‘NON SONO LORO I MOSTRI DI FIRENZE’
FIRENZE (l.v.) – Dopo il duplice omicidio di Vicchio, commesso mentre entrambi si trovavano in carcere, ci si aspettava una loro immediata scarcerazione. Invece Giovanni Mele e Piero Mucciarini, accusati del primo delitto della “serie mostro” di Firenze e indiziati per i successivi, sono ancora detenuti. Il giudice istruttore Mario Rotella, circa un mese fa, aveva respinto una prima richiesta di scarcerazione presentata dai legali dei due imputati. I difensori, com’ è ovvio, sono tornati alla carica. Sergio Schoapflin e Rolando Ramalli, gli avvocati di Mele, ieri hanno presentato appello contro l’ ordinanza di rigetto di Rotella. L’ avvocato Bellotti, che assiste Mucciarini e che nei giorni scorsi era entrato in violenta polemica con il giudice, presenterà un documento analogo. La parola passa alla prima sezione del Tribunale della Libertà. Nelle ventotto pagine consegnate alla cancelleria dell’ ufficio istruzione i difensori chiedono, nuovamente, la scarcerazione del loro assistito per sopravvenuta mancanza di indizi. Secondo i legali Giovanni Mele, accusato dal fratello Stefano dell’ omicidio di Barbara Locci, moglie di quest’ ultimo, ha un alibi per la notte del delitto. Dalle busta paga della ditta di Castiglion dello Stiviere presso la quale l’ uomo lavorava risulterebbe infatti, anche se in modo non inequivocabile, che l’ imputato non poteva trovarsi a Firenze la sera del delitto. Tutti i vari indizi (“anche se suggestivi”, ammettono gli stessi legali) avrebbero comunque perso ogni valore e non sarebbero sufficienti a giustificare un’ ulteriore detenzione. Il Tribunale della Libertà di Firenze, prima di prendere una decisione sul caso, dovrà adesso riesaminare tutti gli atti della complessa vicenda, un armadio di carte che va dal processo per il delitto del ‘ 68 (l’ unico nel quale Mele e Mucciarini sono formalmente accusati) alle inchieste sui sei successivi, tutti firmati se non dalla stessa mano almeno dalla stessa pistola. Una storia ricca di misteri ed errori giudiziari, dubbi e calunnie. Basti pensare che il personaggio chiave è un seminfermo di mente, Stefano Mele, che ha prima, reo confesso, scontato la condanna per l’ omicidio della moglie e quindi, uscito di prigione, ha cominciato a lanciare accuse contro amici e parenti. Ma c’ è un legame tra quel primo fatto di sangue e gli altri omicidi del “mostro”? Oppure la pistola che li accomuna è passata di mano? La convinzione del giudice istruttore Rotella sembra precisa: i due personaggi attualmente in carcere sono legati alla morte di Barbara Locci e quindi, quanto meno, sanno da dove veniva e dove è andata la calibro 22. Diverso l’ orientamento della procura della Repubblica che aveva espresso parere favorevole alla prima domanda di scarcerazione dei due. La stessa procura, però, non si è opposta alla decisione del giudice istruttore quando questi ha negato la libertà a Mele e Mucciarini. L’ impressione è che in realtà le indagini si muovano in direzione parallele. Una, quella di Rotella, mira a un singolo episodio dal quale partire per cercare di far luce sui successivi. L’ altra, quella della procura e dello staff di esperti, tenta di individuare il maniaco partendo da pochi indizi concreti e dai grandi numeri della statistica: si prepara un profilo psicologico dell’ assassinio, si censiscono i maschi tra i trenta e i sessanta che vivono soli in provincia di Firenze, si ripetono le perizie sui proiettili omicidi. Si raccolgono e si controllano segnalazioni anonime e voci di ogni tipo.