I giornalisti e i curiosi presenti sul posto vengono tenuti a debita distanza dal corpo che giace sul pontile. Fra i giornalisti presenti c’è anche Pietro Crocchioni, giornalista de La Nazione, a cui si devono le uniche fotografie di quella mattinata. Infatti a differenza della procedura normale, evidenziata anche dal Maresciallo Lorenzo Bruni, nessuno si occupa di fare le dovute fotografie di rito al cadavere. L’irritualità della cosa si è poi dimostrata, nel tempo, un grave handicap nella ricostruzione della vicenda. Ovvio che una fotografia in primo piano del corpo e del volto del cadavere avrebbero permesso, nonostante l’edema e il colorito, di distinguere chiaramente se si trattava del corpo di Francesco Narducci o meno.
Due colleghi di Francesco Narducci, il dottor Antonio Morelli e dottor Ferruccio Farroni, presenti sul pontile, si occupano di riconoscere il corpo e lo identificano per Francesco Narducci.
Il professore Morelli, che da lì a poco effettuerà il riconoscimento accompagnando la salma alla villa di San Feliciano, descrive così quel cadavere steso sul molo: “Era irriconoscibile, edematoso, aveva il volto cianotico ed era talmente gonfio che i bottoni della camicia tiravano a dismisura, con pochi capelli come appiccicati, la fronte molto prominente. Aveva il volto “batraciano” per prominenza delle parti laterali. Vidi la patente di Francesco spuntare dal giubbotto o dai pantaloni. Mi colpì perché era ben conservata, pur non essendo plastificata. La cosa mi stupì molto perché un documento cartaceo rimasto in acqua per cinque giorni difficilmente si sarebbe conservato in quel modo”. Vedi verbale del 4 luglio 2002.
Il Prof. Ferruccio Farroni descrive il cadavere come “enormemente edematoso, con il volto cianotico e l’aspetto di un pallone, sfigurato, sembrava l’omino della Michelin“. Vedi verbale del 7 marzo 2002.
Da domandarsi come entrambi gli amici possano aver riconosciuto nel cadavere del pontile Francesco Narducci. Farroni disse in seguito di essere stato ingannato dagli indumenti indossati; a suo dire jeans, giacchetto in renna e Lacoste blu, e dalla presenza della patente. Sapendo però che non era quello l’abbigliamento del corpo ripescato è evidente che Farroni si attorcigli su se stesso peggiorando la sua posizione. Il cadavere ripescato ha in tasca la patente di Francesco Narducci che indica in maniera univoca essere il vero corpo di Francesco Narducci. La la patente, non di tipo plastificato, risultava perfettamente asciutta, non sgualcita e con tutti i bolli regolarmente attaccati. Un sospetto che qualcosa non tornava doveva venire a chiunque avesse visto quella patente che non poteva essersi mantenuta in quello stato dopo 5 giorni in acqua. Inoltre il fatto che la patente fosse in tasca e il portafoglio in barca è almeno strano, di solito la patente si tiene nel portafoglio e non a giro per le tasche.
Altra irritualità è non chiamare il medico legale di turno. Quella domenica del 13 ottobre 1985 il medico legale di turno era la Dott.ssa Francesca Barone, patologa dell’Università di Perugia, la quale però non viene nemmeno avvertita.
Viene invece convocata la Dott.ssa Daniela Seppoloni di turno all’ospedale di Castiglione del Lago. La chiamano per “un’urgenza sul molo di Sant’Arcangelo, dove era stato rinvenuto un cadavere” come ebbe poi a dire la stessa Dott.ssa Seppoloni. Giunta sul posto la Dott.ssa si rese conto che la situazione si presentava anormale rispetto al ripescaggio di un annegato, troppe persone, troppe autorità. Al momento di iniziare a percorrere il pontile gli si fa incontro immediatamente il medico condotto, il dottor Alberto Trippetti, che le comunica che si tratta sicuramente di Narducci.
Una piccola digressione rispetto alle procedure corrette in caso di ritrovamento di un cadavere affogato. Il Prof. Franco Fabroni, titolare della cattedra di Medicina Legale dell’Università di Perugia, conferma che: “in caso di rinvenimento di cadaveri annegati al lago Trasimeno veniva chiamato il medico legale di turno e si effettuava sempre l’autopsia, senza la quale non si può in nessun caso certificare l’annegamento come causa di morte“. Aggiunge anche: “quando i cadaveri venivano ripescati a distanza di tre o quattro giorni dalla scomparsa si presentavano in condizioni normali, salvo le ipostasi agli arti inferiori e superiori o al volto, cioè un ristagno di sangue, e non presentavano una fase enfisematoso putrefattiva, poiché l’acqua rallenta i processi di putrefazione“. Questa procedura ed affermazione raccolta in seguito dagli inquirenti può essere confermata da qualsiasi medico legale e fornisce un’indicazione a riflettere sia sugli avvenimenti intercorsi sul pontile, sia sulle condizioni decisamente diverse del cadavere ritrovato rispetto ad un classico cadavere di un affogato.
