Il 13 Dicembre 1989 il Giudice Istruttore Dott. Mario Rotella, con una sentenza di ordinanza chiude definitivamente la pista sarda che si era attivata nel 1982. Il G.I. Mario Rotella deposita una sentenza di 162 pagine in cui, dopo la lunga descrizione delle indagini effettuate e le relative conclusioni che queste indagini non sono riuscite a trovare nessuna prova che possa essere risolutiva in un giudizio, proscioglie per non aver commesso il fatto: Francesco Vinci e Salvatore Vinci, Giovanni Mele e Piero Mucciarini e Marcello Chiaramonti da ogni accusa. Ordinò di doversi procedere contro Ada Pierini per falsa testimonianza per intervenuta amnistia. Ordinò di non dover procedere contro Stefano Mele per il reato di calunnia verso Carmelo Cutrona perché il fatto non costituisce reato. Stefano Mele e Ida Pierini furono invece rinviati a giudizio per il reato di Calunnia nei confronti Francesco vinci. 

Con la creazione della SAM si era creata una frattura insanabile fra Mario Rotella sostenitore della pista sarda e i procuratori Pier Luigi Vigna, Francesco Fleury e Paolo Canessa i quali sono convinti di dover ricominciare da zero. Il G.I. Mario Rotella venne trasferito a Roma mentre il Colonnello Nunziato Torrisi viene trasferito a Lecce.

Questa la sentenza Rotella in originale.

Questa la sentenza Rotella trascritta:

Sent./Ord. n. 357/81 A R.G. +
+Dec.art. 74 CPP (n.1966/85 – P.M. riun.)

REPUBBLICA ITALIANA
—:—
in nome del popolo italiano
Il Giudice Istruttore del Tribunale di Firenze
ha pronunciato la seguente
SENTENZA – ORDINANZA
nel procedimento penale
contro

1) VINCI Francesco, n. Villacidro (CA) il 18 maggio 1943, res. Montelupo F.no, via Gramsci 166;
2) MELE Giovanni, n. Fondorgianus (CA) il 30 agosto 1923, res. Scandicci, via Manzoni n. 66;
3) MUCCIARINI Piero, n. Castelnuovo Berardenga (SI) il 20 luglio 1924, res. Scandicci, v. Manzoni n. 66;
4) CHIARAMONTI Marcello, n. Chiusdino (SI) il 12.5.1940, res. Piombino, via Donizetti 6;
5) VINCI Salvatore, n. Villacidro (CA) l’1 dicembre 1935, ivi res., loc. Is Guardias, in atto irreperibile;
6) MELE Stefano, n. Fondorgianus (CA), res. Ronco all’Adige, c/o Casa di Riposo S.Giuseppe, via Ippolita Forante;
7) PIERINI ADA, n. Città di Castello il 26 agosto 1950, in atto domic. Domegliara di S.Ambrogio Valpolicella (VR), via Brennero, 19

imputati

Vinci Salvatore

1) del delitto p. e p. dagli artt. 575, 577 n. 3 e cpv., al n. 5, 81 CP, perché, in concorso con Mele Stefano, già condannato con sentenza passata in giudicato, cagionava la morte di Lo Bianco Antonio e Locci Barbara, moglie del Mele, a colpi di arma da fuoco (cal. 22 L.R.), con premeditazione e profittando di circostanze di tempo, di luogo e di persona (tempo di notte in luogo isolato, mentre l’uomo e la donna erano in intimità all’interno di un’autovettura) tali da ostacolare la difesa pubblica e privata. In Castelletti di Signa, nella notte tra il 21 ed 22 agosto 1968.
2) del delitto p. e p. dagli artt. 575, 577 n. 3, 61, n. 5, 81 CP, perché, con le medesime modalità esecutive e aggravanti e la stessa arma da fuoco di cui al capo precedente, cagionava la morte di Stefanacci Claudio e Rontini Pia Gilda, in località Boschetta di Vicchio del Mugello il 29 luglio 1984.
3) del delitto p. e p. dagli artt. 575, 577 n. 3, 61 n. 5, 81 p.p. e cpv. CP, perché con le medesime modalità esecutive e aggravanti e la stessa arma da fuoco del delitto di cui al capo 1, e facendo altresì uso di arma a punta e taglio, in taluno dei casi seguenti (lett. a e c), a sussidio
dell’arma da fuoco, cagionava la morte di:
a) Gentilcore Pasquale e Pettini Stefania, in località ‘Fontanine’ di Borgo S. Lorenzo, la notte tra il 14 ed il 15 settembre 1974;
b) Foggi Giovanni e Di Nuccio Carmela, in località ‘Mosciano’ di Scandicci, la notte tra il 5 ed il 6 giugno 1981;
c) Baldi Stefano e Cambi Susanna, in località ‘Bartoline’ di Calenzano, la notte tra il 22 ed il 23 ottobre 1981;
d) Mainardi Paolo e Migliorini Antonella, in località ‘Baccaiano’ di Montespertoli, la notte tra il 19 ed il 20 giugno 1982;
e) Meyer Horst Wilhelm Friedrich e Rush Jens Uwe, in località ‘Giogoli’ di Scandicci, la sera del 9.9.1983 (con la variante che si trattava di due uomini distesi a riposare nel vano di un furgone);
f) Kraveichvili Jean Michel e Mauriot Nadine Jeanine Gisele, in località ‘Salve Regina’, di contrada Scopeti di S. Casciano V.P., l’8 settembre 1985 (con la variante che l’uomo e la donna giacevano in una tenda di tipo canadese);
4) del delitto p. e p. dagli artt. 410 cpv, 81 cpv CP perché deturpava il cadavere di Pettini Stefania (capo 3 lett. a) e di Stefanacci Claudio (capo 2), e mutilava quelli di Di Nuccio Carmela (capo 3 lett. b), Cambi Susanna (capo 3 lett. c), Rontini Pia Gilda (capo 2), Mauriot Nadine Jeanine Gisele (capo 3 lett. f), con un’arma da punta e taglio (verosimilmente coltello), dopo aver cagionato la morte di ciascuno, sullo stesso luogo del commesso omicidio, immediatamente dopo di esso.
5) del delitto di cui agli artt. 10 e 12 L. 14.10.1974 n. 497, 81 cpv, 61 n. 2 CP, per aver detenuto illegalmente in territorio della provincia di Firenze e portato in luogo pubblico al fine di commettere gli omicidi di cui capi precedenti, una pistola cal. 22 L.R. (tempo e luogo dei delitti d’omicidio).
6) del reato p. e p. dagli artt. 697 e 61 n. 2 CP e succ. modif., per aver detenuto, al fine di commettere più delitti, con l’arma indicata al capo precedente, munizionamento cal. 22 L.R (tempo e luogo della detenzione d’arma).
7) del reato ex art. 4 l. 18.4.75 n. 110, 61 n. 2, 81 cpv CP (porto di arma da punta e taglio; tempo e luogo di cui al capo prec.— v. com. giudiz.)

Vinci Francesco

— dei reati di cui ai capi 1, 3 (lett. a…d), 4, 5, 6 e 7 —
8) del delitto di maltrattamenti in famiglia, previsto dall’art. 572 CP perché, in Montelupo Fiorentino, fino almeno all’estate del 1980, percuotendo la moglie MELIS VITALIA, minacciandola ed offendendola, la maltrattava sottoponendola ad un regime di vita intollerabile.
— con la recidiva reiterata specifica (art. 99 CP)

Mele Giovanni e Mucciarini Piero

— dei reati di cui ai capi 1, 3 (lett. a…e), 4, 5, 6 e 7 —

Chiaramonti Marcello

— dei reati di cui ai capi 1, 5, 6

Mele Stefano

9) del delitto p. e p. arrt. 3b8 — 81 cpv. CP perché, in più occasioni dal 1982 al 16 gennaio 1984, incolpava falsamente Vinci Francesco e Cutrona Carmelo, davanti al p.m. e al g.i. di Firenze, ivi ed altrove, di aver ucciso, ciascuno in concorso con lui, il 22.8.1968, in Signa, la sua propria moglie, Barbara Locci ed Antonio Lo Bianco, premeditando con l’uno o con l’altro il delitto.
— con la recidiva specifica reiterata.

Pierini Ada

10) del delitto continuato di calunnia e falsa testimonianza (artt. 81, 368, 372 CP), perché interrogata come teste il 21 giugno 1985 ed il 26 giugno 1985 dal P.M. di Firenze, falsamente incolpava Salvatore VINCI di averla costretta — in concorso con altre persone ignote, mediante minaccia con una pistola — a congiungersi carnalmente con tali persone, in luogo pubblico, pertanto anche del reato di atti osceni, nonché falsamente affermava che la pistola suddetta era conservata nella camera da letto dell’abitazione di Vinci, nascosta sotto il pavimento.

— o — * — o —

lette le requisitorie del p.m. in data 3.3.86 (in una con richiesta di formale istruzione a carico di Pierini Ada) e, in data 7.2.89 (con richieste di ulteriori indagini ex art. 370 CPP) e in data 18.10.1989 ritenuto quanto alle requisitorie del 3.3.86 (archiviazione, relativamente a sospetta ipotesi di sfruttamento della prostituzione a carico di Salvatore Vinci) che, a stregua degli atti (fasc. 1966/85 P.M.), la notitia criminis appare infondata; ritenuto quanto alle requisitorie in data 7.2 e 18.10/1989:

P R E M E S S A

I – LA SERIE OMICIDIARIA

I casi di duplice omicidio sono 8, a partire dal 22 agosto 1968 in Signa, a finire, il 9 settembre 1985 in S. Casciano V.P.. In ciascuno è stata adoperata per uccidere un’arma da fuoco, contro entrambe le vittime. Si tratta sempre, a stregua dell’impronta di percussione sui bossoli, di una pistola cal. 22 L.R., di marca ‘Beretta’, serie 70.
A partire dal 1983, le perizie disposte dopo ciascun nuovo caso hanno comparato i reperti balistici rinvenuti con quelli del 1968. Si è riscontrata identità di tracce e perciò di arma.
Altre comparazioni parziali, che dimostravano l’unicità dell’arma, erano state effettuate nel 1982, tra i reperti di quell’anno e quelli del duplice delitto del 1968, del quale si era appena scoperto il precedente, a cura dei periti Castiglione e Spampinato. Ulteriore conferma si otteneva nel 1983/84, da Jadevito e Arcese, della Polizia Scientifica di Roma, anche con riferimento ai casi sopraggiunti e a tutti i precedenti.
Nel 1987 è stata depositata una perizia comparativa globale, compiuta da Salza e Benedetti del Banco Nazionale di prova, la quale in sintesi ha concluso: “1) le otto coppie di bossoli di cartucce cal. 22 L.R., marca Winchester, ciascuna pertinente ad un duplice omicidio, consumati rispettivamente nel 1968, 1974, 1981 e 1981, 1982, 1983, 1984, 1985, provengono tutte da munizioni che furono esplose in un’unica arma; 2) anche le pallottole repertate in occasione dei predetti duplici omicidi, alcune delle quali si trovano in condizioni tali da non poter essere comparate con le altre per il loro pessimo stato d’integrità, devono ritenersi provenienti da un’unica pistola; 3) non è stato possibile identificare l’esatto modello d’arma con cui furono esplosi i componenti di colpo repertati; esso deve comunque appartenere o all’uno od all’altro dei 5 modelli nel cal. 22 L.R. della cosiddetta serie 70, costruita dalla fabbrica d’armi Beretta, serie che comprende il mod. 71, 72, 74, 75, 76.”
I modelli differiscono significativamente tra loro solo per la lunghezza della canna, che misura 150 mm., invece di 90, ad esempio nel mod. 76. Quest’ultimo, comunque, è da escludersi, perché “approfondite ricerche presso il Servizio Vendite della Beretta hanno permesso di accertare che… i primi esemplari (del mod. 76) furono consegnati per la vendita solo nel dicembre 1968, ossia in epoca posteriore a quella del primo duplice omicidio.” (34-35, per. cit., vol. 7L).
Quanto alle cartucce adoperate, gli accertamenti peritali esperiti nel 1983 e nel 1984 non forniscono certezza. È possibile stimare, con sufficiente approssimazione, che le cartucce, di piombo nudo o in bagno di rame (più veloci), tutte Winchester, marcate ‘H’ sui fondelli, provengano da due partite e relativi inscatolamenti, ovviamente precedenti all’epoca di consumazione del primo omicidio.
È rimarchevole che, per la consumazione dei delitti del 1968 e del 1974, siano stati adoperati esclusivamente proiettili ramati, che invece ricompaiono solo sporadicamente, frammisti a quelli di piombo nudo, nel 1984. È perciò opinabile, ma solo opinabile, che lo sparatore, se si tratti di un’unica persona, fosse in origine munito di due sole scatole di cartucce (complete o non che fossero: vengono commercializzate in confezioni da 50).
L’esplosione di tutti colpi in una sola pistola è il dato costante per tutte le coppie di omicidi, che, insieme a quello meno significativo, della marca e del tipo delle cartucce, consente di ritenere la serialità omicidiaria.
Esistono altre costanti, ma non autonomamente significanti per la qualificazione della serie, processualmente rilevante ai sensi dell’art. 45 n 4 CPP (potendo, indipendentemente dall’arma, essere imitate).
Nel gennaio 1984, per esempio, in provincia di Lucca è stata assassinata una coppia in autovettura, con arma dello stesso calibro, ma diversa. Per creare una serialità che includa questo duplice omicidio, sarebbe necessario supporre che lo stesso omicida, fuori del territorio della provincia, usi un’arma simile, ma diversa. Non è possibile, in sede processuale, surrogare i dati obiettivi con ipotesi romanzesche, ferma la necessità di effettuare confronti o verifiche in parallelo, come nel caso di Lucca.
Nell’individuazione della serie è tuttavia possibile progredire attraverso l’analisi del rapporto con le variabili. Se ne dà conto qui di seguito.
In ciascun caso è stata uccisa, nel territorio della provincia di Firenze, una coppia eterosessuale, come nel 1968, ad eccezione del 1983 (Meyer — Rush). Tutte le coppie sono state uccise mentre erano in atteggiamento d’intimità, in ambiente isolato dall’esterno, di solito un’autovettura in sosta in luogo appartato, in piena notte, ad eccezione, del caso già menzionato del 1983 (si tratta di un furgone adattato a camper) e del 1985 (la coppia era all’interno di una tenda — tipo canadese, armata nei pressi di un’autovettura).
Cessano qui le costanti che assimilano i duplici omicidi successivi a quello del 1968. Vi sono bensì delle variabili che non conducono ad assimilazioni, quali il frugamento tra gli effetti personali delle vittime, ed in ispecie quella femminile, presente in alcuni dei casi dal 1974, e forse, già in quello del 1968 (ma riferito all’autovettura, e non vi è riscontro reale alle dichiarazioni del piccolo teste presente) e la manomissione dei cadaveri (che tuttavia nei delitti dal 1974 in poi è, palesemente, funzionale ad ulteriore e diversa materialità criminosa).
Una variabile del 1968, e cioè la presenza di terza persona, oltre alle vittime, nella specie il bambino, è assente nei casi dal 1974 in poi.
Per contro la variabile più rilevante (non è una costante perché manca nei casi del 1982-83) di questi ultimi e fortemente caratterizzante, l’uso di un utensile da punta e taglio, quale arma parallela e sussidiaria rispetto alla pistola e, dopo l’uccisione, quale strumento sui cadaveri, è assente nel 1968, e, al suo primo apparire, nel 1974, presenta caratteri obiettivamente diversi rispetto ai casi successivi.
In questa luce complessiva, due sono le serialità da tenere in considerazione: una più ampia, che comprende il caso del 1968, legata all’uso dell’arma e ad alle costanti sopra considerate, ed una dal 1974 in poi, sostanzialmente omogenea, nonostante le variabili riscontrate. Dal punto di vista processuale, ciò è quanto è necessario e sufficiente per un’istruttoria unitaria di tutti i casi di duplice omicidio considerati, dal 1968 in poi.

II – LIMITI DELL’ISTRUTTORIA FORMALE

Per quanto il movente non sia sempre evidente, la sua identificabilità (o, per contro, l’impossibilità di identificarlo), diviene metro per il ricorso a massime di esperienza e cioè a criteri per operare ricostruzioni logiche o indiziarie dei fatti.
L’identificabilità (o, per contro, l’assenza apparente del movente) non autorizza ulteriori speculazioni, essendone essa già una di per sé, in quanto legata a valutazioni probabilistiche, che si effettuano sulla scorta del ‘come’ del delitto. Per tale ragione non è consentito nel processo dar per certo, e spesso neanche per probabile, quanto si voglia stimare intorno al tipo d’autore.
Nulla esclude, per via di abduzione o intuitivamente, e insomma astraendo dalla logica dell’induzione, che è sommatoria di fatti concordanti, che si possano combinare talune delle variabili accertate, per aprire nuove piste d’indagine.
Ma si tratta appunto di ipotesi di lavoro, la qual cosa impedisce che, nel processo, possano essere utilizzate in pro o a favore di chicchessia.
Analogamente, il semplice fatto del mancato ritrovamento dell’arma del delitto nel 1968, dal punto di vista della logica processuale, non conduce molto lontano, perché apre più possibilità. La persona già condannata per quel delitto può essersi liberata dell’arma, reperita successivamente da terzi o averla lasciata ad altri. Supponendosi che altri abbia concorso nel reato, il primo autore già individuato potrebbe conoscere il destino della pistola, ma non sicuramente e per nulla, secondo scienza diretta, dopo il suo arresto.
È necessariamente poco per trarre illazioni rassicuranti intorno agli altri delitti, consumati a partire da oltre sei anni dopo.
Soccorrono altre ipotesi, pure formulate, circa la simiglianza dei duplici omicidi, ma niente esclude che l’arma sia passata di mano e con essa la rappresentazione scenica di ciascun fatto. Lo affermano implicitamente i periti intorno al tipo d’autore, incaricati dal p.m. dopo il duplice omicidio del 1984, allorché suppongono che l’autore dei crimini dal 1974 in poi potrebbe essere stato meramente presente a quello del 1968.
L’ipotesi su cui regge l’istruttoria è, perciò, in partenza, solo la più probabile. Si suppone cioè che, per le costanti e le variabili sopra osservate, una persona, forse determinata da insania, presente al primo delitto, ne fosse o non esecutore, conservando l’arma, se ne sia poi servita per commettere gli altri, sul modello del primo.
Questa ipotesi, in effetti, ammette varianti legate a circostanze diversamente influenti nella ricostruzione del primo duplice omicidio. Non ha invece alternative credibili, se solo si viene meno al presupposto che, siano uno solo o più e in tempi diversi gli esecutori, a quello solo o a tutti, se non altro attraverso il legame del destino dell’arma, si devono attagliare le induzioni che derivano dal primo delitto, esattamente come quelle che provengono da tutti gli altri. Non è insomma possibile ipotizzare la serie omicidiaria eliminando le differenze, vuoi trascurando talune variabili o forzandole in una spiegazione di comodo, vuoi creando costanti artificiali. È il modo più sicuro per allontanarsi dalla verità, per quanto quella che s’intravvede possa contrastare l’immagine maggiormente suggestiva che se ne sia fatta.
Per esempio, supponendo un solo esecutore in tutti i casi, dal 1974 in poi, non è possibile ipotizzare che fosse solo anche nel precedente del 1968. Può essere un’ipotesi di lavoro d’indagine di P.G., insomma di ricerca generica (v. la ricerca dell’origine della pistola — cfr.i volumi d’indagine agli atti), ma non può fondare alcun convincimento giurisdizionale in corso d’istruttoria, senza travisare il tema specifico della prova.
Sono in sintesi insuperabili i dati obiettivi raccolti subito dopo il fatto del 1968, per i quali esso ha caratteristiche tali da non poter essere assimilato, all’evidenza, ai delitti successivi, se non per le costanti ravvisate [di questa evidenza sono, per esempio, convinti i periti intorno al tipo d’autore nominati dal p.m. nel 1984, che definiscono la serie ‘maniacale’ circa i delitti dal 1974 in poi].
Non è neanche possibile ipotizzare il contrario, e cioè che tutti i delitti abbiano un movente, e insomma l’esecutore avesse un interesse diretto contro quelle persone e non altre, escludendo, in questo senso, le differenze tra i fatti, sotto il profilo del tipo d’autore.
Ogni delitto ha una sua storicità e il movente è, per definizione, sempre e soltanto un’ipotesi di lavoro, formulabile sulla scorta delle acquisizioni intorno al ‘come’, che lasciano illazionare sul ‘perché’. Analogamente lo è l’assenza di movente. Intanto è possibile creare una serialità attribuibile ad un solo tipo d’autore, a partire dal 1974, in quanto per ciascun caso, da quel momento in poi, non si riscontra alcun indizio di movente [In questo senso sono anche i periti già indicati].
L’unica ipotesi accettabile, intorno al possibile autore dei delitti dal 1974 in poi, deve tener conto e delle particolarità del duplice omicidio del 1968 e della misura di verità residua dall’accertamento intorno alla persona già giudicata.
L’analisi delle probabilità deve ripercorrere l’itinerario logico della prima indagine, eventualmente per giungere a rifiutarlo, ma non può apoditticamente prescinderne.
Fuori di questa traccia, non è dato ricorrere all’istruttoria del giudice, intesa nel senso descritto dall’art. 299 p.p. CP, che dispone il compimento di “tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti e allo svolgimento dell’istruzione appaiono necessari per l’accertamento della verità”.
Non si può neanche abbandonarla intuitivamente, per sopravvenienze inattese, come pure si è fatto, in qualche misura, per esempio dopo il duplice omicidio di Vicchio, una volta accertata la pertinenza del nuovo fatto alla serialità individuata.

III – RAPPORTI CON IL PRECEDENTE GIUDICATO

L’ipotesi di lavoro che nasce dallo sviluppo degli atti è non solo obbligatoria, ma è l’unica logicamente possibile, in mancanza di elementi che revochino in dubbio le stesse acquisizioni su cui si fonda, e insomma sino a prova contraria della sua validità.
E non può stimarsi tale, quella che la persona condannata per il primo delitto, non riuscendosene a trarre oggi indirizzo risolutivo per rintracciare una eventuale correo, sia in effetti innocente.
L’impossibilità di ritornare sul giudicato, non è teoricamente preclusa, in questo caso, dal dettato dell’art. 554 n. 3 CPP, che consente la revisione “se dopo la condanna sono sopravvenuti o si scoprono nuovi elementi di prova che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il condannato dev’essere assolto ai sensi della prima parte o del terzo capoverso
dell’art. 479;”. Ma tanto significa proprio che i nuovi elementi devono corrispondere a canoni logici, che determinino un diverso sviluppo degli atti, come indicato nell’art. 299.
Nel 1982, la scoperta che la pistola usata per omicidi commessi a partire dal 19841, era la medesima adoperata per il duplice omicidio di cui Mele era stato dichiarato colpevole, in effetti poteva aprire questa possibilità, vieppiù che i delitti successivi avevano analogo oggetto, una coppia appartatasi in macchina. E difatti fu dichiarata dal p.m. ai familiari del Mele.
Trattandosi poi anche di nuovi delitti, pur essendo Mele detenuto durante la commissione di quello consumato nel 1974, non si poteva escludere la sua capacità di testimoniare, a norma dell’art. 348 cpv CPP. Di fronte al fatto che l’arma continuava ad uccidere, diveniva anche credibile che le sue dichiarazioni, a partire dall’agosto del 1968, fossero state rese per evitare il pericolo di un danno grave a se stesso o ad un prossimo congiunto, e quelle nuove potenzialmente idonee ad eliminarlo.
Così esplicitamente il g.i. il 27 luglio 1982, escutendo Stefano Mele nel Veronese, prima della riapertura delle indagini circa il duplice omicidio del 1968 (cfr. capo IV).
Nei fatti, quand’anche vi fosse stata la nullità prevista nella norma indicata, essendovi acquiescenza da ogni parte, e addirittura richiesta accolta di confronto e senza riserve, da parte di ogni nuovo imputato, ere da tenersi sanata, secondo costante giurisprudenza.
Ma il problema reale era un altro, e cioè proprio quello dell’implicazione in sé del Mele nel duplice omicidio del 1968, quali che fossero le sue dichiarazioni. Il problema era ineludibile per l’istruttoria, già avviata contro persona imputata di uno dei duplici omicidi (Spalletti) e tesa alla ricerca del colpevole di tutti. L’implicazione del Mele significava l’introduzione nella serie dei delitti consumati, a quell’epoca (1982) esclusivamente contro coppie eterosessuali, di un principio che appariva modello per i susseguenti delitti maniacali.
Il modo stesso in cui veniva intrapresa questa nuova indagine, come si vedrà, è stato assolutamente determinante per i suoi sviluppi successivi, a cagione degli intrecci oggettivi e probatori. Ma prima di trattarne è necessario analizzare il delitto ed il processo del 1968, dando conto delle indagini svolte in merito.
Prima d’iniziare, dev’esser detta un’ultima cosa.
L’istruttoria, come tutte le istruttorie, è rivolta al passato. In questa misura, e solo in questa, la ricerca ha avuto per oggetto anche quello che poteva ancora accadere, e che è accaduto mentre si svolgeva.
Ogni diversa istanza di difesa sociale ha carattere di politica criminale e, come tale, non ha nulla a che fare con la libertà di convincimento del giudice, insieme obiettivo e limite della sua funzione.

CAPO I

—1968 —

1.1 – LA SCOPERTA DEL DUPLICE OMICIDIO

Alle due della notte del 22 agosto 1968, Francesco De Felice sente suonare il campanello di casa, in via Vingone 154/1 di S. Angelo a Lecore, tratto della via Pistoiese in comune di Campi Bisenzio.
Dalla finestra a piano della strada si affaccia e vede un bambino di circa 7 anni che gli dice: “Aprimi la porta che ho sonno. Ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina.”
Superato lo sbalordimento, De Felice lo fa entrare in casa. Il bambino dice di chiamarsi Natalino e che è di Lastra a Signa. Ripete quanto ha già detto e aggiunge che la vettura si trova lungo una stradina campestre che principia di fronte, dall’altra parte di via Pistoiese, ed ha una luce che si accende e si spegne. Natalino indossa maglia e pantaloni corti, i calzini, ma non le scarpe.
Insieme al vicino Marcello Manetti e con la macchina di lui, De Felice si reca a S. Piero a Ponti e ritornano a casa con il piantone della caserma dei Carabinieri. Tutti e tre, portando con loro il bambino, imboccano la stradina che, superato il fosso di fronte a casa, si inoltra nei campi.
L’andare, dopo un po’, si fa disagevole, perché la via è ostruita da cumuli di pietre. Superati i primi ostacoli, sono costretti a tornare indietro.
Passando per Signa, e seguendo le indicazioni del bambino, che afferma di essere stato ivi a cinema, imboccano la strada di Castelletti e, poco dopo il bivio di Comeana a sinistra, girano in una strada campestre sulla destra, fiancheggiata dallo stesso lato dal Vingone, che non è visibile, per l’argine alto e per la fitta vegetazione estiva. Le indagini successive dimostreranno che, in poco più di un paio di chilometri e con una deviazione, la stradina è proprio quella che termina sulla Pistoiese, di fronte alla casa di De Felice.
A circa cento metri dall’inizio, scorgono il posteriore di una Giulietta bianca tg. AR, con il lampeggiatore destro in funzione.
Con l’ausilio di una lampada portatile, notano all’interno della Giulietta i cadaveri di un uomo e di una donna.
Non vi è nessuna luce d’intorno e neanche quella della luna.

