Il 18 gennaio 1984 viene interrogato Giovanni Mele. Esordisce: “Da ieri ad oggi ho notato un modesto cambiamento nell’umore di mio fratello Stefano, come se in parte si fosse scaricato di qualcosa… Mi ha dato la sensazione che vorrebbe confidarsi per qualcosa, ma io non lo fo perché la ritengo un’interferenza nella sua riservatezza“.
Giovanni Mele prosegue: “Ha sempre avuto una modesta attività intellettuale. Stamani siamo stati a Lastra a Signa a cercare la sua abitazione ed ho notato che non riusciva molto ad orientarsi. Ha perduto in sostanza lucidità…“.
Giovanni non nega che suo fratello sia di buona memoria, ma aggiunge: “Tuttavia si chiude verso gli estranei. Per inserirsi nel rapporto con lui, bisogna porsi a livello di scherzosità“.
Al riguardo spiega che il delitto avvenne mentre lui si trovava a Mantova ed era stressato dai turni di lavoro. Tornato a Firenze, si recò alle Murate a colloquio con suo fratello e dice: “Mi colpì il fatto che lui quasi scherzasse e, insomma, sembrasse non dare importanza a quanto era successo“.
Chiuso e firmato il verbale questo viene riaperto perchè Giovanni Mele dichiara che Stefano era molto preoccupato, quando era stato fatto venire (per il confronto) e che diceva di continuo: “Ho detto tutto quello che debbo dire, che cosa vogliono ancora“.
Al G.I. Giovanni Mele disse che non nutriva assolutamente fiducia nel fratello Stefano Mele, lo considerava uno stupido, legato a dinamiche contadinesche in uso nella Sardegna rurale e riteneva del tutto inutile insistere ad interrogarlo in quanto non avrebbe ma fornito aiuto alla risoluzione del caso.