Tornando sul pontile la Dott.ssa Daniela Seppoloni ricorda che le venne chiesto di redigere un semplice certificato di morte. Lei osservando il cadavere notò: “A prima vista il cadavere mi appare gonfio, specie al viso, alle braccia e all’addome edematoso, maleodorante e di colore violaceo. Io dovevo fare soltanto una constatazione di morte e redigere il conseguente verbale“. La Dott.ssa cominciò a fare il suo esame ispettivo ma immediatamente si creò un clima piuttosto particolare che la Seppoloni ricorda cosi: “Ricordo che Pier Luca Narducci e i dottori Morelli e Farroni mi giravano continuamente intorno e questo mi dava fastidio. Pressavano, commentando pesantemente il mio operato mentre effettuavo l’ispezione. Dicevano che «era uno schifo», che si trattava «di profanazione di cadavere, una cosa immorale». Furono cosi pressanti che a un certo punto chiesi espressamente di farli allontanare.” Dopo breve la Dott.ssa ebbe contatto con una persona in divisa, non meglio identificata dalla stessa che con voce perentoria ordinò che procedesse all’ispezione cadaverica, questo il suo ricordo: “In quel momento davanti a me si presentò un’autorità, di corporatura robusta, con una divisa scura, dei gradi sulle spalle e qualcosa sulle maniche. Questa persona mi chiese di fare una ispezione cadaverica.“
Istintivamente e dato il clima che si percepiva la Dott.ssa cercò di sottrarsi facendo notare che non era competente in merito a ciò che gli veniva chiesto: “Intorno a me c’erano i carabinieri di Magione. Io di norma redigevo solo certificati di morte, non avendo le competenze specifiche professionali per fare ispezioni cadaveriche. Così dissi che non ero in condizioni di poterla fare e che il cadavere doveva essere trasportato all’ospedale di Castiglione del Lago. Qui iniziarono insistenze con pressioni fortissime dicendo che si trattava di un caso urgente e doveva essere fatta sul posto. I familiari erano affranti e non si poteva attendere il trasporto alla camera mortuaria. Provai a suggerire di portare il corpo in un ambiente più idoneo, ma le pressioni diventano ancora più forti. Non importava nemmeno il fatto che questa ispezione fosse stata o no disposta dall’autorità giudiziaria, la esigevano subito e cosi sotto pressione cedetti.”
La Dott.ssa sotto una pressione psicologica rappresentata da svariate autorità cedette: “Chiesi quindi al Maresciallo Lorenzo Bruni di farmi da segretario per l’ispezione cadaverica. Il cadavere era impossibile da spogliare essendo gli abiti del tutto attaccati alla pelle. Così i vigili del fuoco con delle forbici iniziano a tagliare parzialmente i vestiti.”
Aperto il giubbotto si vede che il cadavere indossava una camicia e la cravatta, diversamente dal Narducci che aveva addosso una maglietta blu sin dal pomeriggio.
Circa l’abbigliamento di Francesco Narducci c’è la testimonianza della moglie Francesca Spagnoli, di Beppino Trovati e di Enzo Ticchioni, l’uomo che ha visto una persona riconducibile a Narducci sulla barca nei pressi del canneto davanti al castello dell’isola Polvese, dove poi fu ritrovata la barca. La Spagnoli lo ricorda con i jeans, Ticchioni con il giubbotto giubbotto addosso, Trovati con la maglietta. Il cadavere ripescato ha invece una camicia chiara e una cravatta ben allacciata e indossa un giubbotto che risulta aperto appena recuperato dall’acqua e che invece sarà descritto come ben abbottonato e teso sul ventre una volta deposto il corpo sul pontile. Narducci doveva avere dei mocassini e il cadavere ha degli scarponcini, inoltre indossa una cintura bianca che la Spagnoli non ricorda fosse nelle disponibilità di Narducci. Quindi o Narducci si è cambiato d’abito presso la villa di famiglia sul Trasimeno, ma contrasterebbe con la testimonianza di Trovati e Ticchioni o qualcosa nell’abbigliamento non torna. E’ anche indecifrabile il fatto che ci siano due giubbotti di pelle, uno addosso al cadavere ripescato e uno ritrovato sulla barca, che senso aveva portarsi dietro due giubbotti similari dove in uno tieni il portafoglio e nell’altro la patente?
Prosegue la dottoressa Seppoloni: “Viene scoperto quasi del tutto il braccio sinistro, una parte di quello destro, parte del torace, all’infuori delle spalle, il collo. Poi vengono abbassati leggermente i pantaloni, fino a poco sotto l’ombelico, visto che non vanno più giù.”
Scoperto il torace il secondo Brigadiere Aurelio Piga, notando ematomi sul petto del cadavere dice: “Ma quelle sono lesioni, questo non è morto annegato, quelle sono lesioni “. Il questore di Perugia, Francesco Trio, si volta stizzito e gli intima di tacere. Il brigadiere Piga commenterà in seguito: “Aveva vistosi ematomi sul petto, sulla zona mammaria e sulla parte sinistra del costato“.