1.2 – INDAGINI SUL LUOGO E ACCERTAMENTI PERITALI

I Carabinieri della tenenza di Signa, accorsi, rilevano che la macchina ha la portiera posteriore destra dischiusa, il finestrino anteriore sinistro abbassato di pochi centimetri e quello destro (NdR in realtà è il sinistro) per metà.
Dalla portiera del lato di guida, apertala, fuoriesce una scarpa maschile. A destra, tra il sedile del passeggero, dov’è l’uomo, e la battuta della portiera, si rinvengono un borsellino da donna ed un fazzoletto.
Il cadavere dell’uomo è supino perché lo schienale è abbassato sino al sedile posteriore. Con le mani regge i pantaloni, che sono sbottonati e con la cinta aperta. Sulla spalla sinistra e sul ginocchio, visibili tracce di sangue.
La donna è semisdraiata sul sedile di guida, con il capo reclinato a sinistra e le braccia penzoloni. È scoperta sino all’inguine. Le sue scarpe sono sotto l’altro sedile. Sul suo petto, in parte scoperto, sono evidenti fori di colpi di arma da fuoco e macchie di sangue all’altezza dell’ombelico. La catenina al collo è spezzata in due punti. Il piccolo frammento intermedio è attaccato alla pelle.
Dietro il sedile ant. destro si rinviene un proiettile calibro 22 L.R.. Tre bossoli con la lettera ‘H’ sul fondello, dello stesso calibro, sono trovati a sinistra della vettura (altri due bossoli saranno trovati nell’interstizio tra il sedile e lo schienale posteriore più tardi, un’altra pallottola tra i vestiti della donna, tre sono nel suo corpo ed una in quello dell’uomo. Nelle perizie balistiche di quest’istruttoria, per la pessima conservazione delle ogive, praticamente solo i bossoli saranno utili per comparazioni, ma sufficienti).
Tra il sedile anteriore e quello posteriore sono anche scarpe infantili, attribuite a Natalino.
L’ufficiale sanitario del luogo, intervenuto, stima la morte di entrambi seguita ad emorragia, cagionata da colpi di arma da fuoco (cfr., per tutti questi aspetti, il rapporto 21.9.1968, Nucleo Invest. CC. di Firenze con alleg., vol. I).
La relazione peritale dirà, qualche mese più tardi, che i colpi sono quattro per ciascuna vittima, nonostante l’uomo rechi 7 fori d’ingresso, essendo tre, dei quattro proiettili, passanti per il braccio sinistro, penetrati nel torace. La donna presenta sei fori, di cui i due anteriori sono d’uscita.
I fori d’ingresso sono abbastanza prossimi su ciascuna delle vittime. Uno solo è eccentrico, sulla Locci, alla spalla sinistra.
Sarebbe stato il primo, cosicché la donna si sarebbe rovesciata sul sedile, costringendo un mutamento di traiettoria di quelli seguenti. Il luogo di provenienza degli spari sembra il medesimo, ma la direzione dal basso verso l’alto (rispetto all’asse verticale del corpo che si presume in posizione pressocché orizzontale) di un colpo passante dal fondo schiena alla zona superiore dell’addome, lascia supporre al p.m. in requisitorie del 30.9.69, che lo sparatore abbia prima esploso i colpi dal finestrino posteriore sinistro e poi dalla portiera anteriore destra.
Si tratta di valutazioni opinabili. I periti di Modena, incaricati nel 1984 (vol.8/B; 4), stimano viceversa che lo sparatore non si sarebbe spostato rispetto al bersaglio femminile, e che non sarebbe neppure possibile essere certi circa quale delle due vittime sia stata attinta per prima dagli spari, laddove nel 1969 si pensa che si tratti dell’uomo (cfr. le requisitorie cit.).
La differenza non è irrilevante. Una duplice posizione dello sparatore può far pensare anche a diversi esecutori, cosa che invece i periti del 1984 sono propensi ad escludere.
La posizione in cui è stata rinvenuta la donna troverà una spiegazione abbastanza verosimile nella ricostruzione che suo marito, Stefano Mele, farà due giorni dopo, e così pure la perdita della scarpa da parte dell’uomo. Analogamente la troverà il lampeggio della freccia (ma non si può escludere che l’avesse lasciato il Lo Bianco dopo la svolta, sembrando estemporanea, per quanto istintiva, l’osservazione di Mele già durante il sopralluogo — v. infra 2.4).
Nulla di preciso sarà appurato, invece, circa lo strano atteggiamento dell’uomo che è fermo nell’atto di tirar su o scorciare i pantaloni. L’indizio indiretto proviene sempre dal racconto del Mele, allorché dirà che la moglie, prima degli spari, era distesa sull’uomo (cfr. interr. 23.8.68 ore 21,30, vol. I, atti p.g. e, in questa sede, loc. cit.). È opinabile che questo, a differenza della compagna, in condizione di poterlo fare, si sia accorto del sopraggiungere dell’estraneo e sia stato fermato dagli spari nel gesto istintivo di ricomporsi.
I periti di Modena stimano che nessuna attenzione sembra essere stata prestata dall’omicida ad oggetti presenti sulla scena del delitto (peraltro il borsellino della donna, rinvenuto come si è visto, conteneva circa 27.000 lire).
La cosa viene riguardata sotto un profilo finalistico (eventuale destino di quanto trafugato al feticismo), che realmente non trova spazio nella specie.
Tuttavia i cadaveri appaiono manomessi (v. in particolare la posizione della donna, e la scarpa dell’uomo) e Mele, confessando, spiegherà di averlo fatto. Non si può escludere che la ricerca di oggetti sia stata effettuata, con una maggior discrezione che non nei casi successivi. Nel verbale del 23 aprile del 1969, durante l’escussione di Natalino, il G.I. riferisce in forma indiretta: “Il bambino aggiunge di ricordare che la mamma aveva messo i denari, anzi il borsellino, sotto il sedile della macchina e che lo zio Pietro frugò nel cassetto del cruscotto ed andò via.” (pg. 46, 46r, esc. testi). È difficile stabilire se il bambino sia attendibile. Ma è rilevante che possa dirlo, senza suscitare perplessità.

1.3 – ANALISI DEL COMPORTAMENTO DI NATALINO

L’esame degli aspetti generici del delitto va completato con altre osservazioni.
Innanzitutto è assolutamente probabile la presenza di Natalino sull’autovettura al momento del delitto. Ciò non solo perché è comparso circa un’ora dopo, sapendo della morte della madre, in una casa a pochi chilometri di distanza, e perché le sue scarpe sono state ritrovate sull’autovettura, ma anche perché è apparso in grado di indicare due diverse direzioni per raggiungerla (cfr. De Felice e Manetti, ancora nel 1985, vol. 7 G, esame testi).
Bisogna che abbia assistito al fatto, salvo supporre che sia stato procurato un silenziamento degli spari (ma in nessuna perizia balistica appaiono esplicitate ragioni tecniche per sostenerlo, anzi è da ultimo escluso). Se dormiva dev’essersi svegliato al primo colpo. Ciò non significa che abbia visto lo sparatore e ancor meno che potesse ravvisarne le sembianze.
Ha invece visto chi ha rimosso i cadaveri, subito dopo il fatto, semprecché non si sia nel frattempo allontanato dal veicolo e, ovviamente, chi abbia preso contatti con lui.
Tal cosa riallaccia il discorso alla sua comparsa presso la casa di De Felice alle due di notte.
A livello di induzione generica non è possibile escludere del tutto che egli si sia portato da solo a quella casa, partendo dalla vettura, semplicemente proseguendo in avanti rispetto alla direzione del veicolo fermo. Il percorso è di oltre due chilometri (Km. 2,1, per l’esattezza) e completabile, come si è altrimenti sperimentato (da ultimo due volte, con Stefano e prima ancora con Natale Mele nel 1985, cfr.: rispettivamente vol. 7 I, fasc. C e 7 G, fasc. C) allorché ha un buon fondo, in un tempo tra i trenta e i sessanta minuti. È pressocché rettilineo, salvo quanto appresso si dice.
Quasi sul finire, svoltando a destra su un ponticino che attraversa il Vingone, forma un bivio. Da quel punto, immessisi sul ramo che prosegue nella direzione originaria, si scorge la casa del De Felice che allora, come in questi anni, ha un fanale pubblico sulla facciata. Per raggiungerla è necessario attraversare la strada asfaltata su cui sfocia il percorso campestre.
Il percorso era impossibile per un veicolo a quattro ruote, se non anche a due, e disagevole per persone a piedi, pure ben calzate (il comandante della tenenza di Signa, m.llo Ferrero, lo sperimenterà proprio con Natalino il 24 agosto successivo, di pomeriggio, v. verb. all. a rapp.).
Senonché si era di notte e senza luna (cielo coperto e falce invisibile), il bambino era senza scarpe, ma non con i calzini strappati, né leso in genere. Finalmente, sparse lungo il percorso, alcune case lo fiancheggiano. E vi sono svariate deviazioni, prima di giungere alla Pistoiese. Si tratta di circostanze tutte, che appaiono incompatibili con le presumibili attitudini di Natalino a compiere il tratto da solo, raggiungendo quella meta improbabile e distante, e senza guida alcuna.
Vi è ancora una cosa da porre nel quadro generico, ed è l’atteggiamento complessivo del bambino.
Resosi conto che la madre e lo “zio” erano morti, avrebbe avute non solo la determinazione necessaria per raggiungere la casa De Felice, in una direzione opposta rispetto a quella che gli era già nota per l’andata (e ivi, poche decine di metri prima, era un casolare, proprio all’angolo della via di Castelletti), superando, scalzo, gli ostacoli nel buio pressocché assoluto, ma anche la capacità di prospettare sinteticamente e senza alcuna emotività, dopo il trascorso, tutto e solo quanto utile, per lasciar intendere i suoi bisogni, la posizione del padre e quella della madre.
Bisogna far forza a troppe massime d’esperienza, per ritenerlo capace di tanto, per quanto avvezzo alle crudezze potesse essere e correlativamente insensibile. È per contro significativo che appaia in ogni altra circostanza assai fragile e propenso a ripetere quanto gli si è detto di riferire, come egli stesso dichiarerà (cfr. i verbali al g.i. e in assise — cap. 3).
Per completezza è necessario ancora osservare che egli a De Felice riferisce il suo nome e che è di Lastra a Signa, ma non il suo cognome. La prospettiva di identificarne la famiglia, prima di riaccompagnarlo a casa o di verificare se veramente la mamma e lo zio sono morti in macchina, non è attuale per chi lo riceve. Né risulta che ci sia stato modo di sincerarsi della sua identità prima di trovare i documenti degli uccisi.
Il bambino misteriosamente apparso a De Felice professa un obiettivo esplicito (si rilegga la frase riportata sub 1.1), cioè dormire, perché ‘è stanco’ (e potrebbe sembrare ovvio, ma non è così: ci si chieda quante volte, qualsiasi altro bambino, di quell’età, dopo quel trascorso, l’avrebbe pronunciata) e, poi, di essere portato a casa.
L’aspetto narrativo, nel suo discorso, è pressocché assente. Non dirà neppure perché gli adulti sul veicolo sono morti, e si è visto che è improbabile che non abbia almeno udito gli spari. Si potrà cavargli di bocca solo poche altre cose, salvo scoprire che ha buona memoria di luoghi e fatti. In effetti il suo comportamento è privo di qualsiasi naturalezza.
Il suo scopo professo appare, in certa misura, congruente con quello presumibile dell’omicida, chiunque sia: un ritardo nell’inizio delle ricerche.
Esse possono principiare in due modi: identificando il bambino, ma lui di fatto non lo consente, o identificando i cadaveri, e bisogna raggiungere la macchina a mezzo del bambino, per una strada assai difficile.
In ogni modo, l’obiettivo più lontano è proprio quello che si raggiunga subito la casa del bambino.
Alla sua casa, peraltro, il bambino fa un altro implicito riferimento. La sua prima espressione, dopo quella del bisogno, è: “Ho il babbo ammalato a letto”. Ma la frase non ha legami con le cause attuali di abbandono. “Il bambino non chiede, essendo stato privato della madre, di essere portato subito dal padre. La frase è invece adeguata allo scopo professo di non voler tornare subito a casa, dove il padre giace ammalato e dove non ci sarà la madre, come spiega immediatamente dopo (“la mamma e lo zio sono morti in macchina”).
Il discorso di Natalino, riportato fedelmente più volte negli atti di P.G. e da De Felice, anche nel corso di questa istruttoria, può sembrare occasionale e sin troppo suggestivo. Ma, è un fatto, ha una sua intrinseca coerenza e, per essere tragico nel suo significato complessivo, non tradisce alcuna pulsione emotiva di chi lo pronuncia, per quanto ne possa indurre in chi l’ascolta.
La condizione di scarsa emotività di Natalino, e per contro la sua laconicità, al momento della comparsa presso i De Felice, appaiono obiettivi, non meno del suo essere scalzo, ma con i calzini non laceri, a qualche chilometro dal luogo ove erano rimaste le sue scarpe, e dell’aver fatto ritrovare il veicolo dove erano gli uccisi, lui stesso rimasto incolume.

1.4 – LE DISTANZE

Da ultimo colpirà gl’investigatori il problema delle distanze. Vi sono circa cinque chilometri e mezzo dal cuore di Lastra a Signa a Castelletti, dove è avvenuto il duplice omicidio. Poco meno della metà del percorso, dalla piazza del cinema, da cui, si appurerà, sono usciti dopo l’ultimo spettacolo gli uccisi, principia in salita ed è assai disagevole. Si stima probabile l’uso di un veicolo a motore per seguire la ‘Giulietta’ del Lo Bianco.
Non si pensa alla possibilità che l’omicida fosse già sul posto ad attenderla. Ed in effetti le indagini successive non dimostrano che in quel luogo, a preferenza di altri, la coppia fosse solita portarsi (salvo un’affermazione in contrario di Giovanni Mele, fratello di Stefano, nel 1984) né che il posto fosse in genere frequentato da coppie clandestine, più che ogni altro viottolo di quella zona, in cui la cosa, e a quell’epoca, e per giunta in ora così tarda, si verificava di rado.
L’esperienza dice anche che l’assassino, fosse o non già sul posto, dopo il delitto avrebbe dovuto curare d’allontanarsene al più presto.
In altri termini, il luogo era obiettivamente difficile da raggiungere a piedi e da abbandonare con l’opportuna velocità, consumato il delitto.

1.5 – GLI UCCISI E I PRIMI SOSPETTATI

Identificati i cadaveri nel cuore della notte, il comandante della tenenza di Signa, m.llo Ferrero, fa avvertire il comandante della stazione di Lastra a Signa, m.llo Funari.
Questi conosce bene l’uccisa, Barbara Locci, sarda d’origine e maritata con un sardo più anziano di lei di circa vent’anni, Stefano Mele (che è del 1919). La donna era chiacchierata per i suoi rapporti con altri uomini e il marito noto per la sua tolleranza.
Nel novembre dell’anno precedente, uno degli amanti, Francesco Vinci, è stato tratto in arresto, per denuncia di concubinato con lei, e dopo pubblica sorpresa e relativa scenata, dalla moglie Vitalia Muscas (poi divenuta Melis). Mele non ha battuto ciglio. Anzi si è fatto custode di una motoretta (Lambretta) dell’altro durante la sua detenzione.
Uscito dal carcere, Vinci ha ripreso, senza darsi problemi, la relazione. Successivamente Mele, subito un incidente, in febbraio è stato in ospedale e, durante questo periodo, l’altro (Mele, v. più  avanti, 2.3, dirà che si tratta di Salvatore, fratello di Francesco, ma poi, e anche in questa istruttoria, s’intende che si tratta di Francesco) si è installato in casa sua. La storia è durata sino a fine primavera e forse durava ancora. La Locci, intanto, incurante della gelosia manifesta dell’amante, men che di quella, se vi è, occulta del marito, è passata ad altri uomini, ultimo colui che è stato ucciso insieme a lei, Antonio Lo Bianco.
Questi è un muratore siciliano, immigrato e sposato con una sua cugina, Rosalia Barranca, dalla quale ha avuto tre figli. Le loro condizioni non sono molto più agiate di quelle dei Mele, che vivono in condizioni precarie. La Barranca ha a Lastra un fratello, Giuseppe, che ultimamente lavora con Mele ed un fratellastro, Colombo Antonino, al quale è molto legata.
Subito escussi, costoro dichiareranno che la sera prima il cognato avrebbe voluto accompagnarsi con loro e con un amico per andare a cena, ma lo avevan rinviato dalla moglie che non gradiva sue assenze prolungate da casa. Eran tornati tardi e nulla avevan saputo del mancato rientro del Lo Bianco.
Quello stesso pomeriggio saranno interpellati anche i fratelli dell’uccisa e forniranno i loro alibi.
Non è improbabile che siano stati fatti sommari riscontri. Ma delle escussioni e di correlative attività non è traccia alcuna in atti. E sono cose che si sono apprese durante questa istruttoria dagl’interessati, in taluni casi approfondendole per quanto possibile, ad oltre 15 anni di distanza dai fatti e senza tracce documentali, con indagini specifiche e dettagliate escussioni testimoniali (cfr. infra vol. 5/E, 6/B, etc.).
Ma il vero bersaglio del m.llo Funari è Stefano Mele, a suo parere inetto ma forse connivente e, più di lui, Francesco Vinci, che stima capace del delitto.
Li manda subito a prelevare.
Tra le sei e le sette del mattino i carabinieri bussano al campanello dell’abitazione di un vicino di Mele. Ma è quest’ultimo che si affaccia dalla finestra di casa sua. È completamente vestito e non reca tracce apparenti di malattia. Ha le mani sporche di grasso.

CAPO II

— 1968: STEFANO MELE —

2.1 – EVOLUZIONE DELLE DICHIARAZIONI DI MELE

Nel 1984, si apprenderà dal m.llo Funari, che il Mele è stato sondato immediatamente e poi formalmente interrogato. Ed anche a Vinci, che ha riferito di non essere uscito di casa la sera prima, e sarà avallato dalla moglie, è stato subito chiesto l’alibi.
L’interrogatorio di Mele, del 22 — ore 9,40, è il primo di una serie di tre resi alla p.g. (gli altri due sono del giorno dopo: al mattino — ore 11,35, e alla sera — ore 21; cfr.: atti generici e di p.g. e all. al rapp.).
Attraverso quattro fasi, egli passa dalla negativa assoluta alla confessione piena con chiamata in correità.
Nella prima fase fornisce un racconto succinto dei precedenti suoi e di sua moglie, indica il suo alibi, che è lo stesso già fornitogli dal figlio. Stava male sin da quel pomeriggio, quando sono andati a casa sua Enrico, cioè Lo Bianco, e tale Virgilio. La sera stessa, intorno alle 22, Enrico è uscito con sua moglie e suo figlio, che non sono più tornati. Lui non si è mosso da casa.
Ad una singolare domanda degl’interroganti, che gli riferiscono solo allora del duplice omicidio, risponde che non sa ‘chi potesse avere interesse ad uccidere la moglie’.
La seconda fase si svolge dopo un’interruzione del primo interrogatorio, durante la quale gli è stato mostrato Cutrona Carmelo, da lui detto ‘Virgilio’, e comunque riconosciuto.
Verosimilmente ha visto anche Francesco Vinci, che è già in caserma. Ai tre sono effettuati prelievi con il guanto di paraffina, che risulterà positivo per Mele, tra il pollice e l’indice della mano destra (e si sa che aveva per il resto le mani sporche di grasso), negativo per Vinci (anche lui sottoposto a prelievo alla sola mano destra), e positivo su tutte e due la mani per Cutrona (cfr.: c. 120 atti generici) — (il Cutrona però, per lavoro in un tacchificio, maneggia oggetti verniciati con nitrati). La prova, comunque, come giudicano gli stessi che l’hanno effettuata, è discutibile, per quanto suggestivo il risultato riguardo al Mele, in un punto ove rincula la massa battente della pistola. Cutrona, probabilmente, è stato rintracciato per verificare se Mele quel pomeriggio stesse veramente male (si apprenderà, poi, che Mele, quel mattino, si era fatto accompagnare a casa senza più tornare sul lavoro da un compagno, che si scoprirà essere Giuseppe Barranca, cognato di Lo Bianco.
L’orientamento dell’interrogatorio, in questa seconda fase, è impostato sulla falsariga dell’ultima domanda postagli prima dell’interruzione, e cioè se sia in grado di fornire elementi a carico di chicchessia. Mele li rende nei confronti di Francesco Vinci e Carmelo Cutrona, da lui altro supposto amante della moglie.
Ad entrambi attribuisce un movente di gelosia, e a Vinci inoltre il possesso di una pistola, di cui il medesimo gli avrebbe parlato, ed esplicite minacce (profferite in giugno) nei confronti della donna.
Quanto al Cutrona, che sarebbe andato in casa sua quel pomeriggio, incontrandovi il rivale ‘Enrico’, gli attribuisce (a cagione dell’incontro con il rivale) un turbamento grave, che avrebbe mascherato simulando di ‘star male’ per il caldo, e di aver detto che sarebbe tornato a fargli visita la sera stessa.
Ma non lo aveva più fatto.
Quest’ultimo riferimento, e lo ‘star male’ simulato, a dir del Mele, dal Cutrona quale scusante, insospettisce chi lo interroga nei confronti dello stesso Mele, che ha usato un’analoga scusa per alibi. E gli si chiede come mai, dato l’atteggiamento di Virgilio, egli non si sia preoccupato della sorte dei suoi familiari. Mele risponde che non si è preoccupato perché ‘era malato [sì, ma] a letto’, e insomma non simulava, come ha attribuito a Cutrona, ripetendo, per quanto riguarda la sua persona, esattamente la locuzione usata dal figlio, quella stessa notte.
L’interrogatorio finisce qui. L’alibi, nuovamente ricordato, sembra reggere, il bambino lo riscontra, e Mele, per quel che appare, è stimato incapace del delitto.

2.2 – AGEVOLAZIONE DI UN INQUINAMENTO

Dopo il primo interrogatorio, gl’inquirenti non si avvedono di porre le premesse di un primo duplice inquinamento delle indagini.
Per diradare definitivamente i sospetti contro Mele sarebbe stato necessario: 1) approfondire come Natalino fosse giunto quella notte a casa del De Felice e perché avesse, subito e non richiesto, riferito l’alibi del padre; 2) darsi ragione della repentina scomparsa della sostenuta malattia che avrebbe costretto Mele (che successivamente ne avrebbe dato le più diverse spiegazioni) a ‘non preoccuparsi’ del mancato ritorno della moglie e del figlio e 3) del perché al mattino era completamente vestito e con le mani sporche di grasso (vieppiù che gli si applicava un guanto di paraffina).
L’inquinamento sarebbe stato evitato sol che gli si fosse impedito di aver rapporti colloquiali con il figlio, che avrebbe poi detto moltissime altre cose. Viceversa il bambino veniva affidato a lui stesso per quella notte, nonostante si pensasse di sottoporlo a nuovi interrogatori il giorno successivo.
Se Mele non avesse saputo alcunché dell’omicidio, ne avrebbe chiesto al figlio e sarebbe stato poi difficile stabilire quanto sapesse già di suo. All’opposto, supponendosi che egli ne sapesse fin troppo, avrebbe avuto tutto l’interesse ad ammaestrare Natalino.
Quella notte, come si scoprirà durante l’istruzione, e come si riscontrerà a partire dal 1982, padre e figlio hanno parlato. Ed il primo ha ammaestrato il secondo.

2.3 – TERZA FASE DI MELE: UN’IMPROBABILE PROMESSA

La terza fase inizia il mattino del giorno successivo, dopo il solito colloquio preliminare, con un colpo di scena, al quale assiste anche il marito della seconda sorella di Mele, Piero Mucciarini, che è dato presente e sottoscrive il verbale.
Mele, che ha già indicato, in ordine di età decrescente e di rapporti, i fratelli Giovanni, Salvatore e Francesco Vinci quali successivi amanti della moglie, afferma che suo figlio gli ha riferito che, mentre lui era in ospedale, nel febbraio precedente, Salvatore Vinci ha dormito con lei in casa.
A costui, per significarne la prepotenza, attribuisce anche di aver intestato a nome Mele, nel 1960-61, una lambretta, cosicché avrebbe poi pagato lui i danni di un incidente occorso al vero proprietario e guidatore.
Tal tesa sarà ripetuta il 3.12.82, nel corso di questa istruttoria — cfr. capo VIII. In effetti si tratta di un veicolo intestato a lui da S. Vinci, guidato dal fratello Francesco, cui occorre un incidente, che coinvolge Mele. I danni cagionati dal Vinci saranno pagati dal padre di quest’ultimo, Palmerio.
Salvatore, geloso della Locci, sarebbe arrivato a minacciarla di morte, anche in sua presenza, se fosse andata con altri. Successivamente avrebbe ottenuto, sia da lui che da sua moglie, un paio di prestiti, di circa 150.000 lire ognuno. Richiesto di restituirli, e non potendo, Salvatore gli avrebbe detto di volergli uccidere sua moglie, vistocché lui non era in grado di farlo, e sarebbero andati in pari. Mele afferma di aver risposto che non ne sarebbe stato contento, pur essendosi la moglie comportata male. Ma l’altro, attribuendogli di non farlo per mancanza di coraggio, avrebbe ribadito di volerlo fare lui stesso.
Per avvalorare la credibilità delle sue accuse, aggiunge che il Vinci gli aveva anche raccontato di aver ucciso in Sardegna la sua stessa moglie, lasciando aperta una bombola del gas, e salvando suo figlio.
Gl’inquirenti gli chiedono se fosse in accordo con il Vinci perché gli ‘riferisse dell’esito del suo proposito’. Ma Mele dichiara di non aver più visto Salvatore e di aver appreso solo da loro dell’uccisione della moglie. Nessuno invece gli chiede che cosa abbia intanto saputo da suo figlio.
L’analisi di queste dichiarazioni lascia estremamente perplessi gl’inquirenti. Appar loro inverosimile che Salvatore Vinci possa aver confidato al Mele, per quanto compiacente, il proposito di uccidergli la moglie.
Intuiscono che Mele è implicato nell’omicidio più di quanto abbiano supposto.
Insistono nell’inquisirlo (fuori verbale e con l’ausilio di Mucciarini), ma è difficile stabilire in qual misura lo stimino ancora un teste o già un indiziato. Pochi mesi dopo questi interrogatori, nel 1969, sarebbe stata necessaria la presenza di un difensore, ma a quell’epoca non lo era ancora.
In ogni caso l’enormità delle dichiarazioni, che Mele appare pronto a riversare, li preoccupa che successivamente non le ritratti, facendole apparire per estorte. Nell’istruttoria attuale si è appreso anche che Mele, prima dell’interrogatorio, era fortemente preoccupato di venire arrestato, già da prima perché i carabinieri, che l’avevano lasciato andare con il figlio la sera innanzi, lo attendevano di primo mattino quel giorno.
Tanto si desume già dalle dichiarazioni di uno degl’investigatori al G.I., nel 1969 (cfr.: fasc. testi) brig. Matassino, che è colui che ha steso il rapporto di P.G.. Ed è stato confermato da Funari ed altri in questa istruttoria. Per questa ragione hanno coinvolto anche Mucciarini, apparso disponibile ad adoprarsi a questo fine (cfr.: Ferrero in corte d’Assise).

2.4 – LA CONFESSIONE

Finalmente Mele confessa di esser lui stesso l’assassino, aiutato da Salvatore Vinci, che lo ha accompagnato sul luogo e gli ha fornito l’arma del delitto.
Gl’inquirenti non verbalizzano subito. Mucciarini non è oltre disponibile, perché deve dormire e poi recarsi al suo lavoro notturno di fornaio. Hanno bisogno essi stessi di credere e perciò conducono Mele sul luogo del delitto e si fanno rappresentare da lui i fatti, come narreranno nel rapporto.
Non esiste un verbale di sopralluogo, ed è credibile (lo dice anche il rapporto) che sia stato, in gran parte, verbalizzato nell’interrogatorio, quello che Mele ha in realtà detto sul luogo del reato. Tuttavia non sono stata puntualizzate alcune cose, che si riveleranno di enorme rilievo, e che si tradurranno in inquinamenti, che si è cercato di sanare in quell’istruttoria ed in questa. Il rapporto colma talune lacune, ma è reso quando l’istruttoria è ormai orientata nel senso che Mele sia il solo colpevole, e lo fa capire.
Mele racconta che ad una cert’ora, le 23,30, non avendo visto rientrare moglie e figlio, si è recato a cercarli. In piazza ha incontrato Salvatore Vinci, al quale ha riferito che i congiunti sono andati a cinema in macchina con Enrico. L’altro lo stimola subito a farla finita, e lui: “Come faccio senza nulla in mano? — Sapendo che Enrico aveva praticato la boxe”.
Salvatore replica: “io ho una piccola arma”. Lo fa salire sulla sua vettura e lo accompagna a Signa.
Nella piazza, dopo aver atteso l’uscita della coppia, con il bambino, dal cinema (l’autovettura del Lo Bianco è parcheggiata nei pressi), la seguono sino al luogo dove la vettura del Lo Bianco si ferma.
A questo punto Salvatore trae la pistola da una borsa e gli dice: “Guarda che ci sono otto colpi”.
Mele narra come ha raggiunto l’autovettura ferma, che cosa stessero facendo sua moglie e l’Enrico, ed in quale posizione, e da dove ha sparato tutti i colpi.
Il figlio non si sarebbe svegliato agli spari, “bensì subito dopo”.
Dopo aver sparato, apre lo sportello dal lato guida. Sostenendosi con la mano sinistra sul volante, e nel farlo tocca la leva della freccia che vien posta in azione, afferra la moglie per le vesti e la tira su, ricomponendola approssimativamente.
Passa all’altro sportello e fa lo stesso con Enrico (più avanti spiega che, tirandogli una gamba che è oltre il ponte del cambio, gli fa cadere la scarpa).
A questo punto il figlio si sveglia e lo chiama: “babbo”. Non dice altro o lui non lo sente, perché scappa.
È da notare che nel verbale, f. 25 atti gen., subito dopo “Non aggiunse altra parola” e prima di “o se lo fece non ebbi modo di sentire”, è cancellata, con ‘x’ sovrapposta, la frase “perché aprì lo sportello posteriore destro ed uscì dalla macchina”. Sul bambino, Mele non torna oltre, se non per precisare che quando la coppia uscì dal cinema, il piccolo era in braccio alla madre già mezzo addormentato e venne riposto sul sedile posteriore e, durante il percorso (fino al luogo del delitto) non gli era mai riuscito di vedere il capo del bambino (sporgere dallo schienale).
Raggiunta la macchina di Salvatore, gli dice di aver ucciso i due e fatto salvo il bambino, e questi lo accompagna in macchina sino al ponte di Signa. Lungo l’Arno, arriva a casa (in effetti il vicoletto di casa Mele, a Lastra, dà in un campo dal quale si può raggiungere l’argine).
Alla fine di questo racconto gli si domanda della pistola. Mele afferma di averla buttata via dopo aver sparato, e di aver ottenuto per tutta risposta dal Salvatore, al quale lo riferiva, un “Pazienza”.
Dopo avergli chiesto alcune precisazioni, di cui, si è già incidentalmente riferito, gl’interroganti chiedono a Mele di descrivere la pistola che Salvatore avrebbe denominato ‘piccola arma’. Gli mostrano una Beretta cal. 9, e lui afferma che quella usata per il delitto era simile, ma con “canna più lunga tanto che penso che si tratti di una pistola per tiro a segno”. L’avrebbe ricevuta già pronta per sparare.
Ribadisce la sua chiamata in correità, e conclude: “Ho ammazzato mia moglie e l’amante perché ero stanco di vedermi continuamente umiliato. Mia moglie mi tradiva da diversi anni. Però è da qualche mese che avevo deciso di eliminarla.

