visita ricevuta da sua moglie Antonietta, poco prima del processo d’appello, da un altro Vinci che diceva Stefano innocente e voleva fargli visita in carcere. Poco prima lui, Mucciarini, aveva saputo che qualcuno lo cercava, per parlargli, sul posto di lavoro, e dopo la visita alla moglie, aveva supposto che si trattasse del Vinci, appunto.
Vedi Sentenza Rotella 13 dicembre 1989 Pag. 73
Interrogato sul giorno in cui partecipò all’interrogatorio di suo cognato Stefano Mele il Mucciarini dichiara: “Li nella caserma scambiai poi qualche discorso in privato con lo Stefano e lo invitavo ancora a dire la verità e lui se ne usci con questa frase “mi ammazzano il figlio”. Chi? gli chiesi e lui rimase zitto.“
Mucciarini riporta inoltre un’altra informazione: “Mia moglie un giorno, prima del processo d’appello a Firenze, mi riferì che era andato a trovarla a casa uno dei fratelli Vinci il quale le aveva chiesto di poter parlare in carcere con il Mele Stefano dicendo che si sarebbe fatto passare per un parente. Questo Vinci disse a mia moglie che lo Stefano scontava una pena senza aver commesso il fatto“.
Inoltre, quanto ai Vinci, Mucciarini ricorda che dopo l’omicidio si seppe della tresca della Locci con uno di loro, e che nella famiglia Mele si sospettava di lui. Conferma anche l’intestazione del motorino di un Vinci a Stefano, e della visita ricevuta da sua moglie Antonietta, poco prima del processo d’appello, da un altro Vinci che diceva Stefano innocente e voleva fargli visita in carcere. Poco prima lui, Mucciarini, aveva saputo che qualcuno lo cercava, per parlargli, sul posto di lavoro, e dopo la visita alla moglie, aveva supposto che si trattasse del Vinci, appunto.