Il brigadiere Lorenzo Bruni ricorda: “… mentre la dottoressa Seppoloni stava compiendo la ricognizione cadaverica, da dietro qualcuno aveva commentato dicendo: “probabilmente quei segni erano stati provocati dall’urto contro la barca, non appena Narducci era stato colto da malore.” Non viene individuato chi pronuncia queste parole, ma hanno un peso nell’annullare ciò che aveva notato il Brigadiere Piga e allo stesso tempo rassicurare e influenzare l’operato e l’opinione della Dott.ssa Seppoloni.
Prosegue la dottoressa Seppoloni: “Chiedo di girare il corpo, per osservare le spalle. Nel compiere l’operazione dalla bocca del cadavere esce un liquido, leggermente schiumoso, di colore rosso cupo, come un conato di vomito. Continuo a ripetere che in quelle condizioni è impossibile fare una ispezione, tanto più che i vigili del fuoco continuano ad avere difficoltà nel tagliare gli abiti per via del gonfiore del corpo. Le rimostranze cadono nuovamente nel vuoto, la persona in divisa e con i gradi insiste, ribadendo l’urgenza di provvedere. Ricordo che il volto era tumefatto e violaceo, appariva gonfio, edematoso. Esaminai la scatola cranica nella parte esterna, il volto, il collo e il resto e notai che non vi erano lesioni e altri segni particolari, pur non avendo io esperienza di ispezioni cadaveriche. Ripetei a me stessa che dovevo limitarmi ad accertare la morte e non la causa della morte.“
Il Maresciallo Lorenzo Bruni, che sta redigendo il verbale rispetto a ciò che dice la Dott.ssa, si trova in difficoltà in quanto quando detto dalla Dott.ssa era continuamente frammentato da pareri di persone che erano li attorno: “Mentre la dottoressa era intenta a verificare lo stato del cadavere, qualcuno da dietro cercava di suggerirle cosa dire, a me che cosa dovevo redigere nel verbale, forse erano medici. La storia delle centodieci ore non veniva dalla dottoressa ma era strana, perché era difficile stabilire l’ora esatta”.
Il Maresciallo Bruni ha modo di osservare da vicino il corpo del presunto annegato, che descrive così: “Era gonfio, con macchie. Mi dissero che era stato ripescato dentro un tofo, una rete dei pescatori. Indossava un paio di jeans tirati giù fino alla metà e una maglia scura, una specie di tuta con cerniera, e un giubbotto scuro di pelle, sembrava un sommozzatore, erano nere anche le scarpe. Dalla bocca usciva una saliva giallognola. Era stempiato ma dei capelli ricci parevano formare un semicerchio sulla testa. Dalle fattezze e dalla forma sembrava un negroide“.
I rilievi, secondo il Maresciallo Bruni, durano una ventina di minuti, pochissimi tanto che lo stesso Bruni riferisce le sue perplessità, espresse a bassa voce, al Capitano Francesco Di Carlo: “Capitano, qui le cose non mi sembrano molto chiare, ma le sembra questo il modo di fare una rimozione del cadavere?”. II Capitano dei Carabinieri Di Carlo risponde cercando di minimizzare e allo stesso tempo di tranquillizzarlo: “Non ti stare a preoccupare, fatti gli affari tuoi tanto la vita continua lo stesso, d’altronde qui ci sono tante autorità…“.
Nel verbale sottoscritto dalla Dott.ssa Seppoloni e redatto dal Maresciallo Bruni viene scritto “probabile annegamento“.
Sentita in seguito a verbale la Dott.ssa Seppoloni precisa: “Le pressioni ci furono anche affinché togliessi quel “probabile” e dessi per certa la causa della morte, dicevano, è chiaro questo è morto annegato. Il pressing aumentava ancora quando volevo scrivere anche che era necessaria l’autopsia, ma la pressione del Morelli e di Pier Luca Narducci fu talmente forte che mi trovai intimidita psicologicamente e pur avendo scritto “verosimilmente” ho desistito dal convincimento iniziale, quello di chiedere l’autopsia. Anche il Dott. Alberto Trippetti faceva leva sul dolore dei familiari e sul loro desiderio di riavere il corpo quanto prima“. Ed aggiunge: “Di sicuro il verbale di riconoscimento del cadavere, dove c’era scritto che Narducci era morto da centodieci ore, non fu opera mia ma venne redatto materialmente nel locale cooperativa di pescatori “Alba”. Dall’ispezione cadaverica, evidenziai comunque macerazione e necrosi iniziale della cute e delle mucose, edema tissutale, emodiluizione con perdita di liquido organico dalla cavità orale e dagli orifizi nasali, assenza di lesioni esterne visivamente e obbiettivamente apprezzabili sul cadavere esaminato.” (Dichiarazioni della Dott.ssa Daniela Seppoloni principalmente da verbale del 24 ottobre 2001)