2.5 – CHIAMATA IN CORREITÀ E RITRATTAZIONE

La confessione di Mele è connessa con una chiamata in correità. Avrebbe potuto, come è ovvio, bensì confessare di essere l’unico autore del delitto, come poi fu ritenuto, ma non accusare credibilmente altri, senza dire di essere presente al delitto.
Senonché, al momento della confessione, attribuisce a se stesso la maggior responsabilità, significando che il correo lo ha istigato e gli ha offerto gli strumenti per uccidere. Successivamente si proporrà come mero spettatore di un delitto altrui.
Di qui perplessità intorno al ruolo che lui stesso avrebbe tenuto e, infine, in questa istruttoria, intorno alla stessa credibilità della sua confessione, per il mutamento delle chiamate di correo.
Mele ha ritrattato solo tre volte la sua partecipazione al reato, e ciascuna per fortissime ragioni emotive, ma sempre ritornando sulla posizione originaria, alla quale è astretto da elementi obiettivi e da circostanze che lui stesso ha posto in giuoco.
La prima, in corte d’Assise nel ’70, laddove accusa Francesco Vinci, ma nega di aver preso parte al delitto: sono i suoi avvocati a convincerlo (v. verb. dibatt.) a dire la verità per ciò che riguarda lui stesso, premessa indispensabile per dar presenti altri sul luogo del delitto.
La seconda, il 27 luglio 1982, quando, espiata la pena, trovandosi in una casa per ex-detenuti a Ronco all’Adige, viene inopinatamente raggiunto dal giudice istruttore di Firenze, che indaga sui nuovi omicidi commessi, verosimilmente con la stessa arma. Accusa nuovamente Francesco Vinci.
In questo, come nel caso precedente, dice che suo figlio, quando gli fu consegnato dai carabinieri la sera successiva alla prima giornata di interrogatori (22 agosto 1968), gli riferì di essere stato accompagnato da lui, dopo il delitto [alla casa di De Felice] (sono gli effetti della disavvedutezza dei Carabinieri sopra osservata).
La terza, il 2 agosto 1984, dopo l’omicidio duplice di Vicchio, allorché per evitare ulteriori deposizioni afferma di essere rimasto a casa, perché malato, la sera del delitto di Signa. Ma poi ammette di aver riferito, e senza suggerimenti, tutto quanto verbalizzato il 23 agosto 1968 dai Carabinieri.
Le prime due ritrattazioni hanno in comune l’intento palese di scaricare su terzi anche le proprie responsabilità. Ha superato la seconda, solo dopo aver ottenuto dal p.m. la dichiarazione scritta che non sarebbe più stato processato per il fatto del 1968, a cagione del giudicato (vol. 5/B — III e v. capo IV).
In ciascun caso, il motore principale della ritrattazione è la paura di ulteriori conseguenze penali, maggiormente ché Mele si è sempre manifestato convinto di aver evitato assai più onerosa pena, di quella sofferta, per il duplice delitto commesso.
Le stesse chiamate in correità, e soprattutto quelle successive alla prima, sono apparse dirette non tanto a far luce sull’episodio, quanto a consentire lo scarico delle maggiori responsabilità sul correo o sui correi, volta a volta indicati. Si è anzi preoccupato, in ogni caso, di fornir riscontri alla chiamata, perché apparisse credibile (e tanto già prima di venir incriminato per calunnia nel 1968).
Ha temuto che non gli si potesse credere, ed ha cercato di ancorare alle dichiarazioni altrui, od a fatti all’evidenza incontroversi, capacità indiziante, indipendentemente dalle sue parole. Anzi si è comportato come colui che non può fare a meno di dire chi fosse il suo complice, vistocché le emergenze o testi più credibili lo dimostravano.
Di questi assunti riscontri, il più importante è quello che concerne le cose (che assume di aver) apprese dal figlio la sera in cui gli è stato consegnato, prima di confessare (v. retro 2.2).
Si è già osservato che o Mele era stato sul luogo del delitto e, in tal caso, non aveva molto da chiedere al figlio, quanto piuttosto qualcosa da suggerirgli o, non sapendo alcunché, avrebbe potuto apprendere dalla sua viva voce, se non chi fosse l’assassino, chi comunque suo figlio avesse visto dopo il fatto.
In questo secondo caso, rifacendosi al figlio, avrebbe potuto trovare in lui un ulteriore avallo alla sua proclamazione d’innocenza, vistocché il bambino aveva sino ad allora detto ai carabinieri soltanto che il padre era ammalato a letto.
In altri termini se Mele confessa, a lume di ragione, è lecito stimare che suo figlio, unico riscontro possibile, lo abbia realmente visto sul luogo del delitto. Egli, peraltro (v. sopra), confessando, lo dice e riferisce che non appena il figlio lo ha riconosciuto è scappato. Vorrebbe proseguire il racconto circa il figlio ma, lo si è visto (r. 2.4), i carabinieri non gliene danno l’agio (e si radica in tal modo, v. più avanti, un ulteriore inquinamento).

2.6 – ALIBI PRECOSTITUITO E DUPLICE INQUINAMENTO DI NATALINO

L’analisi degl’interrogatori di P.G. di Mele nel 1968 dimostra che, pur essendo palese che gl’interroganti non credono al suo alibi, neanche quando (il 22 agosto) si contentano del suo diniego di responsabilità, non fanno tuttavia leva sul fatto che quell’alibi appare falsamente avallato attraverso il figlio, già la notte del delitto, presso i De Felice.
Alla confessione, Mele perviene quando piuttosto si aspettano da lui un’improbabile confidenza, che consenta di scoprire il vero assassino. Ma anche in questo caso, pur avendo Mele affermato di aver commesso il delitto in compagnia di altra persona e munita di autovettura, non gli si chiede della sorte del bambino dopo il duplice omicidio. E non si insiste oltre sul particolare, che pure appare ormai inverosimile, della sua assunta malattia.
Una volta che ha confessato, è palese che la simulazione di malattia fa parte dell’alibi precostituito da Mele (e questo intenderà il giorno dopo il magistrato, che stimerà il delitto premeditato).
Mele peraltro, confessando in sede di P.G., afferma di essere scappato non appena suo figlio lo ha visto e riconosciuto, mentre riassestava il cadavere di Lo Bianco, ed appare del tutto credibile.
La posizione del figlio nell’autovettura, come si ricostruisce dagli atti, era supina, sul sedile posteriore e con la testa rivolta verso la portiera sinistra. Lo schienale del sedile anteriore dx, sul quale si trovava il Lo Bianco, era abbassato, sicché è palese che il bambino, senza muoversi, potesse ravvisare le sembianze di chi si affacciasse nell’abitacolo da quella parte.
Vedendolo il figlio, sfumava il suo alibi di essere a casa ‘malato a letto’. Se non lo avesse visto, egli non avrebbe avuto ragione di dirlo ai Carabinieri, pur confessando.
Viceversa, ammettendo le sue responsabilità, trascura che il figlio era stato preparato vuoi (da lui o da altri) a fargli l’alibi, vuoi (da lui stesso, la sera del giorno successivo al delitto) ad accusare una persona diversa, e cioè Francesco Vinci.
In questo contesto non è indifferente stabilire come il bambino sia arrivato alla casa di De Felice e chi insomma l’abbia ivi accompagnato. I Carabinieri perdono un’occasione favorevole per stabilirlo attraverso Mele, allorché lui sta spiegando che, dopo la sua fuga, il bambino è sceso dalla macchina (v. sopra 2.4). Tuttavia, il giorno dopo, si premureranno di portare ancora Natalino sul luogo, e di percorrere con lui la strada, dal punto ove si trovava la giulietta bianca alla casa di De Felice.
Quando (mentre ancora accusa di complicità F. Vinci, cfr. interr. al p.m. delle ore 21,15 del 24.8.68, pg. 20 r., loc. cit.) gli sarà contestato che il figlio ha detto che è stato lui stesso ad accompagnarlo, Mele immediatamente ammetterà che è vero e affermerà di averlo riferito ai carabinieri durante il sopralluogo.
Tal cosa è decisamente improbabile, altrimenti non si spiegherebbe l’esperimento del m.llo Ferrero con Natalino dopo la sua confessione, né che ragione avessero i carabinieri di non rammentarglielo in sede d’interrogatorio.
Ma, e nessuno se ne accorge, Mele evita ancora l’argomento della sua ‘malattia’ e non si stima necessario chiedergli ragione di quanto il figlio ha detto a casa di De Felice.
Natalino, se non avesse visto il padre sul luogo del reato (come lui stesso invece ammette, e come dirà poi, sempre, il bambino), dicendo che ‘il babbo era malato a letto’ avrebbe detto quanto gli era realmente noto. Ma, avendolo visto, bisogna che abbia mentito già a De Felice.
Ed in questa menzogna è la chiave di un fatto, il suo accompagnamento, che apparirebbe altrimenti inspiegabile.
Lo scopo dell’accompagnamento, s’intendeva e s’intende, è significato dalla differenza tra quello che Natalino ha detto a De Felice e quello che invece avrebbe potuto dire, dopo il delitto, se nessuno si fosse premurato di impedirglielo. Finalmente, Mele doveva trovare il tempo di tornarsene a casa prima che vi si portassero gl’investigatori.
Non s’è avuto, allora, l’agio di riflettere che se Mele si era recato sul posto con altri, come sosteneva confessando, non si poteva esser certi che proprio lui avesse provveduto alla bisogna (come pure avrebbe affermato poi il figlio; ma perché non lo aveva detto subito?), salvo a voler credere che il bambino non avesse visto altri che il padre sul luogo del delitto.
Sarebbe stato necessario, per farsene ragione definitiva, ricostruire i movimenti economici del postdelitto, e si sarebbe scoperto che, dietro quel paravento, all’evidenza lo stesso della sua sostenuta malattia, Mele celava quant’altro sarebbe stato necessario scoprire circa eventuali complicità e l’arma del delitto.
Difatti Mele, appena potrà, tornerà a parlare del delitto come estemporaneo e a far ricorso alla sua malattia come fatto incontrovertibile, principalmente che ha avuto la ventura di ricevere in casa, mentre si dice malato, la visita di Cutrona, Virgilio come lui lo chiama, che afferma d’averlo trovato allettato.
Le versioni fornite da Mele circa le cause di questa sua assunta malattia saranno molteplici, sino al punto di affermare che sua moglie aveva tentato di avvelenarlo. Ma nessuna è credibile, ed essa appare una messinscena che precede il delitto.
La simulazione mostra la corda anche sotto un altro aspetto, quando Mele parla del momento in cui la moglie si allontana da casa con il Lo Bianco ed il bambino. Al g.i., ma già prima al p.m. (cfr. interrogatori), dirà di averla spiata per intendere i suoi prossimi movimenti, e di aver tentato invano di impedire che la donna portasse seco il figlio che, verosimilmente, avrebbe dovuto confermargli l’alibi.
In conclusione, dopo due giorni d’indagine, ci si ritroverà Mele confesso, mendace circa la fase di decisione del delitto e scarsamente credibile circa le sue chiamate in correità, ed il bambino inquinato almeno due volte, allorché lo si è preparato (accompagnandolo) per l’alibi del padre, subito dopo il delitto, e allorché il padre gli ha detto di dire di aver visto Francesco Vinci sul luogo del delitto.
Entrambe queste circostanze risultano denunciate dallo stesso Natalino Mele, vuoi riferendo ai Carabinieri e al magistrato che è stato il padre ad accompagnarlo, vuoi dichiarando più tardi al g.i. che suo padre gli disse di accusare Vinci, e suo padre confermerà la cosa ‘a contrario’ anche a distanza di anni (v. par. precedente).
In entrambe le circostanze, l’interesse apparentemente ed immediatamente protetto sarebbe quello di suo padre. Ma degl’inquinamenti, in effetti, Mele non si è avvalso, allorché aveva ragione di avvalersene, vuoi affermando gratuitamente (nessuno a quel momento poteva saperlo) di essere stato visto dal figlio sul luogo del delitto, vuoi ammettendo, a contestazione delle dichiarazioni di lui, di averlo accompagnato.
E sembrerebbe finir qui, ma si vedrà più avanti che le manovre nei confronti di Natalino sono assai più complesse e non ascrivibili tutte a suo padre.

2.7 – L’ARMA DEL DELITTO SECONDO MELE

Altro aspetto rilevante della confessione di Mele riguarda l’arma del delitto.
Nel 1968 i tentativi per reperirla furono molteplici, ma le perquisizioni, improvvisate, erano destinate a non conseguire effetti.
Mele parla la prima volta di una pistola, che ‘potrebbe essere’ l’arma del delitto, già il 22 agosto, durante la seconda fase del primo interrogatorio, allorché suppone che Francesco Vinci possa essere l’omicida (v. retro 1.6). Afferma: “tempo addietro, sempre lo stesso Vinci ebbe a confidarmi che possedeva una pistola. Non mi disse però che tipo fosse e che calibro”. In questa sede (ove afferma che F. Vinci avrebbe anche minacciato Barbara Locci di morte se avesse frequentato altri uomini — v. retro 2.1) si professa innocente.
Se Mele è colpevole, come ammetterà solo il giorno successivo, è estremamente improbabile che, in quest’ambito, parli dell’arma del delitto. Mirando a nascondere la sua responsabilità, non avrebbe il benché minimo interesse ad indicare dove si trovi. Viceversa non è improbabile che, in un luogo in disponibilità di F. Vinci, si sarebbe potuta trovare un’altra pistola (sul punto, più avanti, allorché si tratterà di F. Vinci). Ma, al momento, la supposizione non trovava conferma nella perquisizione (effettuata alle 10,30 di quello stesso mattino al Vinci, cfr. 88 atti gen. vol. cit.).
L’atteggiamento di Mele rispetto all’arma non muta, nelle linee fondamentali, neanche in prosieguo, allorché ammette le sue responsabilità nella consumazione del duplice omicidio.
Nell’interrogatorio del 23 sera, confessando (cfr. r. 2.4), Mele parla per la prima volta di un’arma che vuole essere quella del delitto. Allorché Salvatore Vinci lo stimola a farla finita con la moglie, uscita con il nuovo amante, ed egli afferma di non sapere come fare, Salvatore lo rafforza, rassicurandolo: “io ho una piccola arma”.
Sul luogo del delitto, Salvatore estrae da una borsa la pistola e gli dice: “Guarda che ci sono otto colpi”. Mele non la descrive. Afferma d’averla presa e d’essersi, con essa, recato ad uccidere.
Solo al termine della sua narrazione, gli si chiede se “conosca” il tipo di pistola fornitagli da S. Vinci. Mele risponde di non conoscerlo, ma precisa: “… in relazione a quella che oggi mi avete mostrato e che mi dite essere una Beretta calibro nove, preciso che quella del Vinci aveva la canna molto più lunga, tanto che penso si tratti di una pistola per tiro a segno. Preciso anche che la pistola che il Vinci mi diede era pronta per sparare perché io non feci altro che tirare il grilletto.”.
I carabinieri hanno quindi mostrato a Mele l’arma (al magistrato dirà che gliene sono state mostrate tre). Egli, senza prendere posizione circa il calibro (l’arma, sul luogo del delitto, gli sarebbe stata data già carica), fa un paragone che riguarda unicamente le dimensioni dell’arma, e assolutamente in contrasto con la valutazione di Vinci appena riportata (“io ho una piccola arma”), che implicitamente ha fatto sua. Ma nessuno gli fa rilevare la difformità.
La successiva supposizione che si tratti di un’arma da tirassegno appare mutuata da domanda suggestiva, e corrisponde ad un’idea approssimativa che della pistola, per via del calibro dei proiettili, si è fatto chi lo sta interrogando.
In quel periodo non è ancora entrata in commercio la Beretta ’76, unica della serie ’70, che utilizzerà una canna più lunga dell’ordinario, incorporata con dei contrappesi nella struttura [e pertanto, conservando la forma ordinaria, appare solo più grande). Della cal. 22 è diffusa l’immagine della pistola Barretta, modelli 72 e 73, nei quali, parte della canna sporge dal corpo dell’arma, connotandola, anche visivamente, come diversa.
Gli altri modelli, precedenti e successivi, hanno canna di lunghezza normale (mm. 85), e l’arma appare identica alla pistola cal. 7,65 serie 50 della Beretta, allora in commercio, da cui deriva.
Il cal. 22 è difficilmente adottato sul piano professionale, data le modestia del potere di arresto del proiettile, ma non desueto nell’uso corrente, per il bassissimo costo del munizionamento. Viceversa si ritrova, nella versione a canna lunga e sporgente, come strumento abituale (all’epoca è l’unica pistola, per il ‘tiro standard’, di fabbricazione italiana e di costo modesto) per esercitazione di tirassegno in qualsiasi poligono (per inciso, nei poligoni si adottano esclusivamente pallottole di piombo nudo, ma le cartucce rinvenute dopo il delitto sono ramate).
Codeste nozioni sono comuni per chi abbia consuetudine con le armi. E non è il caso di Mele, che di fatto professa di non averne, e che non risulta aver frequentato poligoni di tiro.
In ogni caso, non sembra che nel contesto, pure confessorio, Mele sappia o voglia fornire descrizioni più precise per farla rintracciare. È tuttavia significativo che conosca il numero dei colpi esplosi (cosa che è improbabile siano in grado di ritenere con certezza gl’investigatori in quel momento). Ed è elemento, tra gli altri, convincente della sua conoscenza intorno alle modalità di esecuzione del delitto (tanto che se ne avvarrà — v. capo VI e s. — suo fratello Giovanni, 14 anni dopo, per indirizzarlo a dare una certa versione dei fatti).
Dopo la descrizione del delitto, non ha più parlato della pistola, ed è passato a dire della ricomposizione dei cadaveri, ed infine ha dichiarato di essere scappato, quando il figlio l’ha riconosciuto, tornando da Salvatore, che lo ha atteso in macchina. Raggiuntolo, gli ha detto di averli “sistemati”, facendo salvo il figlio. E qui termina la sua esposizione.
A questo punto gli si domanda della sorte dell’arma e dichiara: “In relazione alla pistola preciso che non appena ebbi sparato la buttai via… sicuramente nei pressi della macchina… di (mia) iniziativa.
Vinci Salvatore mi chiese della pistola e quando gli dissi che l’avevo buttata via, ebbe a rispondermi: ‘PAZIENZA’.”
L’inverisimiglianza di questa versione è evidente, almeno per quanto riguarda il comportamento descritto di S. Vinci. Questi se ne sarebbe stato tutto il tempo in macchina ad attendere che l’altro, inesperto, consumasse il duplice omicidio con la sua arma (ed era necessario saperla usare per non avere sorprese). E si sarebbe subito rassegnato a non poterla riottenere. Ma nessuno fa contestazioni al racconto.
In effetti, vi è uno scollamento tra il sopralluogo effettuato nel pomeriggio con il Mele, lì dove egli ha veramente confessato, e la verbalizzazione, nella tarda serata, di queste dichiarazioni. Gli si sarebbe dovuto chiedere dell’arma con riferimento ai movimenti da lui stesso descritti, gli spari e poi l’apertura consecutiva delle portiere del veicolo per ricomporre i cadaveri. In quell’ultima fase, se fosse stato Mele a sparare, sarebbe stato necessario che si fosse liberato della pistola. Se fosse stata un’altra persona, Mele non avrebbe avuto già l’arma tra le mani. Chiedergli alla fine della narrazione del destino dell’arma appare, alla luce di queste considerazioni, un fuor d’opera, quasi un dovere d’ufficio, vistocché non viene esercitato alcun discernimento critico.

2.8 – ARMA E CHIAMATE IN CORREITÀ DI MELE

Successivamente Mele, ribadendo che si è recato sul luogo del delitto per ammazzare la moglie, al magistrato che si convince della sua confessione ma non delle sue consecutive chiamate in correità, spiega: “Solo, no di certo: io non ho mai avuto un’arma e non so sparare” (cfr.: interr. 26.8.68). In buona sostanza collega il concorso con altri al fatto che il correo, che nelle successive narrazioni sarà sempre indicato quale autore materiale del reato, possedesse un’arma, sapendola usare.
E quest’aspetto è rimasto fermo nel corso degli anni. Tuttavia Mele ha ammesso (1984, 16 gennaio, cfr. vol. 5/B) di saper sparare per aver imparato durante il servizio militare. Ha altresì significato che, in connessione con il delitto, l’arma gli sarebbe stata messa nelle mani perché sparasse alcuni colpi e comunque gli restasse l’impronta, rilevata dal guanto di paraffina (la qual cosa potrebbe avere un riscontro se si pensa alle mani, imbrattate di grasso — per impedirne il rilievo? — la mattina dopo il fatto, v. retro 1.5, 2.2, 2.3).
La presa di distanza dall’arma, se Mele è effettivamente colpevole, appare legata al bisogno di occultare l’organizzazione del fatto delittuoso. Questa presuppone un diverso rapporto con chi si è reso suo complice, al quale ha attribuito in origine solo di avergli fornito l’arma e il rafforzamento del suo proposito.
Anzi sotto questo profilo, chiunque sia o siano i correi, Mele ha descritto (combinando l’interrogatorio del mattino del 23, con quello della sera) l’articolazione delle fasi del progetto criminoso. La sua incapacità di reagire al comportamento della moglie gli ha fatto trovare un complice con una pistola. Stabilite genericamente le modalità, si è presentata l’occasione per attuare il progetto.
La questione dell’arma è perciò legata al movente che l’eventuale o gli eventuali correi avrebbero avuto, per accompagnarsi con lui, e in buona sostanza, per ovvia reciprocità, al suo stesso movente.
Chiamando in correità S. Vinci, egli afferma di aver ucciso con il concorso estemporanea di un amante di sua moglie, e cioè con una persona che avrebbe avuta un interesse autonomo, e in conflitto con il suo, vistocché si sarebbe determinato ad ucciderla per intolleranza dei tradimenti di lei (ma v. capo VIII).
Tal cosa, in astratto, contrasta ogni massima d’esperienza circa il delitto per gelosia o vendetta nei confronti di una donna. Ed egli stesso lo dimostrerà, proprio affermando: “io ha fatto il nome del Vinci Francesco ed anche degli altri perché erano gli amanti di mia moglie” (cfr. int. 26.5.1969, al g.i.), e già aveva affermato, passando ad accusare Cutrona, il 26.8.68 (loc. cit.): “… se ho accusato i fratelli Vinci, l’ho fatto perché si erano comportati veramente male nei miei confronti e si può dire che ‘mi trombassero la moglie in mia presenza’”.
Ha reso anzi, per questo stesso motivo, incredibile l’accuwa rivolta al Cutrona, dicendo: “Accuso il Cutrona sia perché è stato l’amante di mia moglie, sia perché è stato l’autore del delitto.”.
Concludendo, dagli atti del 68, si evince che Mele lancia l’accusa contro uno degli amanti della moglie vuoi per vendetta, vuoi perché chi lo ascolta appare disposto a credergli. Ed ha ragione di stimarlo. Fin dall’inizio, lo stesso tenore delle domande rivoltegli gli ha fatto capire che gl’investigatori lo reputano incapace e suggestionabile (v. r. l’analisi dell’evoluzione degl’interrogatori).
Il suo movente, lo dice, non è la gelosia, ma la stanchezza (lo ha detto anche subito ed in privato ai parenti).
In questa dimensione, anche l’atteggiamento nei confronti della pistola assume un carattere per così dire ‘liberatorio’, che chi lo interroga non è in grado di contrastare. Altri, con un movente che dovrebbe essere conflittuale e che, invece, appare parallelo al suo, aveva l’arma, prima ed indipendentemente dal delitto. Questi deve sapere che fine ha fatto l’arma, e l’affermarlo può bastare.

2.9 – LO SCOPO DEI MUTAMENTI DI VERSIONE

Si è osservato che, il 23 agosto 1968, gl’investigatori hanno ritenuto attendibile la versione di Mele circa il concorso con un amante di sua moglie, per le attitudini e le capacità (per meglio dire l’apparente incapacità) che gli attribuivano.
Sì è tuttavia anche osservato (retro, 2.7) che Mele, in quella sede, per sua parte ha attribuito al correo un’adesione ed un rafforzamento pressocché istantanei del suo proposito criminoso, ed un affidamento decisamente incongruo, maggiormente che sarebbe tornato dal medesimo a delitto compiuto e senza pistola, e questi si sarebbe acquietato.
Tanto sarebbe dovuto apparire decisamente troppo, alla luce della stessa scarsa capacità attribuita a Mele. Ma gli hanno creduto perché, fuori del senso comune, ed egli non appariva loro individuo da misurarsi con tal metro, non avevano argomenti per smentirlo. In altre parole, hanno attribuito al presunto correo un atteggiamento analogo a quello che essi stessi hanno tenuto, a petto della personalità apparente di Mele.
Ma si sono sbagliati. Il giorno successivo, mentre, secondo le sue dichiarazioni, l’arma viene cercata (e sarebbe stato comunque necessario provare), nei pressi del luogo del delitto, e addirittura si draga il Vingone, è lo stesso Mele a modificare la sua versione circa il destino della pistola.
Alle 9,50 del 24 agosto 1968 (cfr. 10, interr. loc. cit.), il magistrato gli ricorda lo stato di fermo, gli spiega la sua qualità e le ragioni per cui si è portato ad interrogarlo. Ma Mele chiede una giornata di riposo (è stato condotto a notte alta alle Murate, dopo la confessione e i riscontri fatti dai carabinieri circa Salvatore Vinci), aggiungendo, tuttavia, che non ha nessuna difficoltà a confermare in ogni sua parte la dettagliata confessione, resa quella stessa notte a Lastra a Signa.
Il magistrato gliela legge, ed egli dichiara: “C’è un solo particolare che non risponde a verità in quelle mie dichiarazioni, e precisamente quello in cui riferisco il modo con cui mi sono disfatto della pistola. In verità io non buttai via l’arma, ma la riconsegnai a Salvatore Vinci, appena raggiunsi la sua macchina in sosta, dopo aver compiuto il duplice omicidio.”
Se Mele ha avuto un’occasione per ritrattare la confessione, in assoluta libertà, è quella appena riferita, maggiormente ché il magistrato gli aveva spiegato, ed è a verbale, la sua esatta posizione.
Egli invece manifesta una sola preoccupazione: quella di evitare contestazioni. Perciò modifica il particolare concernente il destino dell’arma, che stima l’unico della sua narrazione immediatamente non credibile.
Tal cosa mal si concilia con la supposizione che possa aver confessato un delitto al quale è estraneo.
Eppure non è per nulla disinteressato alla sua difesa.
Di fronte a precisi rilievi d’incongruità, ammetterà di aver mentito su altri e non meno rilevanti particolari, sino a stravolgere la narrazione originaria. E il risultato più sorprendente è che i suoi mutamenti conducono ad un arretramento rispetto alla posizione originaria, di aver lui stesso deliberato, seppure su istigazione, ed eseguito, seppure con ausilio altrui, il delitto. Trasformerà se stesso da agente, quasi ad ‘agito’. Il che lascia ragionevolmente credere che in origine ha bensì detto quanto non avrebbe voluto dire, ma solo per non aver ben calcolato che avrebbe potuto non dirlo.
In quello stesso giorno Mele ritratterà l’accusa contro Salvatore Vinci e passerà ad accusare Francesco Vinci, chiamando a riscontro contro di lui, con una disinvoltura ineffabile, lo stesso Salvatore che ha appena finito di accusare, che è fratello di Francesco, ed al quale chiederà perdono, piangendo.
Dirà che è stato Francesco, proprietario dell’arma, ad uccidere, essendo lui stesso complice passivo del delitto. Affermerà pure che Francesco, dopo il delitto, ha accompagnato suo figlio alla casa di De Felice, ed ha minacciato: “il bambino non deve parlare”. Ritratterà, più tardi, quest’aspetto del post-delictum, a contestazione della nuova versione del bambino, ammettendo di averlo fatto lui stesso (cfr.: gli interrogatori successivi, ibidem, e v. r. 2.6 e il prossimo capo).
In nessuna di queste circostanze, Mele pone in discussione la sua responsabilità, che appare, anche dal suo punto di vista, come un capitolo chiuso. Eppure è palese che occulta una parte rilevante della verità, alla quale, evidentemente, lega un maggior interesse che alla sua stessa libertà.
È necessario riflettere su questo aspetto, per capire che i suoi mutamenti di rotta sono esclusivamente adattamenti agl’indirizzi dell’istruttoria, e per fermare le indagini ad un punto sul quale, nelle sue aspettative, chi investiga non abbia più ragione di tornare. E, in questa misura, per quanto paradossale possa apparire, gli è assolutamente indifferente mescolare verità a menzogne, mutando in singoli punti le une con le altre, fermo restando che il quadro generale non sarà più ricomponibile.
Alla luce di queste osservazioni è palese che, confessando, egli ha riferito una parte della verità, e che, in un certo senso, essa è l’ostaggio che ha dovuto concedere perché non si scoprisse quell’altra che intendeva occultare.
Non resta invece spazio per stimare che abbia confessato un delitto al quale era estraneo. Per ritenere il contrario, si deve ricorrere a supposizioni. Esclusi, da lui stesso, per il suo comportamento nel processo e per quanto ha sempre dichiarato (v. in particolare retro, in materia di ritrattazioni), la costrizione a confessare, il timore reverenziale, l’inquisizione in se stessa, ne sarebbero possibili tre.
La prima è che si sarebbe accollato l’uccisione della moglie, per ridarsi una credibilità di uomo vindice dell’onore, maggiormente che gl’investigatori stimavano che potesse essere stato un altro, amante dell’uccisa, in sua vece, a trar vendetta della donna. Ma essa mal si concilia con le sue chiamate in correità, maggiormente quando attribuirà all’altro l’iniziativa e l’azione, vistocché si tratta, in ogni caso, di un amante vero o presunto della moglie.
La seconda terrebbe conto anche e soprattutto delle accuse contro gli altri. Confessando un delitto non suo, Mele avrebbe trovato l’occasione di vendicarsi almeno di uno degli amanti della moglie, chiamandolo in correità. Ma è decisamente troppo.
La terza è che l’avrebbe fatto per proteggere il vero autore del reato, non un amante. Tal cosa sarebbe decisamente incomprensibile se gli fosse stato ignoto, e di per sé probante della sua implicazione nel delitto, se non lo fosse (in effetti ai fini di questa indagine, la sua colpevolezza è assai meno rilevante della sua consapevolezza).
Ciascuna di queste sue supposte scelte sarebbe stata decisamente antieconomica, e nulla autorizza a credere che egli fosse stupido sino al punto di non rendersene conto. Anzi vi sono fondatissime ragioni per ritenere che non lo fosse affatto.
Non bisogna dimenticare che ha preparato il figlio ad accusare Francesco Vinci. Ed anzi quando lui stesso passa ad accusarlo, sempre il 24 agosto (interrogatorio del pomeriggio), dopo aver affermato che F. Vinci ha accompagnato Natalino dai De Felice ed ha minacciato acché non parli (v. sopra) aggiunge: “Però sono sicuro che se lo interrogate a solo il bimbo vi dirà la verità. Se fosse necessario sono disposto ad incontrare il ragazzo nel luogo che riterrete più opportuno per esortarlo a dire la verità” [quella stessa sera, lo si è rilevato, succederà il contrario: sarà Mele a doversi adeguare alla dichiarazione del figlio, accollandosi di essere stato lui ad accompagnarlo].
Ne segue che Mele aveva già trovato una strada per accusare F. Vinci senza restare implicato lui stesso. Confessando, l’aveva abbandonata per accusare l’ignoto (ai carabinieri) Salvatore ma, all’evidenza, ritornando a Francesco Vinci, l’aveva ripercorsa, senza rinnegare la sua partecipazione al delitto.
Bisogna che sapesse sin troppo bene quello che faceva, e con un calcolo che non sarebbe sfuggito ai suoi giudici (di quel processo), e che non ha per nulla abbandonato.

