“Ma io sono solo una vittima”

CAGLIARI Lo sospettano di una serie di atroci delitti, quelli attribuiti al cosiddetto mostro di Firenze, e l’ aula della Corte d’ Assise di Cagliari è zeppa di giornalisti, fotografi, curiosi. Ma lui, Salvatore Vinci, indiziato numero uno, mantiene i nervi saldi. E’ tutto un imbroglio, mi auguro che riuscirete a sbrogliarlo. Io sono una vittima. Anzi sono più di una vittima ma non so come dire, non so trovare la parola adatta. Spero che venga fatta luce sui fatti di Firenze, che venga scoperta la verità, dice con voce stridula l’ imputato mentre con le mani si attacca alle sbarre del gabbione. In Sardegna lo processano per omicidio premeditato, lo accusano di avere ammazzato a Villacidro, 28 anni fa, la prima moglie, Barbarina Steri. I testimoni, i giudici, parlano solo di questo ma nell’ aula aleggia il fantasma del mostro di Firenze. E di processi a Cagliari se ne celebrano due. Uno ufficiale che, almeno ieri, ha fatto segnare molti punti a favore dell’ imputato anche se contro di lui si è costituita parte civile la madre di Barbarina, Maria Luisa Tibet. L’ altro dibattimento, ufficioso, è legato alla tragica storia fiorentina. Tornerò a Firenze libero, salutatemi tutti. E’ basso, tarchiato, ha 52 anni. E’ stato sposato due volte e ha 4 figli. E’ stato formalmente indiziato dal giudice istruttore fiorentino Mario Rotella di tutti i delitti attributi al maniaco. Sono otto duplici omicidi avvenuti tra l’ agosto del 1968 e il settembre del 1985. Salvatore ha ricevuto otto comunicazioni giudiziarie. Ma io sono innocente, non ho fatto niente, non sono nemmeno un ladro di biciclette, non ho tirato neppure un sasso contro un tetto, afferma durante una lunga pausa dell’ udienza. Parla liberamente per quasi un’ ora. Non dirà mai la frase Io non sono il mostro, anche se fornisce un ritratto di questo inafferrabile assassino: E’ un uomo senza volto. E aggiunge: Non so come potrei descriverlo. Hanno detto che era una persona innamorata ma i suoi sono gesti orribili e orrendi. I guai di Salvatore nascono da un amico, Stefano Mele, marito di Barbara Locci, assassinata nell’ agosto del 1968 alle porte di Firenze mentre era in auto in compagnia dell’ amante, Antonio Lo Bianco. La coppia fu ammazzata a colpi di Beretta calibro 22. E’ la pistola che con il passare degli anni è divenuta il marchio del mostro. Per questo omicidio Mele fu condannato a 14 anni di reclusione. Confessò, ma molti particolari del delitto non furono chiariti. L’ arma non fu mai trovata. Oggi una parte degli inquirenti pensa che al mostro si può arrivare scoprendo la verità su questo primo e oscuro duplice omicidio. Mele è stato interrogato decine di volte: ha prima accusato Francesco Vinci, poi il fratello Giovanni e il cognato Piero Mucciarini, tutti arrestati negli anni passati e poi scarcerati. Nel 1985 puntò il dito contro Salvatore Vinci e quella volta per dimostrare la completezza della sua testimonianza raccontò la storia del delitto di Villacidro. Gli inquirenti gli hanno dato ragione. Il pm Enrico Altieri sostiene che Salvatore Vinci uccise con premeditazione la moglie. Le infilò un tubo del gas in bocca. In caso contrario il reato sarebbe già prescritto: sono passati più di vent’ anni. La premeditazione e la previsione di un ergastolo hanno fatto scattare l’ ordine di cattura. Da quando Salvatore Vinci è detenuto, il mostro non ha più ucciso. Non dovete chiederlo a me il perché, non dovete rivolgerla a me questa domanda, non mi si può fare una colpa se sono in carcere. Di pistole ho visto solo quelle che portano i carabinieri. E assicura: Io sono un gentiluomo, un signore, non posso vivere con questo pensiero del mostro. Il giudice Rotella non è riuscito a trovare il mostro e non si sposta dalla mia famiglia, prosegue. Prima mio fratello Francesco e ora tocca a me. Poi ricostruisce i suoi alibi, ammette placidamente che si era accorto di essere seguito (il pedinamento cessò alla vigilia dell’ ultimo duplice omicidio) attacca Stefano Mele, testimone senza valore. Contro Salvatore Vinci però c’ è anche un duro rapporto dell’ Arma dei carabinieri firmato dal colonnello Torrisi che nel 1986 comandava il nucleo operativo di Firenze. Lo so, lo so, Torrisi mi vede a modo suo, in maniera personale. E pensare che io con i carabinieri ho anche collaborato. Dalla Sardegna se ne andò nel 1960 dopo la morte della moglie: Camminavo per strada e la gente mi indicava come il vedovo. Non potevo più restare. Andò ad abitare a casa di Stefano Mele, a Signa, un paesino della cintura industriale del capoluogo toscano, dove comincia la tragica storia del mostro di Firenze. E’ una storia che, secondo i carabinieri, ha un prologo in Sardegna dove Salvatore Vinci uccise la moglie Barbarina perché gli era infedele. Ma al processo Salvatore non solo si è proclamato innocente ma ha difeso la memoria della donna. Ha parlato solo di amicizie e di amici infedeli. E quando è iniziata la sfilata dei testimoni il castello accusatorio ha cominciato lentamente a sgretolarsi. Una delle sorelle di Barbarina, Anna Maria, ha spiegato di aver fornito delle indicazioni grazie a un medium; il fratello, Salvatore Steri, ha detto ai cronisti di non aver mai pensato a un omicidio; il figlio, Antonio, ha sostenuto la tesi del suicidio. C’ è ben poco contro Salvatore Vinci, che il difensore, l’ avvocato Aldo Marongiu, definisce un nuovo Girolimoni.

dal nostro inviato PAOLO VAGHEGGI

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13 Aprile 1988 Stampa: La Repubblica – “Ma io sono solo una vittima”
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