CAPO I II

— 1968: NATALINO —

3.1 – DICHIARAZIONI DI NATALINO ED INQUINAMENTI

Nel corso di quest’indagine intorno ai delitti del 1968, ripresa nel 1982, Natale Mele, intanto divenuto uomo, ha affermato di ricordare poco o nulla di quanto avrebbe visto al momento dei fatti.
Durante le indagini svolte allora, le acquisizioni nei suoi confronti furono estemporanee, o circondate da scetticismo, e in questa direzione operò anche un parere psicologico, formulato all’interno dell’istituto, nel quale era stato ricoverato. Esso avvalorava l’esistenza di un trauma a cagione dell’enormità del fatto cui aveva assistito, e una rilevante suggestionabilità.
Non fu tuttavia mai svolta una perizia vera e propria per accertarne la reale incidenza. Né si pose mano ad un’esegesi delle sue narrazioni.
Eppure, quantomeno al termine dell’istruttoria, era evidente che esse erano state inquinate sin dal primo momento. È anzi probabile che, proprio per questa ragione, e supponendosi che gl’inquinamenti provenissero innanzitutto da suo padre, e questi era raggiunto da indizi sufficienti, alcuni riscontri fossero abbozzati, ma non approfonditi.
L’analisi delle sue dichiarazioni è invece divenuta rilevante in quest’istruttoria, durante la fase d’inquisizione dei suoi zii Giovanni Mele (parente) e Piero Mucciarini (affine).
L’intreccio degl’inquinamenti e dei mutamenti di versione di suo padre che è apparso, a sua volta, influenzato degli stessi congiunti, è tale da coinvolgere tutta la tematica del processo, sicché scandisce le successive tappe dell’istruttoria, in maniera che apparirà evidente, dopo l’esegesi che si svolge nei paragrafi seguenti.

3.2 – L’ACCOMPAGNATORE

La posizione di Natalino al primo approccio con estranei (v. 1.1: De Felice) è perfettamente corrispondente a quella che terrà suo padre, nella prima fase dei suoi interrogatori (cfr. 2.1).
Natalino lascia capire che il padre è innocente, perché malato a letto.
Ma già il 24 agosto, durante il sopralluogo effettuato con il maresciallo Ferrero (e poi al magistrato — v. il cap. prec., in particolare 2.9), Natalino dichiara che è stato suo padre ad accompagnarlo, dopo il delitto, sin nei pressi di casa De Felice.
Nel processo verbale relativo (all. 2 rapp. P.G.), si legge: «Strada facendo, il maresciallo Ferrero, mostrando le asperità della strada, rivolgendosi al Mele Natale disse: “Senti Natalino, come vedi su questa strada è impossibile camminare senza scarpe, forse hai fatto altra strada e non questa”. Il bambino replicava: “questa è la strada e da qui sono passato a piedi”. Al che il verbalizzante replicava: “bada Natalino, se non dici la verità questa notte al buio rifaremo la stessa strada, però senza scarpe come quella notte”. Al che il Mele di scatto rispose: “No! Quella notte mi portò il mio babbo”, precisando: “a cavalluccio”. Si proseguiva così ripetendo che quella è la strada percorsa “col suo babbo” e si raggiungeva un ponticello intersecante con una strada rotabile comunale in terra battuta che dai colli bassi di Signa porta a S. Angelo a Lecore. In quel punto il Mele Natale indicava di essere stato ivi deposto dal suo babbo e che il suo babbo era tornato indietro — che non sapeva per quale strada il suo babbo era tornato indietro e cioè se la prima o la seconda ivi intersecata, e che lui da quel punto, da solo, aveva raggiunto la casa bianca che s’intravvedeva illuminata sulla strada statale a S. Angelo a Lecore».
Il racconto, a distanza di anni, ha trovato parziali conferme presso lo stesso Natale Mele nel 1985 (loc. cit.), durante un sopralluogo, allorché ha ricordato di essere stato accompagnato a piedi da taluno, forse suo padre, che gli raccomandava di dire che il babbo era malato a letto e lasciato proprio nei pressi del ponticino, dal quale si scorge le casa del De Felice.
De Felice, nel 1968 (loc. cit. 1.3), ha confermato che gli ostacoli sul percorso, dei quali Natalino, in macchina con lui, Manetti ed il Carabiniere di S. Piero a Ponti, li preavvertiva, si trovavano oltre il ponticino (la strada era, insomma, sgombra nel tratto ultimo, che il bambino ha sostenuto di aver percorso da solo e che è di un centinaio di metri: pochissimo rispetto agli oltre due chilometri intercorrenti tra la macchina degli uccisi e la casa del De Felice).
Alle 19,30 (la data non è indicata, ma dal tenore del verbale e dalla sua affoliazione -7- s’intende che è la stessa sera del sopralluogo) Natalino ripete al magistrato quanto ha già detto al m.llo Ferrero. Il verbale è reso in forma indiretta e offre dei dati che non risultano dal verbale di Ferrero: “Il bambino riferisce più volte che, quando si svegliò in macchina, vide suo padre seduto vicino a lui sul lato sinistro del sedile posteriore… suo padre lo fece uscire dalla macchina dallo sportello posteriore destro e poi lo prese per mano, accompagnandolo fin presso la casa dove poi da solo il bimbo suonò… per buona parte della strada lo portò a cavalluccio…”.

3.3 – ADEGUAMENTO SUBITANEO DI STEFANO MELE

Si è rilevato che Stefano Mele, dopo il primo giorno d’interrogatori, aveva preparato il figlio ad indicare quale suo accompagnatore Francesco Vinci. Confessando, aveva invece lui stesso chiamato in correità un altro Vinci, Salvatore, che lo avrebbe ricondotto in macchina verso casa, dopo che lui era fuggito per essere stato riconosciuto da suo figlio, sul luogo del delitto.
Nel pomeriggio in cui Natalino dice a Ferrero di essere stato accompagnato da suo padre, questi, dinanzi al magistrato, ha già ritrattato l’accusa contro Salvatore, ed attribuito vuoi il duplice omicidio vuoi l’accompagnamento del figlio a Francesco Vinci.
Egli intanto sarebbe scappato, tornando per la strada di Castelletti verso Signa, ove, nei pressi del cimitero, Francesco avrebbe lasciato il motorino, con il quale si sarebbero recati sul posto a commettere il delitto. Lungo questa strada, percorsi due chilometri, sarebbe stato raggiunto da Francesco che intanto aveva lasciato il bambino. E questi gli avrebbe detto che Natalino non doveva parlare.
Concludendo la narrazione di questa nuova versione, Mele ha chiamato il figlio a riscontro (cfr. vol. 1/A, interrog. del 24.8.1968, ore 14,30 f. 16 ss. e r. n. 2.6 e 2.9).
Egli è ancora convinto che il figlio subirà la sua influenza. Ma di lì a poche ore il magistrato gli contesta la nuova versione di Natalino.
Questi non ha dimenticato l’indicazione del padre contro Francesco Vinci, perché ancora 8 mesi dopo, e cioè il 21 aprile 1969, la denuncia al giudice istruttore. Me quel pomeriggio ha indicato proprio suo padre come accompagnatore.
Potrebbe essere stato suggestionato dal m.llo Ferrero. Ma di ciò non è traccia alcuna, ed in effetti, per come è verbalizzato, Ferrero si attendeva piuttosto da lui che dicesse di essere stato accompagnato con un veicolo (e perciò da terzi) che non ‘a cavalluccio da suo padre’.
L’affermazione di Natalino appare inattesa ed estemporanea. Ribadita al magistrato quella stessa sera, è mantenuta successivamente in istruttoria e in corte d’Assise nel marzo 1970 (in camera di consiglio allorché, presente lo zio paterno Giovanni Mele, ritratta ogni riferimento a persone diverse da suo padre).
In conclusione, indicando il padre come suo accompagnatore, o dice il vero, dimentico degli ammonimenti ricevuti, o segue l’indirizzo di altri che non è il padre, e neanche chi lo accusa.
Per contro Stefano Mele, pur sorpreso che il figlio non segue il suo indirizzo, ritratta subito la dichiarazione che sia stato il Vinci ad accompagnarlo.
Afferma di averlo fatto lui stesso, dopo aver detto a Francesco Vinci di attenderlo lungo la strada.
Al ritorno, tuttavia, non avrebbe più incontrato il complice [incidentalmente si osservi che, in questo modo, non si avvede di tradire tutto il suo racconto. Ha difatti affermato di aver accusato Salvatore invece di Francesco, per timore delle minacce fattegli da quest’ultimo, raggiungendolo dopo l’accompagnamento del bambino].
Mele spiega adesso di essere passato attraverso i campi, sbucando nei pressi del cimitero [ad oltre un chilometro di distanza dal luogo del delitto], verso Signa, lungo la strada di Castelletti, lì, dove ha prima detto che Vinci aveva lasciato il motorino.
E la questione, a parte l’ormai scarsa credibilità della chiamata di correo nei confronti di F. Vinci, può sembrar risolta agl’inquirenti, vuoi nel senso storico, che dal punto di vista logico. Se Mele è stato visto dal bambino dopo il delitto prima di ogni altro, come lui stesso ha narrato, ed è credibile, non vi sarebbe ragione per stimare che altra persona, presente sul luogo del reato, e ignorata da Natalino, si sia poi fatta riconoscere da lui, accompagnandolo.
Il 24 agosto 1968, siffatta considerazione spingeva a ritener superata la diversa e ugualmente valida ragione economica, che avrebbe avuto il Mele di trovarsi a casa prima che qualcuno lo cercasse, dopo essere stato riconosciuto dal figlio (come aveva narrato in confessione — v. r. 2.4 —, pur lasciando irrisolto il problema del come Natalino fosse giunto alla casa di De Felice).
Senonché, alla luce delle stesse indagini di allora e di quelle di oggi, vi sono argomenti sufficienti per stimare che essa in effetti non lo sia.

3.4 – INATTENDEBILITÀ DELLA NUOVA VERSIONE DI MELE

L’analisi dell’ultimo racconto, appena riferito, di Mele e la verifica dei luoghi allontanano il convincimento che sia stato lui ad accompagnare suo figlio.
Innanzitutto è incredibile che, contando di farlo, lasciasse taluno, e si trattava a suo dire di Francesco Vinci, ad attenderlo, nel cuore della notte, con un veicolo e lungo una strada che conduceva lì dove erano due cadaveri ancora caldi.
È ugualmente incredibile che stimasse di rientrare dai pressi della Pistoiese sulla via di Castelletti, a distanza di oltre un chilometro del luogo del delitto (nei pressi del cimitero). Per quanto dotato di senso dell’orientamento potesse essere (ma la cosa appar dubbia alla luce delle esperienze di cui appresso si dice), avrebbe dovuto percorrere almeno cinque chilometri, di cui due all’andata con il bambino in collo, e tre al ritorno attraverso i campi per ritornare lì dove avrebbe dato appuntamento al correo. La zona era decisamente mossa se non impervia in alcuni tratti, la notte buia e senza luna, egli animato da una certa fretta e, stando alla logica del suo racconto, digiuno delle distanze e dei tempi occorrenti per percorrerle.
Dal rapporto si desume che Mele, il giorno in cui ha confessato, prima di condurre i Carabinieri sul luogo del delitto, e si era di pomeriggio, ha fatto loro percorrere dei giri a vuoto, non riuscendo (ed è effettivamente difficoltoso) a rintracciare subito l’imbocco della via di Castelletti partendo da Signa.
La narrazione di cui qui si tratta, resa in due tempi e, combinata con la variazione relativa all’accompagnamento, è di due giorni successiva al sopralluogo, che avrebbe dovuto rinfrescargli la memoria, o fornirgli argomenti per simularla. Ma non è apparso in grado di apprezzare che la rilevante distanza tra il cimitero e il luogo del delitto avrebbe impedito vuoi un accostamento in tempi ragionevoli alla macchina del Lo Bianco, prima del delitto, che un ricorso immediato al motorino, in caso di bisogno, dopo di esso. Non era perciò già credibile allorché aveva affermato che lui scappando, e proprio nella direzione dov’era il motorino, avesse percorso solo due chilometri a piedi prima che l’altro lo raggiungesse, dopo aver accompagnato il figlio in direzione opposta (cfr. interrog. pomeridiano del 24 agosto 1968).
Tutto ciò lascia intendere che egli avesse sì sommaria memoria dei luoghi e delle vie, ma non sapesse valutare le distanze e riferisse per così dire a braccio, sulla scorta di una topografia approssimativa.
Il doppio viaggio in macchina, che ha descritto il 23 agosto, ai carabinieri in confessione, su veicolo altrui, è più verosimile di quanto possa esserlo la versione che concerne il ricorso al motorino del Vinci, con l’aggiunta di un suo percorso a piedi, breve o luogo a seconda di chi abbia provveduto all’accompagnamento del figlio.
È supponibile che all’andata, per la tensione emotiva, avrà prestato maggior attenzione all’autovettura del Lo Bianco che lo precedeva che non alla strada (difatti dichiara di non aver mai visto sporgere la testa di Natalino dal sedile, attraverso il lunotto posteriore). Durante il viaggio di ritorno si saranno impressi nella sua memoria alcuni punti di riferimento (quelli che, citando, mostra di conoscere), la cui distanza dal luogo del reato, senza far ricorso alla teoria della relatività, appare minore in proporzione inversa alla velocità impiegata.
E tanto concerne il tratto da Signa al bivio della stradina dell’omicidio e ritorno, e già rende improbabile che conoscesse in dettaglio l’ulteriore tratto, dalla vettura degli uccisi alla casa di De Felice.
Durante le indagini del 1968, non glielo si era mai fatto percorrere, stimandosi sufficiente quanto aveva dichiarato circa l’accompagnamento del figlio. Nel 1985, condottovi, non ha mostrato di riconoscerlo. Ha sbagliato più volte l’itinerario e indicato svariate coloniche, senza avvedersi, dal ponticino in poi, che, seppur lontana, la casa (che erroneamente, nel 1968, indica come casa di contadini e, nel 1982 — cfr. par. 4.10 — ‘fattoria’) era davanti a lui, illuminata, ora come allora, dal fanale civico della Pistoiese (v. vol. 7/G, interr. imp.).
Salvo a voler stimare che, trascorsi molti anni la sua memoria si sia, e comprensibilmente, offuscata, non risulta che avesse cognizione dei luoghi tale da consentirgli l’accompagnamento e l’avventuroso ritorno (per quanto sembri aver descritto con molta verisimiglianza il suo viaggio notturno con il bambino nell’interrogatorio del 26 agosto 1968).
È anche possibile che, come Natalino dirà nell’aprile 1969 (v. oltre), non sia stato solo ad accompagnare il bambino, affidandosi ad altri che conoscesse i luoghi meglio di lui. Ma, in questo caso, sarebbe necessario domandarsi perché Natalino non l’abbia detto subito (ha ribadito al magistrato che era stato il padre da solo) e quale ragione economica vi fosse di due accompagnatori, vistocché scopo dell’accompagnamento appare l’alibi del Mele, marito dell’uccisa.
In conclusione, nonostante l’affermazione del figlio ed il suo subitaneo adeguamento, bisogna proprio stimare che sia più probabile che Mele non lo abbia realmente accompagnato, ben sapendo (non bisogna dimenticare l’indirizzo da lui dato al bambino contro Francesco vinci) che altri lo aveva fatto e principalmente nel suo interesse.
A questa stregua è da escludere che, facendolo, chiunque sia stato, abbia lasciato il suo veicolo nei pressi della macchina degli uccisi, vuoi per il pericolo in ciò insito, che per quello più grave di dover ritornare a riprenderlo. E questa considerazione è da aggiungere all’altra che Mele è intanto ritornato, assai probabilmente, con un veicolo verso Lastra a Signa, così come aveva dichiarato confessando.
Per contro se è proprio vero che Natalino è stato condotto a piedi, come egli stesso, prima ancora di dirlo al m.llo Ferrero, avrebbe di fatto dimostrato a De Felice, Manetti ed al carabiniere, la stessa notte del delitto (anticipando che la strada era impercorribile da un’autovettura), e come poi ha sempre detto suo padre, si prospetta una diversa ricostruzione dei fatti. Con Mele sarebbe stata più di una persona.

3.5 – RAGIONI DELL’ADEGUAMENTO DI MELE

Si sarebbe portati a supporre, con il senno di questi anni, che se Mele non ha accompagnato il figlio, non sarebbe neppur stato presente sul luogo del reato. Tal cosa non risponde all’economia intrinseca del delitto del 1968, bensì a quella dei successivi, che si vogliono d’un certo tipo d’autore.
Non metterebbe conto di confrontare una supposizione, relativa a delitti commessi a partire da oltre sei anni dopo e con un altro lungo intervallo di sette, con i fatti riscontrati o riscontrabili del 1968.
Però il Tribunale della Libertà, escarcerando G. Mele e P. Mucciarini nel 1984 (cfr. vol. 6 F), ha ritenuto che Stefano Mele sia ‘almeno apparso sul luogo del delitto ad un certo momento’, stimando altrimenti inattendibile il suo racconto relativo alla consumazione dell’omicidio (come attribuita ai congiunti).
Se ne potrebbe dedurre o che nessun altro avrebbe potuto accompagnare il bambino o, dimostrato il contrario, che Mele sarebbe estraneo al delitto.
Ma il ragionamento non funziona: dimostra soltanto che Mele mente, e ne era convinta la stessa corte d’Assise che lo ha condannato per omicidio e per triplice calunnia.
Natale Mele, durante il sopralluogo del 1985 (cfr. vol. 7 G, già cit.) ha ricordato e riferito che l’accompagnatore (è incerto se fosse o non suo padre) gli diceva di ripetere che il babbo era malato a letto. Bisogna proprio che, alla luce delle sue stesse affermazioni, chi lo accompagnava si preoccupasse dell’alibi di Stefano Mele. Il che sarebbe stato decisamente superfluo, se il bambino non avesse altrimenti avuto ragione di smentirlo.
La sera del 24 agosto 1968, S. Mele, accettando la versione di suo figlio, che pure contrastava le dichiarazioni già rese a carico di F. Vinci e lo stesso indirizzo che aveva dato al bambino per sostenerle, si poneva in condizioni di non poter più credibilmente rinnegare la sua ammissione di responsabilità.
La sua accettazione non era però gratuita. Egli sapeva, e lo aveva detto senza affermare di averlo accompagnato, che il figlio lo aveva visto sul luogo del reato, dopo che era stato commesso, e prima che si provvedesse all’accompagnamento (l’indipendenza dei due fatti è resa in maniera evidente oltrecché dal Mele, che non riesce a nasconderla, v. par. prec., neanche quando ne attribuisce l’occasione a terzi, dallo stesso Natalino durante il racconto appena fatto al p.m. — v. r. 3.2 — e quelli che farà al g.i. — v. più avanti).
Mele, insomma, non legava la prova della sua responsabilità al riscontro di aver accompagnato il figlio, ma al fatto che, prima, ne fosse stato riconosciuto (lui solo, non ancora il correo).
In effetti, se si esclude che egli abbia realmente accompagnato il figlio dopo il delitto, bisogna che dovesse, dopo le dichiarazioni di Natalino, adeguarvisi per proteggere il vero correo (non Francesco Vinci, che in quel momento stava accusando), che si faceva vedere dal bambino per proteggere il suo alibi.
La riprova è nel fatto che quando poi, nel corso di quell’istruttoria, Mele è stato costretto a difendere un terzo (correo reale o presunto che fosse), ha smentito, anche se con cautela, il figlio.
Il 26 maggio 1969 (cfr. interr. vol. I) il g.i. pone Mele di fronte al dilemma di chi debba essere creduto tra lui stesso e suo figlio, che ha chiamato in causa persone diverse da quelle indicate da lui, ed egli dichiara: “La legge non crederà a me, ma naturalmente a mio figlio, perché è più giovane ed è innocente. Io con questo non ho detto che dobbiate credere a mio figlio”.
Il giudice gli rappresenta che il figlio ha accusato del duplice omicidio un suo parente e Mele risponde: “Mio figlio chiamava zii anche gli amanti di mia moglie”. E, dopo ulteriori precisazioni circa riferimenti a Francesco Vinci (che in quel momento, salvo un intervallo a carico di Cutrona, ha ripreso ad accusare) di Natalino, rese per significare che altrimenti ha sempre detto la verità, aggiunge: “Non so spiegarmi perché mio figlio parli in questi termini. Mio figlio, dopo il mio arresto, è stato anche a trovare un giorno il fratello della mamma…”.
Gli si prospetta l’eventualità di un confronto con il bambino, ed egli dice: “Va bene. Può darsi che parlando con il bambino anch’io mi ricordi meglio le cose”.
Il confronto non si farà, e il bambino in Assise, ritratterà ogni indicazione, fuorché contro suo padre.

3.6 – POSSIBILI CAUSE DELLA MENZOGNA DI NATALINO

Se Mele mente, ammettendo di aver accompagnato lui il bambino, naturalmente mente anche quest’ultimo che lo ha detto per primo.
Nel 1982, riprese le indagini, Natalino suppone di essere stato accompagnato da persona diversa dal padre, stando ad una versione di Piero Mucciarini al p.m. (cfr.: infra 4.7 — 26.8.1982), che lo avrebbe appreso dalla sua viva voce la sera del 16 agosto 1982, in casa sua, dopo che il ragazzo aveva fatto visita a sua moglie Antonietta (che aveva chiamato il nipote). Costei era, anche a cagione del presagio della sua morte, preoccupatissima che Natalino ripetesse le accuse del 1968 contro il marito (cfr.: i prossimi paragrafi).
Vi è ragione di stimare che lo stesso Mucciarini si affidi piuttosto alla sua memoria di allora, che non a quella recente. Egli aveva parlato con il nipote del delitto e del post-delitto, avutolo in casa. Dà inoltre per
saputo direttamente da Mele (prima della sua confessione), il 23.8.1968, della sua colpevolezza.
Lo stesso Natalino nel 1982 avalla il convincimento che una persona diversa dal padre o comunque insieme al padre lo abbia accompagnato e precisamente nel verbale del 7 settembre, subito dopo averlo reincontrato, in caserma a Firenze e aver parlato con lui (cfr.: infra 4.10).
La sua affermazione al m.llo Ferrero, se riferita puntualmente, appare spontanea, lo si è osservato (cfr. r. 3.2).
Ma lo stesso Natalino darà al g.i., mesi dopo, versioni diverse, indicando come presente sul luogo del delitto uno zio, e poi due zii, quasi omonimi (cfr.: 21 e 23 aprile e 26 maggio 1969, c. 45 ss, testi, vol. A).
Nel secondo di questi verbali attribuisce a suo padre e allo zio, ‘fratello dello zio Vincenzo che sta alla Romola’ (fratelli dell’uccisa Barbara Locci), di averlo accompagnato. È comunque interessante rilevare che, in questo caso, come nella narrazione al p.m. di cui si è detto, ha riferito che, dopo il delitto, suo padre si è seduto sul sedile posteriore dell’autovettura al suo fianco. Questa volta, il padre, dopo averlo tranquillizzato si sarebbe recato a chiamare una persona, lo zio di cui si è detto, con la quale poi l’avrebbe accompagnato da De Felice.
In questo distacco dei due momenti sembra inserirsi un inquinamento.
Ve ne sono riferimenti esterni. Provengono dai familiari del Mele, Il primo è stato portato da Teresa Mele, le quale, nel 1984, ha più volte asserito che, durante il periodo in cui il bambino era presso la sorclla Antonietta (dal momento dell’arresto del padre), costei gli aveva chiesto chi lo avesse accompagnato, dopo il delitto, ed il bambino aveva indicato un non meglio identificato “zio Pietro”.
Che il bambino dicesse ‘zio Pietro’ è riferito anche da una delle due nipoti. Invece l’altra figlia di Antonietta Mele ha saputo in casa che il cugino accusava suo padre Piero Mucciarini. Quest’ultimo afferma la stessa cosa (v. capo VII). Ma sono assai più generici circa l’epoca.
Chiunque sia lo zio Piero o Pietro, e sia vero o non vero che proprio un congiunto abbia accompagnato, con il padre o senza di lui, il bambino, è palese che fin dai primi momenti Natalino forniva versioni alternative, rispetto a quella riferita ai Carabinieri ed al magistrato nel pomeriggio
del 24 agosto 1968. E prima, oltrecché dopo il momento del sopralluogo, era in casa di consanguinei del padre.
È anche certo che, a quel momento, era notoria la confessione di Mele, divulgata dai quotidiani e dalla radio, e nota in particolare ai familiari che custodivano il bambino, avendo avuto Piero Mucciarini parte in essa, vuoi assistendo all’interrogatorio del mattino del 23 (cfr. 2.1), nel quale già accusa Salvatore Vinci, vuoi coadiuvando i carabinieri nell’opera di convincimento del Mele a confessare (v. Ferrero in Assise).
Insomma, Natalino arrivava a dire che era stato suo padre ad accompagnarlo, quando Mele era già confesso ed arrestato, ed essendo forte il rischio che la sua confusione, in ordine al significato della parola ‘zio’, coinvolgesse un altro congiunto e proprio quello che lo aveva accolto in casa.
Inoltre egli non aveva probabilmente identificato l’esecutore, ma realmente visto il padre sul luogo del delitto e non doveva averne fatto mistero. In questa logica si spiega anche perché il tema del dialogo tra lui e i congiunti, a cui fa riferimento Teresa Mele, fosse quello dell’accompagnamento e non, innanzitutto, quello del delitto.
Vi è infine da dire che non si era allora, né si è avuto mai sentore in questa istruttoria, che il bambino avesse riportato la benché minima impressione di paura nei confronti del suo accompagnatore. E non era capace di attribuire all’accompagnamento l’ovvio significato che vi attribuiva chi lo interrogava, maggiormente ché, fosse Ferrero o fosse sua zia, avevan cura di occultarglielo.

3.7 – «SALVATORE TRA LE CANNE»

Più maliziosa, appare l’indicazione di aver visto “Salvatore tra le canne”, data anch’essa al m.llo Ferrero da Natalino.
È assai poco probabile che egli riuscisse ad identificare, nel buio di quella notte, taluno nascosto tra le canne [è singolare come analoga osservazione, riferita alla densità della vegetazione estiva, sia stata fatta al principio di un interrogatorio, spontaneamente, da Piero Mucciarini — infra capo VII].
È vero tuttavia che l’indicazione ha trovato riferimento in un’impressione, legata al rumore di canne, che nel 1985 (durante il sopralluogo più volte citato), Natale afferma di aver avuto anche la notte del delitto. Non è improbabile che, nel 1968, gli si sia suggerito di dare un nome a persona stimata esser tra le canne a cagione di quel rumore.
Il bambino fu sondato in famiglia intorno alle sue percezioni circa il post-factum (v. sopra quanto detto della testimonianza di Teresa Mele), e proprio nella casa di Piero Mucciarini. E Mucciarini era presente al momento in cui Mele accusava Salvatore Vinci, poi accantonato per Francesco.
A riscontro si legga ciò che, in corte d’Assise, il m.llo Ferrero ha riferito (18.3.1970, c. 57): “Dopo qualche giorno” in casa del Mucciarini, il Mucciarini mi riferiva che anch’egli aveva cercato d’indagare presso il bambino per apprendere la verità su quella sera, ma senza risultato perché il bambino diceva di non aver visto nulla”.
Aggiunge il sott.le che, ricoverato il bambino (n.d.s., a circa un mese dai fatti) presso il ‘Vittorio Veneto’, il direttore dell’istituto, giorni dopo, lo avvertì che il bambino diceva qualcosa. Egli si era recato a sentirlo e il bambino aveva narrato che, svegliatosi ai primi spari, aveva visto la mamma immobile e sentito il Lo Bianco dirgli, appena prima di morire, che avevano loro sparato. Natalino, infine aveva detto ‘di essere sceso dall’auto e di aver visto tra le canne Salvatore’.
Ferrero conclude: “Ho interrogato altre volte il bambino e il bambino fece il nome di uno zio Pierino come autore del delitto, abbandonando la versione sul Salvatore e dicendo che questo zio Pierino aveva una figlia a nome Daniela”.
Mucciarini è appunto lo zio Pierino, che ha una figlia con quel nome.
Il 21 aprile 1969 (1º esame) il g.i. interroga Natalino che, dopo aver riferito di aver visto sul luogo del delitto suo padre e lo zio Pierino, al quale ne attribuisce l’esecuzione, risponde a domanda di aver visto anche Francesco Vinci (che intanto, dopo una ritrattazione, la chiamata in correità di Cutrona Carmelo, poi abbandonata, suo padre ha definitivamente ripreso ad accusare).
Il giudice gli fa ripetere il nome di tutte le persone viste, ed il bambino ‘non menziona Francesco Vinci’. Alla domanda perché non abbia ora ricordato Francesco Vinci, il bambino risponde: “Me lo disse il babbo di dire di averlo visto”. Il giudice istruttore gli domanda se lo zio Piero, l’altra persona da lui data presente sul luogo del reato, gli abbia detto di ‘non dire nulla’. E Natalino risponde di no.
Il giudice sospende l’interrogatorio, ‘per non stancare il bambino che appare commosso’. ‘Prima di allontanarsi’ gli rinnova la domanda ‘se lo zio Piero gli abbia detto di non dire qualcosa’ e il bambino dice: “Mi disse di aver visto Salvatore tra le canne”.
La risposta del bambino appare genericamente attendibile. È verosimile che un discorso relativo a ‘Salvatore tre le canne’ sia stato fatto proprio con lo zio Pierino, a stregua di quanto si è osservato sopra, circa le indicazioni di Mele contro Salvatore Vinci, presente il Mucciarini, e la testimonianza di Ferrero che quest’ultimo abbia sondato il nipote, mentre lo teneva in casa. Natalino non riferisce che lo zio Pierino gli aveva detto di ‘Salvatore tra le canne’ sul luogo del reato. La sua affermazione è parallela all’altra che suo padre gli disse di dar presente Francesco Vinci, e si sa che tale imbonimento è stato fatto da S. Mele, in casa, la sera successiva al delitto.
Si evince che Natalino sta rivelando in senso meramente oggettivo, e metastorico, i suggerimenti avuti, senza collegarli ad una ragione d’opportunità o di interesse di chi glieli ha dati. Le sue risposte in questo limitato contesto appaiono neutre. E la sua attendibilità in merito non può essere messa in discussione.

3.8 – LIMITI DI ATTENDIBILITÀ DI NATALINO

A diversa soluzione, circa l’attendibilità del piccolo testimone, si può pervenire relativamente agli altri suoi racconti al giudice istruttore.
A molte dichiarazioni non si può dare immediato significato probatorio, nel senso ordinario del valore della testimonianza, e cioè che il narrato si stimi credibile, giusto l’art. 348, II co.. Ciò non per ragioni intrinseche di capacità del piccolo testimone, quanto per il fatto che le risposte appalesano un condizionamento o un contrasto con le emergenze materiali o una intrinseca contraddizione. Va invece respinto un atteggiamento di apodittico scetticismo, non solo perché contrario allo spirito della legge, ma perché del tutto inadeguato alla logica formale che sorregge la tematica della prova rappresentativa. Insomma, se appare troppo facile osservare che il ‘re è nudo’, è altrettanto superficiale stimare che non lo sia.
Quest’ultima posizione è sostanzialmente dovuta alla scarsa familiarità con il discorso infantile.
Senonché i bambini tradiscono facilmente le loro menzogne, così che è più facile intenderne le ragioni condizionamento. Il discorso di Natalino è interessante non solo per il dichiarato, quanto per gl’inquinamenti che appalesa e le loro fonti.
Finalmente è difficile trovare un solo caso nel quale egli sembri inventare. Tutto quanto dice non ha nulla di fantastico e, lì dove è incredibile, lo è solo per assenza di riscontro nella realtà storica, che
si è potuta altrimenti ricostruire. Né trapela dalle sue versioni alcun interesse o ragione di affettività tale da indurlo a mentire. L’impressione complessiva, confermata passo passo dal dettaglio, è che egli narri i fatti come realtà obiettiva e occasionale, alla quale abbia partecipato da spettatore, senza sostanziali coinvolgimenti emotivi. Questi senza dubbio vi sono stati, a partire dalla paura generata dagli spari, al rilievo dell’inerzia della madre dopo la morte, alla scoperta del padre, all’accompagnamento notturno verso una casa d’estranei. Ma il narrato appare avulso dal vissuto, perché Natalino non sembra in grado di darsi una ragione complessiva degli accadimenti, così che il riferirli non rinnovella i sentimenti estemporanei di allora.
La difficoltà di approccio con il bambino è significata, nel primo esame, da talune sottolineature, circa il suo stato d’animo e le premure adottate per non turbarlo (di una si è fatto cenno nel paragrafo 3.7).
È dubbio che si sia creato il clima idoneo ad una piena libertà di domande e di risposte. Ai primi due atti sono presenti due magistrati e due ufficiali di p.g., tra i quali il m.llo Ferrero, che aveva già sondato Natalino (v. la sua testimonianza in Assise), ricevendone le affermazioni ripetute al g.i.. Al terzo atto i magistrati presenziano da soli, ed il bambino appare assai meno compiacente.
Nei primi la verbalizzazione, prevalentemente indiretta, è tuttavia tale da dar conto, se del caso, della suggestività delle domande e consente di vagliare la sincerità delle risposte. Nel terzo, invece, la verbalizzazione è tecnicamente ineccepibile (è diretta e riporta le domande e le risposte).
In taluni casi di tutti gl’interrogatori è palese che Natalino spesso non riferisce cose apprese per diretta esperienza. Ma nulla di quanto afferma appare creato sul momento, bensì, volta a volta, realmente visto o sentito, oppure suggeritogli volontariamente o involontariamente da altri.

3.9 – PRIMO ESAME

Gl’interrogatori di Natalino si svolgono all’interno dell’Istituto Vittorio Veneto, ove è ricoverato dall’autunno del 1968.
Il primo, è del 21 aprile 1969.
Mentre il bambino sta ancora giocando, viene introdotto il discorso con un imprevedibile riferimento allo zio Piero di Scandicci. Gli si chiede se sia stato volentieri in casa di lui. E Natalino risponde affermativamente.
È palese che gl’inquirenti intendono sondare il bambino circa le rivelazioni ottenute da Ferrero.
Formalmente, la sua escussione era stata sollecitata dal p.m., in una richiesta interlocutoria del 15.3.69 — c. 58 atti gen. —, che mirava ad ottenere indicazioni da Natalino circa la sere del delitto, eventuali incontri avuti e percorso effettuato. Nel racconto di Natalino questi temi s’intrecciano con i primi.
Vien quindi ‘portato (come?) a parlare di quanto avvenne quella sera’.
Principia a narrare di essere andato a vedere un film di guerra con la mamma sulla macchina dello ‘zio’. Fuori del cinema videro un uomo (non sa chi) con il quale non parlarono né la mamma né lo zio, e andarono in macchina.
Gl’inquirenti stanno confrontando la narrazione con quella di Stefano Mele. Ma sin qui, quali che siano le illazioni possibili circa un controllo da presso della coppia, le versione di Natalino è neutra e sembra abbastanza ragionata, nel senso che egli si sforza di ricostruire il ricordo, senza ripetere una lezione appresa.
Natalino riferisce che, giunti sul luogo ove poi sarebbe stato commesso il delitto (ma non gli si chiede se ci fosse già stato, e la cosa non era improbabile), sua madre scese dal veicolo per cambiar posto con lo zio, che tirò giù lo schienale. I due parlarono, ma il bambino non sa cosa dicessero. Gli si domanda, con un eufemismo, se i due abbiano fatto la ‘lotta’, ma il bambino risponde negativamente.
Subito dopo gli si domanda se abbia udito sparare ed egli risponde affermativamente.
La logica delle domande e delle risposte appalesa che chi interroga ha intuito che, ad un certo punto, il bambino dev’essersi addormentato, risvegliandosi al rumore degli spari. Ed è logico. Salvo curiosità morbosa da parte sua, ma bisogna che la madre non se l’attendesse per passata esperienza, non aveva alcunché da fare, era quasi l’una di notte e doveva aver sonno.
Non appare invece ragionevole la domanda, postagli subito dopo, ‘chi c’era con il padre’. Si legga la sequenza: “Chiestogli se sentì sparare risponde di sì; Chiestogli chi c’era con il padre il bambino insistentemente dice che con il padre c’era lo ‘Zio Piero’ di Scandicci; Chiestogli chi abbia sparato il bambino dice ‘Piero'”.
Delle due l’una: o il bambino ha già detto di aver visto il padre e non è stato verbalizzato, o si è fatto un salto logico e cronologico. Peraltro, solo dopo la risposta alla seconda domanda, che suppone che il bambino abbia già detto o lasciato capire di aver visto il padre e che il padre non fosse solo, gli si chiede chi abbia sparato, ed egli risponde: “Piero”.
Il capovolgimento della sequenzialità tra la seconda e la terza delle domande del contesto riportato, e l’avverbio ‘insistentemente’, riferito alla seconda risposta, lasciano dedurre che vi sia stato un intermezzo, o si è inserito un altro inquirente, subito dopo l’introduzione dell’argomento ‘spari’.
In questo modo tutto il contesto inquisitorio appare monco o suggestivo, come suggestivo poteva essere l’inizio dell’atto. Si è fatto capire al bambino che sono venuti a verificare il suo riferimento a un’altra persona, oltre al padre e se quest’altra persona sia proprio quella di cui ha parlato con il maresciallo Ferrero che è presente. L’avverbio ‘insistentemente’ che modifica il verbo ‘dice’ (che con il padre era lo zio di Scandicci), significa proprio che Natalino conferma quanto ha già detto al maresciallo. Senonché è assai dubbio che il bambino potesse vedere chi sparava al disopra della sua testa, nel buio più completo e restando immobile per il terrore. Nessun elemento indica che abbia potuto avvedersene successivamente, salvo quanto dirà più avanti circa la pistola, che avrebbe vista (sottinteso da chi la teneva) buttare nel fosso.
Dopo questo intermezzo, il tema degli spari riprende, con il numero dei colpi uditi (5 o 6), e con la persona attinta per prima.
Le domande vorrebbero accertare se è vero che si è svegliato ed ha visto che cosa è successo (al m.llo Ferrero l’aveva detto, v. r. par. 3.7), giacché nessuno ha mai verbalizzato un suo racconto in questi termini
(peraltro è mutato il p.m., al quale il bambino la sera del 24 agosto 1968 aveva riferito che ad accompagnarlo era stato il padre). Ma la verisimiglianza delle risposte si ferma al numero dei colpi che avrebbe udito.
I colpi, si sa, erano otto. Se il bambino è stato risvegliato dagli spari, può aver fatto un calcolo approssimativo di quelli uditi in istato di coscienza. È dubbio che, terrorizzato come doveva essere, si mettesse a contarli.
Altrettanto dubbio è che potesse stabilire a chi avessero sparato per primo, a meno che egli non avesse avuto modo di distinguere due sequenze e due diverse reazioni delle vittime. Il bambino aveva riferito a Ferrero (cfr. loc. cit.) che il Lo Bianco era morto per ultimo e, prima di morire, gli aveva detto che avevano loro sparato.
È facile immaginare una serie di domande da parte del sottufficiale, volte a colmare le lacune. È altrettanto facile supporre che esse abbian potuto creare una suggestione in Natalino.
Passando al post-delictum, il bambino dice che lo zio Piero era venuto con una bicicletta celeste ed il padre con una bicicletta marrone. Anche questa affermazione appar frutto di una suggestione subita.
L’uso delle biciclette appare improbabile, e legato piuttosto alla considerazione, di chi aveva ricevuto le sue confidenze, che le persone indicate dal bambino non si supponessero in possesso di veicoli a motore.
Di esse è appena traccia nel successivo interrogatorio di Natalino. Giova rilevare che Natalino non dice altro delle biciclette e non le collega, per esempio, al suo accompagnamento. Non è dato capire se abbia effettivamente visto veicoli sul posto.
Incidentalmente i Carabinieri, il 10 maggio 1969, rapporteranno che Stefano Mele possedeva una bicicletta rossa e il Mucciarini era stato visto all’epoca del duplice omicidio ‘qualche volta con un motorino di piccola cilindrata’ (atti gen. 161).
Le narrazione del post-delictum si colora con la dichiarazione di Natalino che ‘la rivoltella fu gettata in un fosso’.
L’affermazione sembra scaturire da un vero e proprio inquinamento, di cui la fonte sarebbe suo padre che, fatta una dichiarazione in tal senso, confessando il 23 agosto (e la sera precedente aveva ammaestrato il figlio), la ritrattava il giorno dopo (cfr. cap. prec.).
Senonnché è opportuno anticipare che nel successivo interrogatorio (cfr. par. seg.) Natalino ‘riconosce nella foto nr. tre allegata al rapporto dei CC.’ un punto più avanti della macchina dove, nel fosso sulla destra, lo zio Pietro (non Piero in questo secondo verbale) avrebbe gettato l’arma. Tal cosa conduce ad altra ipotesi, e cioè che l’adulto, diverso dal padre, presente sul luogo del delitto, avrebbe effettivamente fatto mostra di disfarsi dell’arma, per rassicurare il bambino. Sotto questo aspetto la prima versione di Mele (egli avrebbe gettato via la pistola dopo il delitto) conterrebbe un accenno di verità, e la seconda non la smentirebbe (la pistola l’avrebbe trattenuta il correo, dopo aver finto di averla gettata via).
Per contro, si può rilevare che il gesto di gettar via la pistola (vero o simulato che si voglia intenderlo) non appare reale, quanto narrato da Natalino, alla luce di un’ultima considerazione.
Egli non ha ancora (e fino a questo momento, mai) detto letteralmente di aver visto (e, in effetti, non può dirlo) l’agente nell’atto di uccidere. E tal cosa è confermata sempre (in ogni versione) dal padre. Non avrebbe perciò mezzo di indicare lo sparatore se non collegando una persona al possesso dell’arma dopo il delitto (in merito è facile ravvisare la forzatura, che emerge nel secondo esame).
Di qui la probabilità che il riferire d’aver visto ‘gettare la rivoltella’, e di essere stato accompagnato da una persona invece che da un’altra, provengano dall’inquinamento subito, la sera successiva al delitto, da suo padre. Questi procurava che il figlio attribuisse le due cose ad una sola persona (Francesco Vinci). Le due indicazioni, subite altre suggestioni, si sarebbero poi divise nei riferimenti del bambino.
Se invece si crede che Natalino stia, in questo caso, riferendo un accadimento reale (anche se simulato), si avvalora la sua indicazione circa lo zio Piero/Pietro quale omicida.
Natalino conclude la narrazione del post-factum, dando cenno dell’accompagnamento da parte di suo padre.
Del tema si è ampiamente discusso nei par. 3.2 -.6, a partire dal primo riferimento fattone da Natalino al m.llo Ferrero. Il ribadirlo, lui presente, durante l’esame, doveva esser difficile per il bambino.
Prima di lasciarlo, si pongono domande al bambino intorno a quanto gli sia stato detto di dire e di non dire (tema anticipato nel par. prec.). Anche quest’argomento sarà ripreso nel secondo esame, sotto diversa angolazione, ed anche in tal caso il bambino apparirà sincero.

3.10 – SECONDO ESAME: DIFFICOLTÀ INIZIALI

Le dichiarazioni rese da Natalino il 21 aprile ’69 sono interrotte, per non stancarlo e perché appare commosso.
Il 23 il bambino viene nuovamente escusso, presenti le stesse persone e le riconosce tutte, naturalmente.
Anche questa volta si parte da lontano.
Il verbale (c. 46, loc. cit.) riferisce: “… dopo varie domande non attinenti al fatto, compagni, giochi, ricordi di quando stava a Lastra a Signa, chiestogli se la sera del fatto il padre fosse stato solo o in compagnia di altri al momento in cui fu sparato, egli mostra di non voler rispondere, di essere impacciato ed ostinatamente tace alle domande postegli dall’inquirente e dal P.M.”.
La reticenza del bambino appare inspiegabile, a petto della sua disponibilità, e in precedenza anche su questo argomento.
Ma se ne chiariscono subito i confini: “Invitato a ricordare gli zii da lui conosciuti ne ricorda diversi, ma non lo zio Pietro né Piero, dicendo che quelli detti erano gli zii buoni e senza voler spiegare quali fossero i cattivi”.
Si tratta del primo esplicito giudizio di valore che il bambino ha dato sino a quel momento, pur potendo apparire ovvio che egli consideri in senso negativo l’uccisore o gli uccisori della madre.
Egli, a quanto sembra, aveva visto e vissuto [già la scoperta del padre sul luogo del delitto e poi] il suo accompagnamento (v. in particolare il capitolo 1 e i paragrafi prec. di questo), come fatti neutri o addirittura rassicuranti. Questa assenza di significatività ai suoi occhi dimostra per quale ragione fosse facilmente suggestionabile nel riferire intorno ai comportamenti, in se stessi non inconsueti, tenuti dagli adulti nei suoi confronti, anche in quella terribile circostanza.
Si ripete che appare assai improbabile che avesse riconosciuto chicchessia nell’atto di uccidere, seppure si fosse reso conto della realtà dell’evento, nel momento in cui si verificava, e non successivamente, attraverso le spiegazioni di un adulto che, pur presente sul luogo, curasse ai suoi occhi di mostrarsene estraneo. A riprova, a De Felice aveva detto dell’evento, senza alcuna emotività, la notte stessa del delitto.
Né successivamente aveva manifestato ripulsa e avversione nei confronti di chi aveva indicato come presente sul luogo del delitto. Così apparivano neutri, da parte sua, i riferimenti fatti a Francesco Vinci, dietro suggerimento del padre, a Salvatore, dietro indicazione dello zio Pierino ed a quest’ultimo, pur indicato come uccisore (si veda, nel par. prec. la domanda se si fosse trovato bene in casa dello zio Pierino, e la risposta affermativa. Più avanti in questo interrogatorio, se ne trova un’altra evidente conferma).
È impensabile che il 23 aprile 1969 maturi da solo, e trascorsi solo due giorni dal precedente interrogatorio, quanto non ha maturato per otto mesi.
Dopo un giro d’argomenti, ricondotto a quello che sta a cuore agl’inquirenti “il bambino insiste nel non voler parlare sulle circostanze di fatto dell’uccisione”. In precedenza è apparso sin troppo disponibile.
Mettendo insieme il giudizio (zii buoni e zii cattivi) e la reticenza, vi sono ragioni più che fondate per stimare che, nel frattempo, taluno si sia adoperato per influenzarlo verso una maggiore riservatezza a certi riguardi.

3.11 – SECONDO ESAME: SEGUE

Il Consigliere Istruttore allora si apparta con lui e, postagli nuovamente la domanda, “il bambino si induce a rispondere in un orecchio il nome di PIETRO come la persona che la sera del fatto accompagnò il padre e sparò”.
Il magistrato non sembra rendersi subito conto che il bambino ha codificato il none reso appena due giorni avanti, anche se annota puntualmente la variazione.
Natalino, intanto, ripete cose già dette: menziona le biciclette e indica addirittura in fotografia il fosso ove sarebbe stata buttata la pistola (se ne è già riferito e commentato in precedenza).
Gli si chiede dove stia lo zio Pietro e dice che “abita a Scandicci”. Poi risponde che lo zio fa il piastrellista, e lavora in un posto che non sa indicare, ma che denomina come una fabbrica. Poiché Pietro è indicato come l’omicida, il g.i. per verificare il giudizio dato dal bambino, gli chiede “se lo zio Pietro sia cattivo e perché’, e il bambino spiega che “una volta mentre era solo gli dette uno schiaffo”.
E tanto dimostra ‘ad abundantiam’ che il bambino è stato inquinato circa il giudizio di valore con cui aveva, all’origine, giustificato la sua reticenza, non riuscendogli alla riprova una spiegazione conseguente.
Prosegue dicendo che lo zio Pietro è più alto di suo padre, ha i capelli scuri e (indica) con la riga sulla destra, e “lavora anche di notte e torna di giorno”.
Inframmezza connotati di Piero Mucciarini (ma quelli fisici potrebbero corrispondere anche ad altri, come per esempio Salvatore Vinci) che lavora di notte, facendo il fornaio, con quelli di altri (per esempio Salvatore e Francesco Vinci si occupano di muratura, anche se non proprio di piastrelle, e il primo assume anche lavori presso fabbriche, come proprio in quel periodo a S. Giorgio a Colonica) e indica il paese, Scandicci, ove egli abita. La confusione è ancora più evidente allorché precisa che “lavora di notte… come fa il padre della sua amica Daniela”. La figlia di Mucciarini si chiama Daniela.
Il bambino appare inquinato circa una persona che identificava in zio Piero, appena due giorni prima.
Dalla sua precisazione che la sua amica Daniela (non la omonima figlia del Mucciarini) abiterebbe alle Cinque Vie, dove abita lo zio Napolino, si appalesa quale potrebbe essere stata la fonte del suo inquinamento.
Lo zio Napolino è il marito (allora vivente) di Maria Mele, sorella di Stefano, e i due abitano appunto alle Cinque Vie. La zia Maria è la sorella maggiore di Stefano (germana, a differenza di Antonietta e Giovanni e ancora di Teresa) e non ha figli propri. Come dirà in questa istruttoria lei stessa e confermerà il direttore dell’Istituto Vittorio Veneto, si reca frequentemente dal nipote che, nei giorni festivi preleva e tiene con sé fino a sera.
La diversione di Natalino appare comunque frettolosa e meno netta (si intravvede anche un indirizzo indiretto verso i Vinci, per il loro lavoro, oltre che circa il nome) dì quella che trasparirà dall’ultimo esame, compiuto circa un mese dopo. Il bambino ha a mente sempre la stessa persona, di cui ha parlato nel primo esame.
Le dichiarazioni relative allo zio Pietro sono inframmezzate dal ricordo della madre che ripone il borsellino setto il sedile dell’autovettura, e allo zio Pietro che fruga nel cassetto del cruscotto (dopo il delitto) e poi va via. Si tratta nel primo caso di un riferimento che ha appiglio nella realtà storica laddove, nel secondo, è una novità. (v. r. cap. 1). Comunque, a parte l’indicazione di zio Pietro, il bambino è forse attendibile, avendo mostrato all’inizio di questo atto, tra gli argomenti diversi, che sono serviti da introduzione, particolare attenzione al denaro ed alle spese della madre (‘comprava il caffè’, ‘aveva pagato il cinema’: e in quest’istruttoria si è appreso, dalla voce dei cognati, che quella sera il Lo Bianco non aveva denaro da spendere).
Si osservi incidentalmente che, accusando Salvatore Vinci e poi Francesco, Stefano Mele ha tirato fuori anche storie d’interesse e di denaro. Proprio il giorno del duplice omicidio era, peraltro, scaduta una
cambiale a favore di Salvatore Vinci. Mele, nella seconda metà di giugno del 1968 (due mesi prima del fatto), aveva ritirato circa mezzo milione, a Prato, per un’assicurazione (accompagnato da Mucciarini, che lo riferirà nel 1984). La cifra era rilevante, corrispondendo ad oltre cinque delle sue mensilità come manovale di muratura, tant’è che aveva fatto offerte d’aiuto ai due Vinci e forse un prestito a Francesco.
Ma non risulta che se ne sia trovata traccia due mesi dopo. Finalmente sia Mucciarini, sia altri familiari da parte di Mele, riferiranno che di norma lui e la famiglia vivevano in condizioni di precarietà, e che gli amanti della Locci approfittavano di loro.
Anche sotto questo profilo, il bambino appare influenzato da discorsi degli adulti in famiglia.
Sollecitato ancora a parlare di zio Pietro, Natalino aggiunge che “frequentava la casa quando non c’era il padre e giocava a carte con la mamma e una volta lo rincorse intorno al tavolo per scherzare”.
Si tratta di riferimenti che si attagliano a Francesco e e Salvatore Vinci, amanti della madre. Beninteso potrebbero riferirsi anche ad altre persone, tra le quali Piero Mucciarini, talora recatosi dai Mele di mattina, come lui stesso ha riferito nel corso di un interrogatorio nel 1984. Ma il fatto, nel suo caso, non è riscontrato circa il connotato dell’abitualità, che sembra sottinteso nella narrazione.
In particolare Salvatore Vinci, nel 1968 (per sue stesse dichiarazioni in istruttoria, e in corte d’Assise), aveva riallacciato la relazione con la Locci, mentre Francesco era detenuto, proseguendola, e ritornando ad un elevato livello di abitualità (cfr. anche in quest’istruttoria, nel cap. VI, le dichiarazioni di Stefano Mele).
Natalino appare perfettamente in grado di identificare Francesco Vinci, ma non, all’evidenza, il fratello di lui Salvatore. Salvatore appare sulle sue labbra un nome separato dalla persona. Non può perciò escludersi che, dovendolo denominare, e potendo incorrere anche in equivoci fisionomici (v. sopra quando descrive fisicamente lo zio Pietro), gli attribuisce un nome che non è il suo.
Si aggiunga, infine, che il racconto (analizzato nel paragrafo 3.7), del riferimento a ‘Salvatore tra le canne’, del m.llo Ferrero in Assise, s’intreccia con il probabile inquinamento di Piero Mucciarini, intuito da Ferrero. Ferrero (loc. cit.) ha sostenuto che, interrogato dopo il primo riferimento, altre volte il bambino, questi aveva abbandonato la versione ‘Salvatore’ ed era passato ad indicare lo zio Pierino come autore del delitto. È impossibile stabilire come questo ‘passaggio sia avvenuto’, osservando che era facile ingenerare in lui una confusione di nomi e poi di persone, seguendo nel dialogo non tanto le sua spontanea disposizione a riferire, quanto il filo dei propri ragionamenti nel domandare.
A questo punto dell’interrogatorio s’inserisce un argomento a sorpresa: “Il bambino risponde a domanda che ricorda che un giorno lo zio Pietro venne a casa e sentì che diceva al babbo di aver comprato una pistola. Era presente anche la mamma… dice di essere stato nascosto sotto il letto e di averlo così udito, aggiunge anche di aver visto un pezzetto di pistola che spuntava di tasca, indicando i pantaloni”.
La storia appare improbabile e, per gli ultimi particolari, vien fatto di pensare che sia frutto di fantasia infantile, o di un malinteso suggerimento.
È anzi più probabile che Natalino abbia mescolato suggerimenti altrui con autosuggestioni intorno ad una persona reale. Ma non sono possibili riscontri.
Si è già detto che appare una forzatura l’affermazione insistente che aveva sparato lo zio Pietro, ed in particolare la spiegazione: “Era sveglio e lo vide sparare”, sostanzialmente nuova. È sempre presente il m.llo Ferrero e pare quasi che il bambino voglia significare di essere stufo della domanda.

3.12 – SECONDO ESAME: SEGUE

Natalino prosegue il racconto affermando che “Il babbo allora aprì lo sportello della macchina e dopo che fu sparato si sedette vicino a lui e gli chiese chi avesse sparato. Egli rispose ‘Pietro’, ed il padre disse ed allora lo vado a cercare”.
Il racconto in parte coincide con quello verbalizzato dal p.m., la sera dopo il suo sopralluogo con il m.llo Ferrero. Ma, mentre allora aveva affermato di aver visto solo suo padre, questa volta, dopo aver soggiunto che il padre ‘tornò da solo e gli disse di stare zitto’, narra che uscito dalla macchina vide che con il padre c’era anche “il fratello dello zio Vincenzo che sta alla Romola” ed il padre e questo zio lo avrebbero “portato alla casa del lumicino”.
È il caso di osservare che lo zio Vincenzo della Romola è uno dei tre fratelli della Locci. Gli altri due si chiamano Giovanni e Pietrino. Natalino però non sa indicare al giudice il nome del fratello dello zio Vincenzo e, sicuramente li conosceva, avendo abitato alla Romola a contatto con Vincenzo e Giovanni Locci, e sapeva (come si vedrà) identificare Pietrino Locci. Ciò significa che egli sta ripetendo una locuzione suggeritagli, sapendo tuttavia a chi attribuirla.
Il giudice insiste con le domande ed il bambino spiega di avere uno zio Pietro ed uno zio Piero. “Lo zio Pietro è quello di Scandicci ed è quello che ha sparato, marito della zia Antonietta” presso il quale ha abitato dopo il delitto ed ha ricevuto visita dal m.llo Ferrero. “… lo zio Piero sarebbe il fratello della mamma ed abita a S. Casciano V.P.”.
La confusione è palese. Piero è Mucciarini e non Locci. Dicendo ‘Pietro’, Natalino continua a voler indicare lui come autore del delitto. Nel precedente interrogatorio ed in questo ha detto di averlo visto dopo il delitto ed in possesso dell’arma, di cui si sarebbe liberato, gettandola via, in un fosso che ha indicato in fotografia.
Eppure improvvisamente lo zio Pietro (e cioè Piero, nel precedente interrogatorio) è sparito dalla scena, per far posto ad un non identificato fratello dello zio Vincenzo, che lo accompagna insieme al padre. Ma non lo identifica con quello che ora chiama erroneamente Piero, e cioè Pietro Locci.
Torna alla mente la testimonianza della zia Teresa (v. r. 3.7) che la sorella Antonietta, domandandogli il nome del suo accompagnatore avrebbe ricevuto dal nipote l’indicazione ‘zio Pietro’. E torna anche il riferimento di Mele nell’interrogatorio del 26 maggio 1969 (già citato stesso luogo) ad una visita fatta da Natalino nel marzo ’69 al fratello della mamma, della quale egli avrebbe saputo, stando in carcere, anche dalla viva voce del figlio. Si noti che questo riferimento è fatto da Mele proprio per spiegare perché Natalino, come gli contesta il giudice, accusi un parente (nella cui casa di abitazione, ed è il caso di Mucciarini, sarebbe stato dopo il fatto) di concorso con lui.
In sintesi Natalino ha subito diverse influenze e tutte in famiglia, per alterare l’indicazione contro Piero Mucciarini.

3.13 – TERZO ESAME

L’ultimo esame di Natalino, del 16.5.69, è stato verbalizzato in forma diretta.
Il giudice, intervenuto solo il p.m., entra subito in argomento.
“D. … il babbo era solo?” “Il bambino risponde prontamente: ‘No’ “. Ma non indica subito chi fosse con il padre. Dà risposte interlocutorie, sino a che il giudice gli chiede: “L’altra volta dicesti che c’era Pietro?” e poi verbalizza “R. (prontissima): ‘No. Ha sparato Pietro”.
Sembra d’intendere che il bambino corregga l’affermazione del giudice. Egli non ha detto che ‘Pietro c’era’, ma che ‘Pietro ha sparato’.
Tal cosa dimostra quanto si è sinora osservato e cioè che egli non attribuisce alcun aspetto sintomatico alla mera presenza sul luogo del delitto a chicchessia, per quello che ha visto dopo di esso.
Le altre risposte, da questo momento, prendono la falsariga dell’interrogatorio precedente. Natalino riferisce di aver visto Pietro sparare quando si è svegliato, dopo i primi colpi, e che aveva in mano la rivoltella (rectius: ‘la pistola’) che sparava dall’esterno del veicolo, attraverso il finestrino aperto, che aveva colpito prima la mamma e poi lo zio, che la mamma era seduta dalla parte del volante.
Precisa stavolta che non ha visto la mamma cambiar posto con lo zio, ma che certamente doveva averlo fatto.
Poi, finalmente dice che con Pietro “C’era solo il babbo”.
C’è da restar perplessi, vistocché prima, alla domanda inversa, non aveva risposto e poi aveva fatto la puntualizzazione riferita. Ma, in effetti, si è nella falsariga iniziale. Natalino non sa dare risposte fuori di un contesto a chiave. Il che significa che egli non sta dicendo cose che ricorda visivamente, ma cose che ripete per aver udite o per aver già dette.
E, in un certo senso, lo dimostrano le battute seguenti:
“D. Perché non lo hai detto ai Carabinieri [sott.: subito dopo il delitto] che c’era anche lo zio Pietro?
— R. (Pausa — Poi dice) ‘Non me lo ricordavo’ “.
Interlocutoriamente si domanda a Natalino se fosse presente Francesco. Ed egli lo nega. Gli si demanda se lo conosce e lui spiega: “Si chiama Vinci Francesco”. Gli si ripete la domanda e ribadisce che Francesco Vinci non era presente sul luogo del delitto.
Si ritorna a Pietro di Scandicci. Il bambino non ne ricorda il mestiere, ma ricorda di essere stato in casa sua (dal che s’intende che sta ancora proprio parlando di Mucciarini) e che gli aveva detto di non dir nulla, ma non di ‘non dire di Pietro’.
Ciò, per inciso, può essere oggettivamente verissimo. In altri termini gli sarebbe stato detto di non riferire del delitto in genere, non di questo o quel particolare in ispecie. In questo senso il bambino è riscontrato da quanto ha riferito De Felice che lo ha ricevuto per primo, la stessa notte del fatto.
Il bambino aggiunge che il babbo però gli aveva anche detto “di non dir niente alla gente”. E il riferimento è pertinente ad un discorso fattogli in un tempo diverso (rispetto a quello del delitto).
Il primo suggerimento è solo apparentemente generico. “Non dir nulla” in contrapposto a “non dir niente alla gente”, vuol significare ‘non riferire in un caso particolare’ rispetto a ‘non parlare di certe cose con chicchessia in ogni caso’. La fedeltà delle risposte del bambino è univocamente significativa sul punto.

3.14 – LA VERITÀ DI NATALINO

Natalino ha visto un altro uomo oltre il padre, sul luogo del delitto. Costui, verosimilmente, è la persona che lo ha poi accompagnato sin nei pressi della casa di De Felice.
Ciò non esclude che potesse esservi anche una terza persona che non ha veduto, e di cui ha forse avuto sentore (il rumore nella vegetazione).
Colui che ha visto gli era familiare e, probabilmente, capace di ascendente nei suoi confronti.
Natalino lo identifica, superando ogni tentativo di indurlo a modificarne il nome ed i connotati, in Piero Mucciarini. L’indicazione (ritrattata solo in Corte d’Assise nel 1970) non è tuttavia sicura.
Per un verso è legata al fatto che Mucciarini, avendolo in casa, dopo aver avuto conto della confessione del padre, appare averlo spinto ad una pressocché conforme narrazione. Per altro, non appare difficile uno scambio di fisionomie, per l’ora, il posto e le circostanze dell’incontro notturno, con un adulto ai suoi occhi rassomigliante.
Il bambino ha escluso che possa invece trattarsi di Francesco Vinci, che era ben in grado di distinguere da altri che frequentavano la sua casa, come invece, ha rivelato, gli aveva suggerito suo padre. Non è possibile formulare, circa la sua indicazione, alternative a Piero Mucciarini, per quanto appaia singolare che ‘Salvatore’, pure da lui conosciuto, sia l’unico nome al quale non abbia dato un’identità.
Da adulto Natale Mele ha riconosciuto luoghi e persone (la famiglia De Felice), ricostruito parzialmente il post-delictum e offerto, attraverso la narrazione, elementi che confermano la ragione del suo accompagnamento: la salvezza dell’alibi di suo padre.
È difficile stabilire se rammenti chi fosse l’altra persona. È dubbio che gl’inquinamenti subiti, e forse anche l’incapacità di distinguere le immagini dalle parole, gli consentano un sicuro affidamento sulla sua memoria. Non ha fatto il nome di nessuno e probabilmente non lo avrebbe fatto, anche senza le attestate ed inequivoche pressioni subite al riguardo dai parenti del padre, dopo la ripresa delle indagini, nel corso del primo lustro di questo decennio.

CAPO IV

— 1982 —

4.1 – RIPRESA DELLE INDAGINI

Il giorno successivo alla scoperta del duplice omicidio di Montespertoli, commesso nella notte 19-20 giugno 1982, ed era, per quanto se ne sapeva, il quarto della serie consumata con la stessa pistola calibro 22, dopo quelli del 1974 (Borgo S. Lorenzo) e del 1981 (Scandicci – Calenzano), si diffuse la notizia che il giovane Paolo Mainardi, che era stato trovato ancora in vita, avesse fatto in tempo, prima di morire, a fornire notizie utili per le indagini. Ma in realtà non aveva potuto farlo.
A quell’epoca era ormai acquisito il concetto di serie maniacale (cfr.: Premessa), e si attribuiva una perversione sessuale all’autore dei delitti.
Il duplice omicidio di Baccaiano di Montespertoli differiva dagli altri, per il fatto che sulle vittime non era stata utilizzata l’arma da punta e taglio. Si stimava che l’omicida non ne avesse avuto il tempo e l’opportunità, vuoi per la pronta reazione del Mainardi agli spari, tant’è che, pur ferito, era riuscito a spostare l’autovettura in retromarcia, sul margine opposto della carreggiata, vuoi per il successivo passaggio di un altro veicolo.
Venuta meno la ‘pista Spalletti’, un portantino di Montelupo arrestato durante le indagini per il duplice omicidio del 1981 di Scandicci ed escarcerato in seguito a quello di Calenzano, le indagini non avevano un filo conduttore.
Questo filo sarebbe stato offerto dal ricordo del m.llo Fiori, in servizio presso il Comando Gruppo Carabinieri di Firenze, e nel 1968 alle dipendenze della Compagnia di Signa. Egli rammentava al comandante del Reparto Operativo, T. Col. Dell’Amico, che in quell’anno dirigeva il Nucleo Investigativo dello stesso Gruppo, che nel 1968, appunto, era stata uccisa una coppia in Castelletti di Signa a colpi di pistola. L’arma non era mai stata rinvenuta. Un colpevole era stato trovato in persona del marito della donna uccisa, per quanto se ne sapeva condannato dalla Corte d’Assise di Firenze nel 1970 (cfr.: le escussioni merito, in vol. 5/B, fasc. 3).
Effettuati opportuni riscontri, si accertava che il condannato, Stefano Mele, aveva subito tutti i gradi di giudizio ed uno di rinvio a Perugia. Il G.I. dell’epoca, avvertito, disponeva il recupero del fascicolo processuale. Intorno al 20 di luglio del 1982 esso si trovava sul suo tavolo. Allegati al fascicolo erano, per fortuita e inspiegabile combinazione, i bossoli e i proiettili rinvenuti dopo il duplice omicidio. Disposta comparazione, già a livello informale si accertava l’identità dell’arma adoperata nel 1968 e nel 1982.
Il giudice avvertiva il p.m.. La notizia veniva tenuta segreta per necessità imprescindibili delle indagini, che avrebbero poi condotto all’incriminazione di Francesco Vinci.
Scagionato quest’ultimo dalle sopravvenienze nel 1984, la riservatezza del 1982 avrebbe suscitato non poche diffidenze, mai sopite, nei mass-media e perciò nell’opinione pubblica, con seguito di anonimi consiglieri che hanno ritenuto d’indirizzare le indagini nei confronti di taluno degli stessi membri delle stesse forze di P.G.
Nel 1983 tutti coloro che, tra i carabinieri del gruppo di Firenze, avevano contribuito alla scoperta del precedente sono stati escussi e taluni, nuovamente, negli anni successivi. Da ultimo, in questo 1989, si è ritornati incidentalmente sull’argomento, in rapporto ad atti rinvenuti nel fascicolo del Nucleo Operativo della Compagnia di Prato (cfr: fascicolo ‘Parretti’ in vol. 7K), ed alla possibilità, smentita in maniera assoluta dagli accertamenti, che la notizia del precedente del 1968 fosse stata ottenuta diversamente, per esempio attraverso una confidenza.
Analogamente non ha nessun fondamento che sia pervenuto al G.I. dell’epoca (1982) un anonimo, nel quale fosse menzionato in relazione agli omicidi delle coppie, il precedente di Signa. Un anonimo che riferisce di precedente esiste, bensì, negli atti generici del fascicolo del p.m. relativo al delitto di Montespertoli, ma concerne un reato a sfondo sessuale, circa il quale aveva indagato a suo tempo, e con successo, la magistratura fiorentina.

4.2 – LE PROSPETTIVE

La lettura degli atti del 1968 forniva al G.I. del 1982 un quadro in parte ambiguo, ma sostanzialmente incoraggiante per gli sviluppi delle indagini.
Innanzitutto il delitto del 1968 appariva grosso modo paradigmatico di tutti gli altri. Era stata uccisa una coppia eterosessuale in un’autovettura isolata nelle campagne di Signa. Ma a bordo del veicolo si trovava al momento del delitto, ed era stato risparmiato, il figlio della donna assassinata, che non aveva ancora 7 anni. Il bambino era stato poi condotto, verosimilmente da chi aveva commesso il delitto, nei pressi di una casa distante circa due chilometri. Quella stessa notte, aveva fatto rinvenire a coloro che lo avevano accolto, la vettura con i cadaveri, in mezzo ai campi.
Ciò dimostrava un legame tra l’omicida e le vittime, avallato da altri due argomenti. Il bambino, Natalino, si era premurato di dar subito a chi lo accoglieva l’alibi del padre, e questi, il sardo Stefano Mele, aveva, già il secondo giorno d’indagini, confessato il delitto ai carabinieri. Natalino aveva poi indicato il padre come accompagnatore dopo il delitto e, più tardi, uno zio quale esecutore. Ma su quest’ultimo aspetto non era stato creduto (v. cap. prec.).
Il reo confesso aveva, per contro, attribuito il possesso dell’arma, che non era stata rinvenuta e, in un secondo momento, la stessa esecuzione materiale dell’omicidio, consecutivamente a tre persone diverse.
Aveva subito indicato come concorrente un amante della moglie, Salvatore Vinci. sardo come lui e l’uccisa. Ritrattando le accuse contro costui, aveva attribuito il delitto al fratello Francesco e, ancora ritrattando, a tale Carmelo Cutrona (siciliano, come l’ucciso ultimo amante della donna). Era poi tornato sulle accuse nei confronti di Francesco Vinci, senza più recederne. Mele aveva comunque sempre ammesso la sua partecipazione all’omicidio, tranne che all’inizio dell’interrogatorio in corte d’Assise, ritornando però subito alla primitiva versione, anche per invito esplicito dei suoi stessi difensori che avevano sostenuto le sue accuse, oltrecché le difese.
Condannato definitivamente dalla corte d’Assise d’Appello di Perugia, per duplice omicidio e triplice calunnia, aveva terminato la pena e la misura di sicurezza personale, inflittagli a cagione di una seminfermità riconosciuta, già nell’aprile 1981.
Al momento viveva in una casa per ex-detenuti, gestita da un sacerdote in Ronco all’Adige, in provincia di Verona (sono questi, in sintesi, gli argomenti tenuti da conto al momento di riprendere le indagini).

4.3 – ESCUSSIONE DI STEFANO MELE DEL 27 LUGLIO 1982

Il 27 luglio 1982, presente il Ten. Col. Dell’Amico, che era stato il primo ad inquisirlo, il G.I. assume la testimonianza di Stefano Mele, in Veneto.
Il processo verbale principia con un avvertimento: “Prendo atto che vengo a questo punto interrogato come teste soltanto in quanto da emergenze successive alla mia condanna risulta che con la pistola usata per uccidere mia moglie e il Lo Bianco Antonio sono stati commessi altri quattro duplici omicidi che io sicuramente non posso aver commesso in quanto detenuto nel 1974 e a Ronco all’Adige nel 1981 e nel 1982″.
L’avvertimento ha per oggetto implicito il divieto dell’art. 348 u.p. CPP (cfr.: Premessa). In effetti, la situazione è modificata, anche se Mele viene sentito con riferimento a quello che sa, e risulta arrestato un secondo giorno d’indagini (23/8/1968). Peraltro, per giurisprudenza consolidata, egli può fare acquiescenza all’inquisizione.
Senonché Mele nega di aver preso parte all’omicidio del 1968, riprendendo l’alibi fornito il primo giorno d’indagini, da lui e da suo figlio, e poi da entrambi abbandonato, di essere stato a letto ammalato; dichiara di aver confessato, rispondendo in maniera affermativa, perché ‘istupidito’ dall’accaduto, ad un brigadiere sardo. Spiega di aver appreso ‘dopo l’interrogatorio’ da suo figlio, che gli era stato concesso di vedere, che ad uccidere la moglie e l’amante e ad accompagnare Natalino vicino a delle case, era stato Francesco Vinci che avrebbe minacciato di ucciderlo e con lui suo padre se avessero parlato. Perciò si era addossato il delitto. Ma che si trattasse di Vinci lo si poteva desumere anche dalla descrizione che il cassiere del cinema di Signa aveva fatto in giudizio della persona entrata nel locale per controllare i due che poi sarebbero stati uccisi.
Proseguendo nelle sue accuse contro Francesco Vinci, ne indica torti e sopraffazioni, dall’essersi installato in casa sua, alle conseguenze di un incidente subito per sua colpa, alle minacce nei confronti di sua moglie. Precisa anche i rapporti tra Francesco ed il fratello Salvatore.
Finalmente chiarisce le ragioni della sua evoluzione accusatoria (nell’istruttoria del 1968): “… inizialmente feci il nome di Vinci Salvatore per non chiamare in causa il Vinci Francesco. Poi pressato dagli interrogatori parlai del Vinci Francesco per cui questo fu arrestato e mentre ero alle Murate mi minacciò, dicendomi che se non avessi ritrattato tutto avrebbe ucciso me e la mia famiglia. Fu così che feci il nome del Cutrona in quanto questi sapeva che stavo male ed era venuto a casa mia.”
Rileggendo le dichiarazioni già rese, e ricevute contestazioni, Mele ricorda meglio, e circa il modo in cui avrebbe appreso del reale assassino, precisa: “Il giorno 22 agosto, dopo essere stato interrogato ed aver passato tutta la giornata in caserma, sono stato rilasciato e con il bambino tornai a casa… quella sera stessa il bambino, prima di addormentarsi, mi disse che ad uccidere la madre ed a portarlo in braccio dopo era stato il Vinci Francesco… che… aveva minacciato di uccidere sia lui che me se avesse parlato…”.
Tra le altre cose rilevanti di questo primo interrogatorio, Mele afferma di aver appreso dalla stessa moglie del Vinci (Vitalia), che l’amante assassino di sua moglie detenesse l’arma nel cassettino della lambretta.
In effetti questa affermazione (di essere stato informato dalla cognata che suo fratello Francesco possedesse una pistola in quel nascondiglio) era stata fatta nel 1968, da Salvatore Vinci, all’evidenza per scagionarsi e far cadere i sospetti su Francesco. Mele aveva invece detto, trasferendo la chiamata in correità da Salvatore a quest’ultimo, di sapere direttamente da lui del possesso della pistola, e che Francesco la deteneva in un posto che non conosceva neanche Vitalia (la moglie — cfr.: il verbale d’interrogatorio del pomeriggio del 24 agosto 1968 e capi II e VIII).
A contestazione del giudice, Mele aggiunge che lo stesso Francesco Vinci gli aveva parlato della pistola nel cassetto della lambretta, senza mai mostrargliela.
Esclude che Natalino possa essere stato successivamente avvicinato (e perciò ulteriormente minacciato) dal Vinci, mentre era in collegio. E a domanda risponde: «Non sono in grado di formulare ipotesi su chi abbia potuto indurre il bambino a dire che ero stato io [a commettere il delitto]. Posso dire che veniva regolarmente visitato sia dai parenti della madre che dai miei parenti. I miei parenti erano convinti che ero stato io, a maggior ragione quelli di mia moglie.”
Dopo aver fornito notizie approssimative di suo figlio, le quali dimostrano che non ha rapporti frequenti con lui, afferma: “… negli ultimi tempi la mia famiglia è timorosa del Vinci Francesco. Loro non vogliono che ritorni a Scandicci ed hanno dimostrato di non gradire la mia presenza.
Credo che abbiano paura anche dei parenti del morto, questo perché mia sorella [la maggiore, Maria, ved. Baldini] mi ha detto che quando io ero da loro non avrebbero aperto la porta a nessuno in quanto, mentre c’ero io, temevano di essere ammazzati tutti. Non so se si riferissero al Vinci Francesco o ai parenti del morto”. 
In precedenza, sondato dal giudice circa la sorte del figlio dopo il delitto, ha ricordato che fu preso dalla sorella Teresa che abita in provincia di Livorno, e che costei non gli ha scritto dal giorno dell’omicidio.
Infine, a contestazione di un particolare significativo per indicare la sua presenza sul luogo del delitto (l’urto accidentale della levetta delle luci sull’autovettura del Lo Bianco dopo il delitto), lo qualifica insignificante e dice di non ricordarlo. Ricorda invece di aver sbagliato strada durante il sopralluogo con i carabinieri e che si dovette chiedere indicazioni ad una donna, in quanto lui non sarebbe mai stato a Castelletti di Signa.

4.4 – ANALISI DEL RACCONTO DI STEFANO MELE AL G.I.

Le dichiarazioni di Mele appalesano tre motivi prevalenti: la paura che non è per le persone, ma verso la giustizia, il rancore verso Vinci Francesco e l’ambiguità del rapporto con la sua famiglia d’origine.
Alla luce dell’istruttoria compiuta, è possibile ritenere che questi tre motivi si combinassero, al momento dell’escussione, a fine luglio 1982.
Egli aveva espiato, da poco più di un anno, una pena tutto sommato lieve per il gravissimo delitto attribuitogli. E ricompariva un giudice istruttore, accompagnato dal primo ufficiale dei carabinieri che lo aveva inquisito, a porgli domande simili a quelle a cui aveva dovuto rispondere prima della condanna. La premessa del giudice, men che rassicurarlo, lo preoccupava (e pretenderà poi dal p.m., v. più avanti, un’esplicita dichiarazione d’impunità, per quanto già commesso). Ribadirà più volte, nel corso degli anni a venire, la sua estraneità ai delitti commessi dopo il 1968 con la pistola usata allora.
Era rimasto isolato dalla società per circa tredici anni. Ritornatovi ultrasessantenne, la famiglia d’origine non si era manifestata disposta ad accoglierlo, facendogli capire che la sua presenza avrebbe creato imbarazzo, se non addirittura paure. E non aveva rapporti con il figlio cresciuto lontano da lui e palesemente estraneo, secondo le sue stesse dichiarazioni.
È del tutto improbabile che nel 1982 fosse attuale la assunta minaccia di Vinci al figlio. Peraltro lui stesso l’ha privata d’efficacia, lasciando capire che erano stati i suoi congiunti, convinti della sua colpevolezza, a modificare l’atteggiamento di Natalino nel 1968, in accusatorio nei suoi confronti.
Da una telefonata intercettata nell’agosto 1982 dai Carabinieri sull’utenza di Maria Mele a Scandicci si desume chiaramente che costei e suo fratello Giovanni non avevano voluto in casa l’ex-detenuto e non vi volevano neanche suo figlio Natalino, ed avevano ostacolato un ricongiungimento, peraltro improbabile, dei due dopo l’escarcerazione di Stefano. Tali cose saranno poi asseverate e confermate dagli stessi interessati nell’istruttoria del 1984. Altra conferma del distacco dalla famiglia è nel riferimento di Mele al rapporto interrotto con la sorella Teresa di Livorno.
Di codesta situazione, che significa per l’ex-detenuto la continuazione dell’isolamento, Mele fa paradossalmente carico al Vinci. Il paradosso si spiega: Vinci aveva dato pubblico scandalo della sua relazione con Barbara Locci, venendo arrestato per concubinato con lei, nel novembre 1967, in seguito a denuncia di sua moglie Vitalia Melis (fasc. in vol. 5E). Si era poi di fatto installato in casa dei Mele e in sostanza aveva esautorato Stefano dalle sue potestà e diritti familiari. In un certo senso, egli stima Vinci causa del suo isolamento dai familiari, anche dopo l’espiazione. Nel 1984 spiegherà l’accusa d’omicidio contro di lui, perché il suo comportamento ha posto le premesse per la stanchezza del suo rapporto coniugale. E, nel 1969 ha chiaramente asserito al g.i. di averlo accusato (lui e suo fratello Salvatore), perché si può dire che ‘gli trombassero la moglie sotto gli occhi’ (v. r. 2.8).
In ogni caso le sue accuse contro Vinci sono in linea con la difesa assunta durante il processo a suo carico (a seguito del quale è stato anche condannato per calunnia), seppure ne supera la logica e leimplicazioni.
Egli ha un alibi per il delitto: era malato a letto e, persino uno (Cutrona) che lui aveva accusato (perché minacciato da Vinci) può riferirlo. Il cassiere del cinema può riscontrare chi vi è entrato prima del delitto. Il figlio sa chi lo ha accompagnato. Un’anonima abitante di Signa nel ricordo dei carabinieri può dimostrare (l’invito è palesemente rivolto all’ufficiale presente allora ed a questa escussione) che lui non conosceva la strada di Castelletti durante il sopralluogo.
Mele, in queste dichiarazioni del 1982, arriva all’accusa contro Vinci con un copione già pronto, ma non preciso. La sua ricostruzione immediata appare in contrasto con l’accaduto delle prime indagini del 1968. Il Giudice può contestarglielo e, quando lo fa, Mele è costretto ad aggiustare il tiro, ammettendo di aver confessato dopo aver parlato con il figlio e non prima. Questo può fungere da avallo alla sua paura di Vinci, che lo ha minacciato attraverso il bambino, ma non spiega perché il figlio, che prima della sua confessione aveva avallato il suo alibi, dopo di essa l’abbia indicato come suo accompagnatore. Il Giudice domanda se il bambino abbia potuto subire ulteriori influenze del Vinci, ma Mele stesso lo esclude. Il giudice è perplesso. Mele aveva accusato Francesco Vinci, postulandosi presente al delitto, quando si era reso conto di poter far riscontrare le sue accuse da Salvatore Vinci, già indicato come correo, e prima che il figlio lo chiamasse in causa.
È insomma trasparente dagli atti del 68 che Mele non ha mai avuto paura del Vinci all’epoca delle indagini. E non ne ha al momento. E dovrebbe averne se, a stregua delle sue consapevolezze, è opinabile che il Vinci si sia trasformato da uccisore per gelosia in gratuito assassino di coppie isolate.
Anche in altri aspetti è palese che Mele continui a mentire. Dal verbale del 26 agosto del 1968 (vol. 1A), si desume con estrema chiarezza che ritrattò le accuse contro Francesco Vinci, per contestazione di contraddizioni in consecutive versioni dei fatti. E passò ad accusare Cutrona Carmelo, perché in quel momento dell’interrogatorio, l’allora tenente Dell’Amico, intervenuto in presenza del magistrato (e presente anche in questa sede, come si è annotato) riferiva che il guanto di paraffina scagionava il Vinci ed era positivo per lui stesso e per il Cutrona in particolare. Non è insomma credibile che abbia ritrattato le accuse perché minacciato in carcere, neanche per un momento.
Tuttavia la carica emotiva di rancore contro Vinci, e non è possibile al momento un convincimento diverso, viene intesa come una riprova del fatto che l’altro sia il correo impunito e, ciò che più conta, il possessore della pistola mai rinvenuta, che continua ad uccidere.
È palese che, destituita di fondamento l’accusa contro Francesco Vinci, le dichiarazioni di Mele in questo processo verbale acquisteranno una valenza enorme per lo sviluppo delle indagini successive, vuoi all’interno della famiglia, nella quale si concentrano tutte le sue risposte emotive, che poi verso Salvatore Vinci, il primo accusato nel 68 da Mele, e fonte apparente della notizia intorno alla pistola detenuta da
Francesco.
Il G.I. comunica il processo verbale di escussione del 27.7.1982 alla Procura di Firenze.

4.5 – LE INDAGINI DEL P.M. (arresto di F. Vinci per maltrattamenti)

Le accuse di Mele contro Francesco Vinci riceveranno, nei giorni successivi al 27 luglio, una conferma indiretta. I Carabinieri del grossetano trovano la sua vettura abbandonata in una campagna, nascosta tra il fogliame. E Vinci è sparito dalla sua casa di Montelupo il giorno successivo alla scoperta del duplice omicidio di Montespertoli. Questi fatti appaiono agl’inquirenti come il passo falso che si attendeva dall’autore del delitto (v. r. 4.1), in conseguenza della divulgazione della notizia che il giovane Mainardi aveva fatto in tempo a fornire indicazioni prima di morire.
La Procura di Firenze pone sotto controllo il telefono di casa Vinci, che fa perquisire. Le intercettazioni sembrano dimostrare che Vinci non sappia esattamente il perché delle attenzioni degl’inquirenti (si scoprirà poi che è coinvolto in furti commessi nella zona dove ha nascosto l’autovettura) e la perquisizione non fornisce riscontri al suo coinvolgimento negli omicidi.
L’escussione di sua moglie, Vitalia Melis (già Muscas), conduce alla sua incriminazione per maltrattamenti (cfr. 8 ss, escuss. testi, vol. 5 C). Su questa scorta viene emesso ordine di cattura nei suoi confronti, peraltro proporzionato alla sua condizione di irreperibile ed ai precedenti.
Vinci viene catturato il 15 agosto 1982 nei possedimenti di Giovanni Calamosca, in quel di Firenzuola.
Con Calamosca era stato implicato in indagini per un duplice omicidio di sardi, apparentemente connesso a sequestri di persona, nel Bolognese. Giovanni Calamosca ha ospitato i maggiori responsabili dei sequestri a matrice sarda connessi in Toscana in quegli anni. In relazione con il Vinci dal ’74, sarà lui stesso implicato nelle indagini per questi delitti nel 1985 e ne è stato recentemente prosciolto (vol. 7 P e 9).
La cattura di F. Vinci per maltrattamenti rende impellente la soluzione della sua posizione in relazione ai duplici omicidi. Le dichiarazioni di Mele al G.I. del 27 luglio sono insufficienti sul piano indiziario. Si stima che Mele abbia detto il vero accusandolo, ma non affermando di essere estraneo al delitto.
Secondo gl’inquirenti, è in grado di accusare Vinci per diretta consapevolezza, ed è necessario che dica la verità. La posizione difensiva da lui assunta nell’istruttoria del 1968 e nel dibattimento del
’70 e, sino alla condanna definitiva, anche dai suoi legali, come confermeranno le acquisizioni degli stessi incartamenti dei difensori (Ricci e Castelfranco, depositario di essi, intanto deceduto il collega) appare maggiormente credibile. Egli avrebbe presenziato fisicamente al delitto, non attore ma agito dall’altro.

4.6 – I FAMILIARI DI MELE (16 agosto 1982)

Il 16 agosto 1982 la Procura prende contatto, prima con il figlio del Mele, Natale, che sostanzialmente ricorda solo di essersi svegliato, di aver rilevato la morte della madre e dell’uomo che era con lei, di essere fuggito e ritrovato nei pressi di una casa. Natalino spiega ai magistrati del p.m.: “Dell’oggetto di questo interrogatorio, prima di essere sentito ho accennato brevemente per telefono solo a mia zia Maria, la quale mi ha consigliato di dire che quella notte dormivo e quindi di non essere in grado di riferire nulla” (c. 16 ss. vol. 5C, escuss. testi).
Il p.m. passa quindi ad esaminare Maria Mele. L’anziana sorella di Stefano Mele, che vive in casa con il padre ed è vedova, appare ai magistrati reticente. Dopo la sua escussione, difatti il p.m. dispone l’intercettazione delle telefonate sulla sua utenza (vo. 5/C, fasc. riun.).
Una telefonata intercettata (ore 7,06 del 19.8.82, brogliaccio e perizia di trascrizione loc. cit.) tra lei e la sorella Teresa, sembrerà confermare il diverso atteggiamento delle due congiunte di Stefano Mele.
Entrambe dicono di non sapere chi sia il complice o i complici del fratello (che forse non lo dirà mai) pur sospettando del Vinci. Teresa afferma di voler essere sincera con gl’inquirenti. Maria è preoccupata. Suo fratello Giovanni, in altra telefonata, mostra di condividerne le preoccupazioni, e afferma che bisogna stare attenti a ‘non farsi le scarpe l’uno con l’altro’ e sospetta che il telefono sia controllato (ore 19,52 st. data, loc. cit.).
L’escussione testimoniale di Maria Mele dà ampio conto della sua diffidenza, ma in effetti contribuisce allo sviluppo delle indagini.
Ai magistrati racconta che suo fratello, intestatario di un motorino del Vinci, una volta era stato costretto a pagare per i danni cagionati da lui [in realtà Mele era intestatario di un motorino comprato da Salvatore, e guidato da Francesco, che conduceva anche lui al lavoro con lo stesso mezzo: quest’esperienza reale è probabilmente alla base della descrizione delle modalità di esecuzione del delitto, allorché Mele il 24 agosto 1968 chiama in correità Francesco Vinci].
Un’altra aveva invece riscosso cinquecentomila lire dall’Assicurazione per un danno subito e ‘i soldi non furono poi [dopo il duplice omicidio: si appurerà nel 1984, che Mele li aveva riscossi, accompagnato dal Mucciarini, a Prato, esattamente due mesi prima, 21 giugno 1968] ritrovati’. E aggiunge: “Ho anche sentito dire che uno di questi Vinci se la intendeva con la moglie di Stefano”.
Il verbale reca subito dopo: “a questo punto mentre si verbalizza la teste aggiunge: «adesso si rivolteranno tutti contro di me». Invitata a riferire se abbia ricevuto minacce da parte dei Vinci o se tali minacce siano state fatte a qualche familiare [e i magistrati hanno a mente le dichiarazioni di Stefano Mele al G.I. del 27 luglio precedente: il verbale è, in copia, il primo del fascicolo testimoniale di sommaria] dichiara: non ho mai ricevuto minacce, né mi risulta che le abbiano ricevute i miei familiari. Ho detto che avevo paura dei VINCI perché si è trattato di una mia sensazione, ma io questi VINCI nemmeno li conosco ed anzi uno di loro l’ho intravvisto al processo”.
Queste ultime dichiarazioni, in contrasto con il loro tenore apparente, come ovvio accrescono i sospetti degl’inquirenti, invece di diminuirli, tanto più che la teste dice: “A questo punto sono passati… dai fatti quattordici anni… e noi ci siamo rassegnati: è una vergogna che ci portiamo. Io non ho interesse alla revisione del processo e se c’è da firmare qualcosa sul punto, non firmo. Del resto mio fratello avrebbe fatto bene a dire la verità all’epoca e non a dire tutte quelle bugie che
riportarono i giornali” (c. 20, vol. loc. cit.).
Maria conferma in pieno quanto Natalino ha affermato lei gli suggerisce di dire: “del resto il bambino stava dormendo e non ha visto nulla”. E fornisce poco credibili spiegazioni circa la fonte delle sue informazioni in merito, visto che afferma di non aver sondato il nipote.
Recatisi a casa di Maria Mele, quello stesso pomeriggio, i magistrati della Procura ottengono lettere e documenti (taluni riguardano il saldo di un debito in titoli, scaduto all’epoca del delitto, in favore di Salvatore Vinci).
Un contributo deciso all’indirizzo contro Francesco Vinci, viene dato ai due magistrati del p.m., dal vecchio Palmerio Mele, di 92 anni, malfermo, ma lucido (pg. 40. loc. cit.).
Egli dichiara: “Mio figlio Stefano mi ha detto di essere innocente e mi ha fatto capire che è stato attirato in una trappola da uno dei fratelli Vinci. Lui non poteva recarsi sul posto dell’omicidio con un motorino perché non ne disponeva, e comunque non lo sapeva guidare. Possedeva una bicicletta, ma questa non sarebbe stata un mezzo compatibile con la distanza tra il luogo del delitto e la sua abitazione. A mio avviso il responsabile del delitto fu Francesco, quello dei fratelli più alto e più
snello e il più feroce dei tre. Ritengo che Stefano andò sul luogo del delitto assieme a Francesco Vinci, sul motorino da questo condotto. Non ricordo bene la data, ma durante la carcerazione preventiva di mio figlio Stefano, mia figlia Antonietta ricevette, in via Acciaioli, la visita di uno dei fratelli Vinci, che profferì minacce e disse di sapere chi era il vero assassino”.
Maria, presente a queste dichiarazioni del padre, a stregua del verbale ‘assume un atteggiamento reticente e si mostra spaventata’. Viene invitata ad una maggiore sincerità e tende ad ostacolare la visita dei magistrati alla sorella Antonietta, e rifiuta di firmare il verbale di sopralluogo.
Antonietta Mele abita con la famiglia in una casa vicina a quella di Maria e Palmerio Mele a Scandicci.
È gravemente ammalata di cancro e morirà poco più di un mese dopo (20 settembre 1982). Il medico ne consente l’escussione estemporanea, che sarà confermata qualche giorno dopo. La donna risponde stando a letto. Ricorda che, all’epoca del processo di appello a carico del fratello Stefano, (Giovanni, il più anziano, chiarirà poi al p.m. che torna ad interrogarla) si era recato a casa sua, cercando di ottenere un colloquio in carcere con il Mele, a suo dire avendo la possibilità di aiutarlo.
Ella si era “sottratta alla richiesta di costui di farlo passare per un cugino, perché impaurita. Non aveva detto nulla in merito ai Carabinieri e ai difensori del fratello (cfr. verb. c. 41, vol. loc. cit.).
La donna poi afferma di ritenere il fratello, che avrebbe sempre proclamato la sua innocenza con lei, dicendo che un giorno i familiari avrebbero appreso la verità, incapace del delitto e che le armi sono del tutto estranee alla sua famiglia di onesti lavoratori. Quanto a Natalino afferma di averlo tenuto in casa dopo il delitto e di avergli domandato cosa ne ricordasse, ma egli le avrebbe replicato: “mi sono svegliato ed ho chiamato la mamma e quello che era con lei mi ha detto di non chiamarla, perché era morta e poi non ha più parlato.” (ibidem).
L’escussione di Antonietta Mele viene interrotta dal medico, per non affaticarla ulteriormente.
Quella stessa sera, appena andati via i magistrati, Antonietta Mele Mucciarini telefona a casa della sorella Maria, alla quale fa capo il nipote Natalino e, avutolo a telefono, lo invita a scendere a casa sua appena terminata la cena (cfr.: tel. 20,47 del 16-8-1982, loc. cit.).
Sulla stessa linea di Antonietta, sarà il 21 agosto del 1982, la sorella Teresa Mele, che abita a Piombino con marito e figli.
Riferisce che suo fratello Stefano, presso il quale erano accorsi lei, suo marito Marcello Chiaramonti, ed il cognato, marito di Antonietta, Piero Mucciarini, la mattina di due giorni dopo il delitto, e cioè del giorno in cui egli avrebbe confessato (23 agosto 1968), le aveva detto di essere innocente e che tuttavia sarebbe finito alle Murate. In seguito, durante le visite in carcere, le aveva ripetuto la professione d’innocenza e manifestato rassegnazione, senza spiegare il perché. In altra occasione alle Murate, un detenuto le aveva detto: “Io so che non è stato lui, povero tonto!” (cfr. c. 35, vol. loc. cit.).
La stessa mattina, in cui aveva parlato con il fratello ancora libero, riceveva in custodia il nipote Natalino, al quale chiedeva di riferirle che cosa ricordasse di quella notte e Natalino le aveva risposto che stava dormendo, che ricordava un’ombra che gli diceva di camminare e che l’aveva portato a suonare ad una porta. Teresa aggiunge che i carabinieri interrogarono il bambino mentre questi era ospite della sorella Antonietta e che a costoro parlò poi di un certo zio Pietro che loro (familiari) non capirono chi fosse.
Nel 1984, Teresa Mele attesterà più volte che Natalino aveva detto di zio Pietro già a sua sorella Antonietta, che gli aveva domandato chi lo avesse accompagnato dopo il delitto.
In sintesi, da questa giornata d’indagini del 16 agosto 1982, i magistrati avevano conferma dei sospetti contro Vinci (avallata dalle dichiarazioni di Palmerio Mele e dagl’indiretti riferimenti delle sorelle di Stefano) e modo di stimare che Mele e i suoi familiari avessero paura.
Ma non avevano saputo alcunché di nuovo intorno al merito del fatto e tantomeno dall’unico, Natalino, che ne era stato diretto testimone.
L’ascolto delle telefonate avrebbe consentito d’intendere solo in qualche misura che, essendo la nuova inchiesta principiata da Natalino, e avendo questi, nel 1968, accusato, oltre il padre, lo zio Pierino, marito della zia Antonietta, le preoccupazioni delle sorelle Mele vertevano anche in una direzione, che non aveva nulla a che fare con Vinci e i suoi fratelli.
In quel momento, premeva di superare l’omertà di Stefano Mele. E la Procura prospettava la revisione del processo che lo aveva visto condannato, come stimolo per i suoi parenti, affinché facessero pressioni su di lui, vieppiù che, a dir loro, lo stimavano innocente.
L’affermazione di Maria Mele a riguardo della revisione, e cioè che non se ne aveva interesse, pareva dettata dal timore del Vinci, dimostrato dal suo atteggiamento, in particolare per la posizione esplicita di suo padre.

4.7 – SEGUE (dal 17 agosto in poi)

Il 17 agosto il p.m. prosegue l’indagine nei confronti dei congiunti del Mele, passando ad escutere Giovanni, suo fratello, che Maria Mele ha detto di voler consultare, prima di sottoscrivere il verbale redatto in casa sua (cfr. 28 s., loc. cit.).
Anche a lui non viene riferita la reale ragione della ripresa delle indagini (connessione del duplice omicidio del 1968 con quelli dal 1974 in poi), ma si prospetta una revisione del processo subito da Stefano.
Giovanni Mele spiega innanzitutto di essersi trovato a Mantova per lavoro al momento dei fatti, di aver stimato suo fratello incapace del delitto. Stefano era influenzabile dagli amici, più che dalla famiglia. Per quanto costantemente seguito e guidato da lui, non gli aveva mai voluto raccontare come fossero andate realmente le cose.
Non gli aveva mai parlato di minacce e neanche le sue sorelle.
Rappresentato a Giovanni Mele l’episodio riferito dal padre e dalla sorella Antonietta (visita di Giovanni Vinci, all’epoca del processo d’appello), egli afferma di averne sentito parlare vagamente e prende atto dei timori dei congiunti nei confronti dei Vinci. Afferma, tuttavia, che suo cognato Mucciarini, che andava a lavorare la notte come fornaio nei pressi di Signa, aveva timore di una qualche aggressione.
Natalino non gli raccontò nulla e lui aveva distolto i congiunti, ed in particolare la sorella Maria, dal turbarlo con domande. Tuttavia Natalino, entrato in rapporto molto stretto con la segretaria dell’avv. Ricci, potrebbe aver confidato qualcosa a costei, all’epoca del processo.
Finalmente le famiglie degli uccisi avevano mostrato, durante il processo, di credere nell’innocenza di Stefano e i Lo Bianco in particolare nella responsabilità dei Vinci.
In effetti Giovanni Mele, in questa escussione, appare assai cauto, ed il riferimento alle preoccupazioni del Mucciarini non allarma.
Per telefono egli mostra di nutrire assoluta sfiducia nell’intelligenza del fratello Stefano e di suo nipote, che segue di nascosto, per controllarlo. Natalino ne dà ragione, a causa di un arresto per un furterello, ed appare, in quel periodo, discontinuo sul lavoro (nella telefonata, già citata, con la sorella Maria, da cui si desumono anche queste cose, tra l’altro Giovanni Mele dice: “Perché guarda se uno va a sistemare i cervelli storti, non si conquista nulla, va bene…”).
Lo stesso Giovanni, dopo l’incontro con i magistrati, si propone di far incontrare padre e figlio, per combinare una versione comune intorno al 1968, senza riuscirci [nel 1984, poco dopo la sua escarcerazione, ci riproverà, offrendone il risultato al p.m. — v. più avanti], tant’è che lascia un biglietto d’appunti al fratello, che riguarda anche le dichiarazioni di Natalino.
Giovanni fa visita a suo fratello Stefano il 25 agosto 1982, e a quella data risale il biglietto (la data della visita è fatta preannunciare dalla sorella Maria, al sacerdote che dirige la casa per ex-detenuti di Ronco all’Adige, cfr.: tel. del 20.8.1982, ore 19.53, tra Giovanni e Maria; Maria avverte il sacerdote con la telefonata del 21.8.1982, ore 10,26, perché Stefano in quel periodo non è esattamente a Ronco, ma in una località nei pressi; Giovanni prende conto della fissazione dell’appuntanento, come si desume da successiva telefonata; Maria rintraccia il nipote Natalino e gli comunica il proposito dello zio Giovanni di volergli parlare e di volerlo condurre da suo padre, Stefano – 21,11 del 25.8; alle 14,37 del 28 agosto, Giovanni riesce a contattare per telefono il nipote, e lo prega di andare a casa per discorsi urgenti in relazione al fatto che suo padre gli vuol parlare e così pure il monsignore; finalmente il 29.8.1982, Maria, parlando con la sorella Teresa — ore 12,25 — dice che Giovanni è stato a parlare con Stefano, che Stefano è stato sentito dai magistrati ma non ha detto niente, che forse Stefano ha paura per loro congiunti, che Giovanni gli ha lascialo tutto scritto e che proverà a scrivergli ancora).
Il biglietto sarà sequestrato solo nel gennaio 1984. Non ha nulla a che fare con i Vinci e, come si vedrà, indirizza Stefano Mele, in conformità ad un inquinamento subito da Natalino nel 1969, contro Pietro Locci fratello dell’uccisa Barbara.
L’ultimo ad essere escusso, della famiglia di Stefano Mele, è Piero Mucciarini (26 agosto 82, 37 ss. loc. cit.), il marito di Antonietta Mele.
Innanzitutto egli rafforza il convincimento che Mele, implicato nell’assassinio della moglie e del Lo Bianco, non parli per paura.
Ricorda di essersi recato con il cognato Marcello (Chiaramonti, marito di Teresa Mele, che ora vive a Piombino) a casa del Mele la mattina in cui questi apprese dal giornale del duplice omicidio (è la visita di cui ha parlato anche Teresa). Quando Mele li vide arrivare scoppiò a piangere, dicendo che gli avrebbero dato l’ergastolo. “Io gli chiesi cosa aveva fatto e lui rispose: «non ce la facevo più» e piangeva”. Condotto in caserma il Mele, egli aveva parlato con lui, per invitarlo a dire la verità, ma Stefano rispondeva: “Mi ammazzano il figlio”. Alla domanda ‘chi?’, taceva. Il Mele non gli dava risposta neanche alla domanda: “la pistola dove l’hai comprata e dove l’hai messa?”.
In secondo luogo lascia intendere che Natalino ricorda che il padre non era solo sul luogo del delitto. Riferisce che la sera in cui era stata sentita Antonietta Mele, sua moglie (v. retro, e v. la telefonata della donna che, appena andati via i magistrati, chiama il nipote per parlargli), il ragazzo gli aveva fatto capire che, secondo lui, le zie Maria ed Antonietta sapevano. Viceversa Natalino, pur affermando di non ricordare, ‘nella confusione’ (sembra d’intendere ‘del momento del delitto’), come fossero andate le cose, aveva detto che, andando alla casa (l’accompagnamento dopo il delitto) c’era uno che non sapeva chi fosse, ma che non gli sembrava suo padre (si tratta, come si vede, di posizione difforme da quella di Maria Mele, ed anche di Teresa. Mucciarini sa bene che il bambino fece il suo nome e non lo negherà mai, cfr. capo VII).
Quanto ai Vinci, Mucciarini ricorda che dopo l’omicidio si seppe della tresca della Locci con uno di loro, e che nella famiglia Mele si sospettava di lui. Conferma anche l’intestazione del motorino di un Vinci a Stefano, e della visita ricevuta da sua moglie Antonietta, poco prima del processo d’appello, da un altro Vinci che diceva Stefano innocente e voleva fargli visita in carcere. Poco prima lui, Mucciarini, aveva saputo che qualcuno lo cercava, per parlargli, sul posto di lavoro, e dopo la visita alla moglie, aveva supposto che si trattasse del Vinci, appunto.

4.8 – PARENTI ED AMICI DI FRANCESCO VINCI

Contro il Vinci si accumulano altri elementi, quantomeno di sospetto, attraverso la minuta escussione anche dei suoi stessi congiunti.
Antonio Vinci, il nipote, e suo sospetto complice in altri affari, riferisce che tutti i parenti avevano disdegnato lo zio Francesco, che era stato arrestato per il duplice omicidio di Signa e ricordava che suo padre, Salvatore, in particolare sosteneva che suo fratello Francesco fosse il disonore della famiglia (c. 44, loc. cit.).
Salvatore Vinci conferma la relazione tra suo fratello e la Locci all’epoca dei fatti (ma spiega di averla supposta, vedendoli in giro assieme sulla motoretta), negando invece di aver ripreso la sua con la stessa donna. Conferma che Vitalia Melis (già Muscas), sua cognata, gli disse che il marito l’aveva minacciata facendo riferimento ad una pistola, che lei stessa supponeva custodita nel bagagliaio della ‘vespa’ o ‘lambretta’, pur non avendola mai vista, e che lui aveva ispezionato il
veicolo, senza trovarla.
Non ricorda invece di aver saputo dalla Locci, quando aveva ripreso la sua relazione con lei, che il fratello avrebbe minacciato per gelosia la donna di morte (queste dichiarazioni, Salvatore le aveva fatte il 24 agosto 1968, scaricando sul fratello le accuse che Mele aveva riversato su di lui. Mele le aveva subito fatte sue, scagionandolo e accusando Francesco). Il p.m gli rilegge i verbali di allora e Salvatore afferma che se quelle cose le ha allora dette, erano vere.
E avalla le sue indicazioni di allora contro il fratello, affermando che Mele, incapace di uccidere, era anche incapace di calunniare, vieppiù che aveva ritrattato le accuse contro di lui, Salvatore, chiedendogli perdono piangendo (la qual cosa è attestata a verbale del 24 agosto 1968, in vol. 1 A).
A questo punto il verbale reca: “Invitato a precisare se a suo avviso anche le accuse mosse al fratello Francesco siano calunniose o possano essere state suggerite al Mele da altri, dichiara: non sono in grado di dirlo”.
In effetti, in questo stesso processo verbale, Salvatore Vinci ha riferito di aver motivi d’astio con Francesco, perché gli ha traviato il figlio Antonio e gli manca di rispetto, pur essendogli minore d’età. Ed ha invece parlato con estrema prudenza ed affezione del fratello Giovanni, che ignora essere il visitatore di Antonietta Mele, ed ignora persino essere stato il primo dei fratelli ad aver relazione con la Locci.
Giovanni Vinci, invece non fa mistero della sua antica relazione con la Locci (c. 50 s., ibidem) e afferma: “Anche Salvatore aveva avuto una relazione con questa donna… io credo. La relazione di Francesco con la donna iniziò in epoca successiva… i rapporti della Locci Barbara con Francesco non erano riservati, ma palesi e chiari…”. Pensa che neanche la Locci sapesse a chi era figlio Natalino e che intorno a lei vi potessero essere anche altri uomini e addirittura, gli avrebbe confidato lei stessa, anche il suocero le aveva dato noia.
Giovanni ricorda di aver appreso dai Carabinieri che cercavano suo fratello Francesco, del duplice omicidio (abitavano, all’epoca vicini, a Calcinaia di L. a Signa). Appena prima del duplice omicidio (lo stesso giorno 21 agosto 1968, si appurerà dai registri della ditta Casamento nel 1984), essendo lui tornato dalle ferie, il Mele spiegandogli perché sul lavoro non c’erano alcuni compagni e aveva aggiunto: “e quante cose devono succedere”. Ricorda che, durante il processo, la madre del Lo Bianco aveva accusato pubblicamente, quale “assassino” suo fratello Francesco.
Spiega che si era recato da Antonietta Mele, per vendicarsi di Francesco che, insieme ad altri parenti, lo aveva accusato di avere avuto rapporti intimi con la sorella minore Lucia, cercando il modo di contattare Stefano detenuto, al fine di smuoverlo ed ottenere elementi contro lo stesso Francesco.
Elementi più incisivi, che coinvolgono lo stesso Giovanni, e fanno leggere in diversa luce la sua cauta deposizione, porge al p.m. Silvano Vargiu. Suo fratello Franco è affine ai Vinci, e lui stesso figlioccio di Salvatore (c. 52 s. ibidem). All’epoca dei fatti si accompagnava con quest’ultimo, ma anche con Francesco Vinci.
Il Vargiu, dopo esitazioni e contestazioni, riferisce un episodio successivo al delitto di Signa. Vinci Giovanni gli aveva chiesto di procurargli una pistola, dopo che Lucia Vinci, ospite in casa sua, aveva ingerito parecchie compresse, tentando il suicidio e facendo scoprire la relazione con il fratello maggiore, per la qual cosa vi sarebbe stato un processo.
Il Vargiu, preoccupato, ne aveva parlato con il fratello affine dei Vinci (Franco) e con i carabinieri di Lastra. Dopo due o tre mesi aveva rivisto Giovanni, che gli mostrava, nel cruscotto dell’automobile, una pistola automatica, asserendo che gliel’aveva data suo fratello Francesco.
È da aggiungere che, in un altro processo del 1971, a carico di Giovanni Vinci, su denuncia di suo fratello Francesco, Giovanni aveva asserito che il Vargiu (già compagno di avventure, nel campo dei delitti contro il patrimonio, di Francesco Vinci) gli aveva detto esser suo fratello l’assassino della Locci e del Lo Bianco. Vargiu non era mai stato sentito sul punto, ed ora al p.m. precisa che non è vero quanto dichiarato da Giovanni nel ’71 [sulle due vicende, incesto di Giovanni e Lucia Vinci, e minacce di Giovanni a Francesco, che s’intrecciano, si farà luce nell’autunno 1983, alla ripresa delle verifiche dopo il duplice omicidio di Giogoli — v. il prossimo capo. Gli atti dei due processi in questione sono allegati in vol. l B – 5].
Il fatto è che è passata molta acqua sotto i ponti, e Vargiu appare reticente, anche se dichiara, che essendo stato in carcere con Stefano Mele in due distinti periodi nel 1969-70, questi affermava d’esser lui innocente e Francesco Vinci colpevole. Aggiungeva che gli avevano minacciato il figlio.

4.9 – ESCUSSIONE DI MELE DEL 6 SETTEMBRE 82

Su questa scorta, il 6 settembre 1982, il p.m. escute Stefano Mele a Firenze (c. 55 ss.). Ma egli non si sposta dalla posizione già assunta davanti al g.i. il 27 luglio precedente, in Veneto. Fornisce il suo alibi, accusa indirettamente Francesco Vinci, attraverso il racconto del figlio a lui, la notte dopo il delitto, e spiega perché non avrebbe ucciso anche Natalino. In un primo momento afferma: “se era stato ammazzato il bambino io ero ancora dentro. Ci sarebbe stata un’aggravante”. Allora, il p.m. gli chiede che attinenza la cosa abbia con il Vinci e Mele corregge il tiro: risparmiandolo, l’assassino faceva cadere i sospetti su suo padre.
Non vide mai la pistola del Vinci. Narra che però, quando Francesco fu arrestato, il maresciallo di Lastra a Signa consegnò a lui la sua lambretta. Andando a riprenderla, il Vinci gli diceva che nel cassettino del veicolo custodiva la pistola.
Prima di quest’ultimo riferimento, che è decisamente di scarso peso, nel contesto, Mele fa un’altra dichiarazione, per chiarire le circostanze relative alle minacce subite direttamente. Trovandosi detenuto con lui, nello stesso carcere, Francesco gli aveva detto: “Sono convinto che gli omicidi non li hai fatti tu, però se dici qualche cosa su di me, che sono stato io, ti rompo l’altra gamba (la prima gliel’avrebbe rotta con un incidente sul motorino, prima del duplice omicidio) e ti ammazzo”.
Letteralmente la frase suppone che Francesco non sa se Mele sia l’omicida e, per converso, che lui stesso non professa di esserlo. Tal cosa sarebbe singolare, se, come ha riferito al g.i. nel mese di luglio, ed in precedenza, nel 1968 al p.m., ha già subito la sua minaccia di morte attraverso il figlio.
La frase, come riportata da Mele, in aggiunta alla prima spiegazione del perché non sarebbe stato ucciso anche il bambino, avvalora invece il convincimento che Mele è uno degli assassini.
Su questa scorta, l’escussione del Mele, sospesa al mattino, riprende nel pomeriggio dello stesso 6 settembre (58 ss. ibidem).
Si fa leva sul fatto che lui aveva detto a più persone (v. Mucciarini e Vargiu, retro) di tacere la verità per paura che gli ammazzassero il figlio, e Mele lo ammette. Se ne argomenta che se la sua paura è reale, dati gli altri omicidi (intanto presumibilmente consumati dallo stesso assassino), sarebbe necessario per lui dire la verità (è, in effetti, l’argomento già adoperato dal g.i. a luglio, e sarà adoperato ancora negli anni successivi).
Subito dopo il verbale reca: “A questo punto il Mele dice che egli pensa di poter essere nuovamente processato e condannato per gli omicidi Locci-Lo Bianco”. Tal cosa, se gl’inquirenti avessero ancora dubbio, significa ineluttabilmente che, per poter dire una verità utile allo sviluppo delle
indagini, Mele deve ammettere le sue stesse responsabilità, e che egli è proprio certo di aver subito una pena troppo lieve, per quanto commesso.
Il p.m. lo rassicura, spiegandogli il tenore dell’art. 90 CPP, anzi lo invita a leggerlo, ma egli non può perché senza occhiali. Allora gli rilascia, a sua richiesta, una dichiarazione autografa (di cui è fotocopia allegata al verbale, c. 59, ibid.), che non sarà nuovamente processato.
Intanto Mele lascia capire di voler prima parlare con suo figlio, che non vede da due anni e dice che dopo dirà il vero.
Autorizza intanto il p.m. ad ottenere, dai suoi difensori nel processo per il delitto duplice del 1968, il loro fascicolo.
Si provvede alla ricerca del ragazzo, e l’istruttoria viene rinviata al giorno successivo per l’impossibilità di reperirlo tempestivamente.
L’incontro che egli vuole con il figlio può forse dipendere dal bisogno di avvertirlo, perché dal tacere la verità per la sua sicurezza è sul punto di passare al dirla per la stessa ragione, alla qual cosa potrebbero averlo convinto i magistrati (v. sopra).
Ma più probabilmente gli serve a concordare con il figlio una versione unitaria dei fatti. Non si può trascurare che intanto, e questo allora gl’inquirenti non potevano saperlo, si è intromesso, tra Stefano e Natalino, Giovanni Mele ad indicarne una (quella contro Pietrino Locci — v. cap. 5), senza tuttavia riuscire a condurre Natalino dal padre. Perciò Stefano non sa che cosa il figlio ricordi sia della notte del delitto sia di quanto si sono detti la sera successiva, né che cosa potrebbe ora dire con il rischio di smentirlo, come è già accaduto nel 1968, a cagione dei parenti, secondo stima dello stesso Mele (v. r. 4.4).

4.10 – LE DICHIARAZIONI DEL 7 SETTEMBRE 1982

Il 7 settembre 1982 Mele, nella caserma di Borgognissanti (Nucleo Operativo CC), viene lasciato solo con il figlio.
Subito dopo Natalino narra (c. 62, ibidem) ciò che il padre gli ha riferito. La sera del delitto lui era andato a cinema con sua madre e Lo Bianco. Uscitine, un uomo che li seguiva a distanza, aveva poi ucciso gli adulti, presente suo padre. E aggiunge: “… quell’uomo mi ha accompagnato poi a quella casa. Per la verità non ricordo se [mio padre] mi ha detto ‘mi ha… o mi hanno [cioè anche suo padre] accompagnato’…”. L’uomo, a dire di Stefano Mele, è Francesco Vinci.
Natalino aggiunge che gli ha riferito che con la stessa arma si commettono altri delitti, ma nulla intorno alla pistola. Conferma che ha ammesso con lui di essere stato presente, ma non ricorda se gli abbia fatto cenno della presenza di altre persone oltre al Vinci.
Conclude che con suo padre, che non vedeva da venti mesi, ha parlato anche di altri fatti riguardanti la loro vita.
Escusso subito dopo.(c. 61, ibid. — il verbale segna h. 19, e quello di Natalino h. 18,45), Meleconferma quanto ha detto al figlio. Con Francesco Vinci, che ha sparato, era anche lui, e soggiunge: “Poi lui ha accompagnato il bambino a questa fattoria ed io sono andato a casa”. Spiega che si sono recati sul luogo del duplice omicidio con la lambretta (della quale poi indicherà il colore celeste) di Vinci, dopo aver seguito dal cinema (dove Vinci era entrato), le vittime. Nega di aver a sua volta sparato, pur avendo avuto dimestichezza con le armi da militare, ma descrive la pistola con canna lunga, tipo tirassegno e silenziatore, perché i colpi non fecero rumore. Nega di aver toccato i cadaveri. Risponde che è sicurissimo che oltre a lui e Francesco non ci fosse anche il fratello, Salvatore Vinci.
Quanto agli antecedenti del fatto, riferisce: “Una settimana prima il Vinci aveva detto che voleva fare questa cosa: io ero stanco a vedere certe persone in casa. L’iniziativa fu del Vinci che voleva abbandonare la moglie ed i figli per la Locci, ed era più geloso di me… Eravamo d’accordo perché il bambino non fosse ammazzato”. L’occasione si presentava una sera in cui la Locci era uscita con il Lo Bianco e Natalino. Pochi minuti dopo, il Vinci era comparso a casa sua per seguirli e consumare il delitto.
Quanto a minacce subite, non parla affatto di quelle eventualmente dirette dal correo al figlio o a quest’ultimo riferite: “Nel carcere delle Murate… Vinci… mi disse: «so che non sei stato te ad ammazzare, ma se dici qualcosa ti spezzo le gambe e poi ti ammazzo»”. E si tratta di una frase praticamente corrispondente a quella del giorno prima.

4.11 – ANALISI DELLE DICHIARAZIONI

Letteralmente, la minaccia del Vinci, anche in questa versione appena modificata, rispetto a quella del giorno precedente, appare come di persona estranea al delitto, che misura tuttavia le ragioni di chi vuole incolparlo a torto. Essa, già in contrasto, come si è osservato, con il primitivo racconto di Mele, che si professava innocente, lo è maggiormente con la versione in cui il narrante si afferma coinvolto nel delitto.
L’averla, il Mele, riferita negli stessi termini anche ora che si professa correo, dimostra il suo bisogno di difendersi, persino attraverso le parole dell’assunto autore materiale del reato, e dunque a costo della sua credibilità di accusatore.
Per comprendere appieno l’intrinseca contraddittorietà della posizione di Mele contro Francesco Vinci, è necessario riflettere che egli lo fa portatore di un interesse in assoluto conflitto con il suo.
Sotto questo aspetto, la sua versione non può essere riscontrata conforme a massima di esperienza del comportamento umano. Se Vinci è la causa principale della sua stanchezza per la moglie, appare improbabile che Mele trovi in lui, violento, deciso, ed autosufficiente, lo strumento per ucciderla, e un correo talmente duttile da essere indotto a credere di potersi fidare della sua omertà. Assai più logicamente, nel 1968, principiando ad ammettere la sua responsabilità, Mele ha affermato di aver trovato nel complice (non F. Vinci, allora, ma Salvatore) un ausilio per rimuovere le sue remore ad uccidere, fors’anche portatore di un interesse parallelo, ma non uno che, credendo di prevaricarlo, ne sia stato strumentalizzato.
L’analisi dei moventi individuali, secondo il racconto di Mele, rafforza il convincimento in questa direzione. Vinci sarebbe stato disposto ad abbandonare la propria famiglia per andare a vivere con la donna che si è proposto di uccidere. Bisogna supporre che abbia rimosso quest’intenzione, per determinarsi a distruggere l’oggetto del suo desiderio, ed ancor più che gli fosse indifferente uccidere anche un’altra persona, o che fosse irrefrenabilmente animoso anche contro l’ultimo rivale.
Per associarsi il Mele, al quale avrebbe voluto portar via la moglie, nel proposito di ucciderla, sarebbe necessario che costui gli offrisse un apporto insostituibile [In uno degli ultimi interrogatori subiti, Vinci, con maggior coerenza, si difenderà domandando, retoricamente, se proprio avesse voluto uccidere, che interesse potesse avere a portarsi dietro l’inetto marito della Locci per poi rischiarne anche il tradimento]. Ma Mele non lo dice, anzi sostiene il contrario.
Un accordo tanto anomalo avrebbe dovuto, inoltre, comportare una ragionevole fiducia di Vinci nell’omertà di Mele, marito all’apparenza compiacente. Questi, a suo dire, avrebbe taciuto per paura, ma è significativo, che già prima di confessare aveva indirizzato le indagini verso Francesco Vinci (v. il primo verbale di p.g., retro, nel primo capitolo) e che, dopo aver chiamato in correità suo fratello Salvatore, l’aveva accusato senza remore, come dimostrano gli atti del ’68.
E si è già visto che non è vero che poi abbia temporaneamente abbandonato le accuse contro Francesco Vinci, passando al Cutrona, a cagione delle sue minacce dirette, e cioè di quelle surriferite (v. retro, n. 4.3, e nel primo capitolo).
A questa stregua è da escludere vuoi che l’anomalia dell’accordo fosse compatibile con una sicura omertà, dopo il delitto, vuoi che questa sia stata rafforzata da minacce, dirette o indirette (attraverso il figlio), del Vinci.
È altresì assolutamente da escludere che abbia mai nutrito timori per la vita o l’incolumità del figlio.
Si è rilevato che è stato lui ad indirizzare Natalino contro Francesco Vinci nel 1968, attendendosene un conforto, e non il figlio a riferirgli di minacce del suo accompagnatore la notte del delitto (v. nel capo II la ricostruzione), checché abbia detto a parenti (Mucciarini) o conoscenti (Vargiu) nel 1968.
Né pare che ora, la rappresentazione fattagli dai magistrati, intorno al pericolo significato per il figlio, dalla commissione degli ulteriori delitti, lo abbia minimamente preoccupato. Non si vede difatti quale maggior timore delle presunte minacce nei confronti del figlio da parte del Vinci, che accusava proprio per bocca del ragazzo, possa nutrire, passando ad affermare di aver scienza diretta della sua responsabilità.
L’unica vera paura professa e credibile di Stefano Mele, vistocché, dall’istruttoria del ’68 in poi ha sempre accusato Francesco Vinci, concerne, anche dopo aver legalmente espiato, le conseguenze penali del duplice omicidio.
E questo convincimento esce rafforzato dal fatto che il giorno precedente si è lasciato sfuggire che se fosse stato ammazzato il figlio, egli sarebbe ancora ad espiare la pena. L’accordo con il correo per risparmiare Natalino, che ora riporta, non può certo essere stato voluto da Vinci per suscitare sospetto contro il suo complice, padre del piccolo testimone. Questa è all’evidenza una supposizione maliziosa del giorno prima, sullo sfondo dell’accusa arrecata al Vinci, senza il prezzo dell’ammissione delle proprie responsabilità, e per evitarne il sospetto ingenerato dall’affermazione sfuggitagli.
Se Mele ha realmente preso parte al delitto, come lui stesso sostiene, e come la sua pertinacia nelle accuse al Vinci, la ragione (attestazione di ulteriore impunibilità da parte dei magistrati) e le modalità della sua evoluzione (passando per l’ammissione, con il figlio adulto, di essere uno degli assassini della madre, lui bambino e presente) dimostrano, l’accordo per risparmiare Natalino, ed il suo successivo accompagnamento (al chiaro fine di difesa dell’alibi precostituito del padre, v. cap. 1) ha una condizione insuperabile: un rapporto di fiducia tra i correi, che appare del tutto improbabile tra Mele e Francesco Vinci.
In sintesi, l’accusa in se stessa non regge, anche ammettendo Mele le sue responsabilità. Codesta esegesi non era tuttavia trasparente sul momento, ed una congerie di elementi convincevano i magistrati che, quella appena riferita da Mele, fosse approssimativamente la verità.
Il quadro che si era delineato a quel momento, consentiva di attribuire a Francesco Vinci più che sufficiente capacità e risolutezza per uccidere, persino coinvolgendo la debole personalità del Mele, esattamente come avevano creduto i difensori di quest’ultimo all’epoca del processo (lo si desume chiaramente dal fascicolo allegato agli atti). Quanto al movente, era credibile, anche per le mezze parole dei parenti di Stefano e suoi, oltrecché per il quadro emergente dal processo, che effettivamente Vinci fosse stato amante geloso, fino alle estreme conseguenze, della donna uccisa nel 1968.

CAPO V

— FRANCESCO VINCI —

5.1 – VERIFICHE DELL’ACCUSA DI MELE

Le dichiarazioni di Mele del 7 settembre 1982, e quelle rese precedentemente da lui stesso e dagli altri testimoni acquisiti, vengono riscontrate dal p.m.. Vinci, che è già stato interrogato, viene sottoposto a confronto con il Mele, che mantiene le sue accuse di fronte a lui (c. 16, vol. 5/C — int. imp.). Anzi Mele le rincara, aggiungendo particolari sui rapporti decorsi e la relazione del correo-rivale con sua moglie, ed insiste sulla lambretta. Vinci manifesta disprezzo per l’accusatore, non nega l’evidenza dei suoi trascorsi con la Locci, ma ritorna al suo alibi del 1968.
Il p.m. verifica.
Innanzitutto il vicino di casa di Mele all’epoca dei fatti, Giovanni Di Pierro, conferma di aver notato la Locci frequentare il Vinci e poi il Lo Bianco. Conferma altresì il ricovero ospedaliero di Mele [fu ricoverato per lesioni ad una gamba, che, stando a lui — v. retro — gli sarebbero state cagionate dal Vinci con un incidente di motorino]. Rammenta che la moglie del Vinci andò a cercare il marito a casa del Mele e, presente quest’ultimo, litigò clamorosamente con lui [verosimilmente si riferisce all’occasione in cui poi Vitalia Vinci denunciò il marito, tra l’altro, per concubinato con la Locci — cfr. fasc. all. in 5/D]. Ricorda altresì un intervento dei carabinieri, ma non ha nulla da dire circa la sera del fatto (c. 60, fasc. testi, vol. 5/C).
Circa l’alibi di Vinci nel ’68, viene escusso un venditore di generi vari, che all’epoca dei fatti abitava a Calcinaia. Da costui, tale Brunetto Andreini, Vinci, a suo dire, la sera del fatto ritiratosi presto a casa, avrebbe inviato Vitalia, la moglie, per acquistare lamette per radersi immediatamente. Il giorno dopo, un amico sarebbe passato presto a prenderlo, per condurlo al lavoro con un’autovettura [cfr. int. vol. 5c e vol. 1A, alla P.G. ed al P.M. — ma la mattina successiva al delitto, Vinci veniva trovato ancora a casa dai carabinieri].
Senonché Brunetto afferma di aver venduto solo quale ambulante, ed esclude che comunque qualcuno si sia recato a casa sua, di sera, ad acquistar lamette. Esclude persino di aver memoria del duplice omicidio, e di aver conosciuto un vicino di nome Vinci Francesco (c. 65. loc. cit.).
Attraverso altri testimoni si cerca anche di venire a capo dei veicoli posseduti dal Vinci all’epoca dei fatti, sino a giungere al meccanico Calogero Gagliani (c. 67). Costui ricorda che nel 1968, tornando dalle ferie, aveva trovato un invito a presentarsi dai carabinieri. E fu verificato che F.
Vinci, prima che chiudesse l’officina di riparazioni, gli aveva lasciato la lambretta da mettere in sesto, che al momento era a pezzi nel locale, nel quale era rimasta sicuramente per tutto il mese d’agosto.
In effetti la circostanza era pacifica durante l’istruttoria ed il giudizio del ’68. Mele, alle prime accuse contro F. Vinci, il 24 agosto di quell’anno al p.m., parlò di motorino. Doveva aver presente che l’altro non fruisse della lambretta in quel periodo, o non sapeva nulla più di tale veicolo, mentre ricordava — v. r. 4.6 — di essere trasportato da lui al lavoro sul motorino che gli era stato intestato da Salvatore.
Aveva parlato di lambretta, passando ad accusare il Cutrona e, tornando ad accusare F. Vinci, la lambretta era rimasta. A quest’ultima aveva fatto riferimento Salvatore suo fratello, indicandola come luogo di custodia della pistola, secondo Vitalia, la cognata. In giudizio era stato condotto un motorino usato da Vinci all’epoca del fatto (diverso da quello di cui si è discorso), e che era stato trovato piuttosto malandato
dai Carabinieri già durante l’istruttoria, per sperimentare, e l’esperimento ebbe esito negativo, se nel piccolo portabagagli del veicolo potesse essere custodita una pistola.
Il p.m. riceve dall’avv. Castelfranco conferma di talune emergenze, già negate dal suo antico cliente Conticelli [questi tuttavia — c. 63 — ha ricordato, al p.m., che, durante la detenzione a Porto Azzurro, Stefano Mele si diceva innocente, accusando Vinci del delitto]:
Castelfranco dichiara: “Dopo la sentenza di primo grado [nei confronti di Mele] ebbi occasione di parlare… alle Murate… con un mio cliente, tale Conticelli Claudio… della zona di Signa… [che] mi riferì di aver visto più volte il Francesco Vinci allenarsi al tiro con la pistola in aperta campagna… ne parlai con il collega Ricci… che richiese una rinnovazione parziale del dibattimento, istanza che peraltro non venne accolta…”.
L’avvocato ricorda anche di aver assistito Giovanni Vinci, il 16 marzo ’71 (l’atto gli viene riletto dal p.m.) avanti al m.llo Funari, di L. a Signa, per un interrogatorio che egli subiva per minacce ed ingiurie in danno di suo fratello Francesco. Funari stimava che Giovanni fosse in possesso di elementi a carico del fratello e Castelfranco si era perciò prestato di buon grado.
Giovanni aveva scritto in un biglietto, apposto sul parabrezza della vettura di Francesco, tra l’altro, che sapeva cose intorno all’omicidio della Locci. E sosteneva di aver appreso da un amico di lui, il già visto
Silvano Vargiu, che Francesco fosse l’autore del delitto. Tali cose non avevano avuto seguito nel processo pretorile, il cui fascicolo è al momento in cui viene escusso l’avv. Castelfranco allegato — n. 25460/71 R. G. — Pret. Fi. — agli atti, cfr.: vol. 1A – 5 — in quel momento, tuttavia, Giovanni Vinci e Vargiu sono stati già escussi — v. capo prec..
Il p.m., che ha acquisito il fascicolo dei difensori, richiede a Castelfranco quanto ricordi in merito alle posizioni difensive che, come si è già detto, erano nel senso che Mele fosse stato coinvolto nel delitto da F. Vinci, che lo aveva portato seco. E Castelfranco le ribadisce.
Il p.m. fa ulteriori verifiche a carico di Vinci, anche relativamente all’alibi dell’imputato e ai suoi movimenti dopo il delitto duplice di Montespertoli.
Viene in particolare riescusso il suo futuro genero, Antonio Giovannetti, già sentito dopo Vitalia Vinci nel luglio precedente (rispett. c. 8 e 12 vol. cit.). Il Giovannetti conferma (c. 73) quanto ha riferito. La sera del 19 giugno ’82 (quella del delitto) egli è rimasto a casa del Vinci, a Montelupo F.no, sino alle 23,30-24, aiutandolo a riparare un tetto e trattenendosi poi a cena, e che ciò è accaduto anche il giorno successivo, domenica 20 (dopo il quale Vinci sarebbe sparito, intanto avutasi notizia del duplice omicidio consumata nella zona e della temporanea sopravvivenza del povero Mainardi). In entrambe le occasioni egli ha lasciato il Vinci in casa sua.
Giovannetti vive ad Ortimino di Montespertoli, in una casa dove nel maggio-giugno precedente il futuro suocero si è recato a pavimentare. La testimonianza relativa agli orari sembra esser favorevole al Vinci, ma la distanza tra Montelupo e Baccaiano di Montespertoli è relativamente breve. Desta sospetto, inoltre, la frequentazione del territorio del comune da parte del Vinci.
Le indagini del p.m. scavano anche nella vita privata dell’imputato. Così Alessandrina Rescinito (c. 70) testimonia di singolari rapporti intimi con F. Vinci e sua moglie.

5.2 – ISTRUZIONE FORMALE

La prima escussione di Mele, del 27 luglio 1982 da parte del g.i., si configura come sviluppo delle indagini già in corso avanti a lui (istruttoria avente da ultimo per oggetto la posizione Spalletti — testi vol. 3, fasc. C). È un antefatto dell’istruttoria Vinci, condotta dal p.m. e poi formalizzata nell’ultima decade di settembre 1982.
Gli atti del p.m. sono riuniti alla pendenza e l’istruttoria formale riprende il 22 di quel mese, con l’escussione di Vitalia Melis (già Muscas), nei Vinci, denunciante e p.o. di maltrattamenti. Costei aveva attribuito alle percosse subite dal marito, in verbale del 28/7/82 al p.m. (cit.), una menomazione permanente dell’udito nella misura del 70%. Tal cosa aveva fatto conseguire l’emissione dell’ordine di cattura per maltrattamenti, per il quale Vinci era detenuto dal 15 agosto 1982.
Vitalia sfoga anche con il g.i. la sua ira di moglie gelosa, ma non appare lucida nei suoi ricordi e neanche obiettiva. Narra prevalentemente dei suoi travagliati rapporti coniugali (c. 1 ss. vol. 5B, fasc. 3). Ma è assai difficile stabilire una abitualità delle offese da parte del marito. In particolare è rancorosa con riferimento a tradimenti subiti. Vinci, con riferimento al caso della Locci, del quale è gran discorso della moglie, fu condannato.
Prima di decidere il mezzo di contestazione all’imputato, per il delitto d’omicidio plurimo del 1982, il g.i. procede a verifica ed approfondimento delle indagini già svolte dal p.m. delle quali si è dato ampio dettaglio.
Viene così escusso il m.llo Funari, comandante della stazione di Lastra a Signa al tempo dei fatti, propenso a stimarne colpevole il Vinci e per la sua manifesta capacita criminale, e per il livello (processo per concubinato nel novembre 1967) a cui aveva condotto, dopo pubblico litigio, avanti a casa Mele, la relazione con la Locci, circa la quale era dovuto intervenire più volte, e per altre indagini (v. la vicenda dei processi a carico di Giovanni Vinci, che fa da corrispondente a quanto riferito da Antonietta Mele). Non è irrilevante che in quell’epoca Vinci appaia dedito anche al furto di motoveicoli. Il g.i. su questa scorta dispone accertamenti, che daranno un esito ritenuto significativo (furti di lambrette sino all’agosto ’68).
Anche le escussioni della vedova del Lo Bianco, Rosalia Barranca (c. 12 ss.), di Rosa Lo Bianco e degli altri congiunti dell’ucciso (alcuni saranno escussi più tardi anche in Sicilia — v. per tutti fasc. cit.), rafforzano gl’indizi a carico di Vinci. In particolare emerge che tra Francesco e Antonio Lo Bianco vi è stata una sfida o scommessa, per cui il secondo affermava che sarebbe uscito con la Locci e l’avrebbe posseduta, mentre il primo non lo avrebbe ritenuto capace. In effetti lo stesso Vinci finirà per ammettere che qualcosa del genere è accaduto tra lui ed il Lo Bianco, pubblicamente (nel bar della Posta di L. a Signa), addirittura la domenica prima del fatto (secondo l’interr. aut. 83).
Appare rilevante il cambio di rotta del teste Conticelli che, dopo essere stato posto a confronto con il suo antico difensore, avv. Castelfranco, afferma di aver visto effettivamente il Vinci, all’epoca dei fatti, sparare con una pistola in località Cupoli di Lastra a Signa (c. 12). Il g.i. dispone un’ispezione e vengono rinvenuti 4 bossoli cal. 22 e frammenti di proiettile stesso calibro (fasc. 6, vol. cit.). Più tardi si appurerà trattarsi di resti di cartucce per carabina.
Indipendentemente, si accerterà, attraverso l’acquisizione di fascicoli relativi a procedimento contro <Vetere A. – Vinci Francesco + 3>, che Vinci deteneva ancora nei primi anni 70 una pistola cal. 22 a rotazione (perciò diversa da quella, automatica, dei duplici omicidi — cfr. 5/D – 4).

5.3 – MANDATO DI CATTURA

Il m. di cattura del 6 novembre 1982, argomenta in 7 punti: 1) il racconto di Mele, pur condannato quale unico autore, di aver agito con un complice è credibile, come dimostra l’uso della stessa arma per i duplici omicidi commessi dal ’74, anno in cui Mele era sicuramente detenuto, all’82; 2) le accuse di Mele contro Vinci sono intrinsecamente riscontrate dal fatto che le ha reiterate dopo l’espiazione, quando non aveva più interesse a farlo, anche in confronto, e che il dubbio relativo alla lambretta, quale veicolo adoperato dal Vinci, essendo la sua in riparazione all’epoca dei fatti, sarebbe superato dall’accertamento che in data 6 agosto 1968 [15 giorni prima del delitto] era stata sottratta a Zanelli Raffaello una lambretta in tutto simile a quella del Vinci; 3) l’alibi del Vinci appare fallito, dopo l’acquisizione dei testi da parte del p.m. [v. sopra il Brunetto e la stessa Vitalia Vinci, che contraddice, ed in parte ciò era già evidente nel processo del 68, per alcuni aspetti la versione del marito]; 4) le generiche affermazioni che Vinci possedesse una pistola avrebbero trovato conferma nella dichiarazione di chi l’ha visto esercitarsi con essa [Conticelli]; 5) Vitalia, secondo i Lo Bianco, avrebbe chiesto loro perdono, per conto del marito, ai funerali di Antonio, il loro congiunto ucciso; 6) dal comportamento del Vinci, all’atto del suo fermo come sospetto autore degli omicidi, come riferito dall’ufficiale di P.G., che si occupava delle indagini [e vengono in luce i sotterfugi e le cautele di Vinci prima di avvicinarsi alla casa del Calamosca che collaborava per il suo arresto, la preoccupazione di procurarsi un passaporto, etc.]; 7) Vinci era insanabilmente geloso della Locci al punto di minacciare lei stessa ed il Lo Bianco in epoca immediatamente antecedente l’omicidio.
Vinci naturalmente contesta le circostanze che stima valutate a torto indizianti. Non nega la gelosia.
Spiega persino l’episodio della cosiddetta scommessa con il Lo Bianco. Ma nega di aver mai posseduto armi (e nella specie è smentito da una sentenza passata in giudicato, di cui si è detto, che pure concerne un’arma diversa). Conferma l’alibi e sostiene che è impossibile vuoi esser precisi in sede difensiva, che verificare credibilmente un alibi risalente ad oltre quattordici anni prima. Nega altresì di essersi procurato una lambretta simile alla sua per commettere l’omicidio (cfr.: gli interrogatori, 5B cit., 2).
I difensori presentano istanza di escarcerazione rigettata anche in appello.
Il g.i. prosegue le verifiche minuziosissimamente, senza tralasciare piste diverse (per esempio, quella relativa alla possibilità che siano stati i cognati del Lo Bianco a vendicare l’onore della sorella, ripresa in dettaglio anche nel 1987 — vol. 1A, fasc. agg. — o quella relativa a Trentacosti Ciro, ferito a colpi di pistola cal. 22, a Lastra a Signa, tempo dopo i fatti, legato al Lo Bianco e non ignoto al Vinci) e prosegue la ricerca generica della pistola non rinvenuta, e all’involucro di un medicinale altrimenti trovato sul luogo dell’omicidio di Montespertoli, in località Baccaiano (‘Norzetam’).
Approfondisce l’escussione dei testi già uditi dal p.m., tra i quali i congiunti del Mele. Scava in Montelupo circa i possibili rapporti tra Vinci ed il concittadino Spalletti, maggiormente che intanto il p.m. aveva verificato la posizione di un sanitario dello stesso paese, ginecologo, e medico di famiglia Vinci, il dr. Bagnoli (è richiesta archiviazione, alla quale si provvede separatamente).
Viene altresì disposta perizia medico-legale nei confronti di Melis Vitalia. Le lesioni denunciate sussistono, ma non possono essere rapportate a maltrattamenti piuttosto che a cause naturali (vol. 5/G – 8).
Il g.i. dispone anche perizia psichiatrica in persona del Vinci. I difensori contestano i quesiti, a loro avviso in contrasto con l’art. 314 co. II CPP che fa divieto di valutare le tendenze dell’imputato indipendentemente da malattia mentale.
L’impostazione dei quesiti, ed altri correlativi accertamenti, apparentemente non connessi al Vinci, lasciano intendere che, alla luce degli elementi acquisiti e della valutazione della sua personalità a stregua degli atti, si nutrono perplessità che Vinci, stimato quale probabile detentore della pistola, sia autore solitario degli omicidi a sfondo maniacale (dal ’74 in poi).
In questa direzione spingono non solo le apparenti coincidenze ravvisate circa gl’inquisiti di Montelupo F.no, di cui si è detto, ma la recisa affermazione che l’autore dei crimini sia affetto da tare sessuali, nella
perizia sadico-legale relativa al primo duplice omicidio del 1981 a Scandicci (cfr.: vol.3). Vinci, pur avendo abitudini sessuali disinibite e abilità, come chiunque abbia origini contadine o pastorali, nell’uso del coltello, non mostra ‘icto oculi’ tendenze o precedenti maniacali. Nel 1968 Mele non gli vide il coltello tra le mani.
Le perizie medico-legali già svolte avvalorano l’ipotesi che l’arma da punta e taglio dell’81 (Scandicci – Calenzano) sia poi, piuttosto che un coltello, uno strumento particolare, monoaffilato, possibilmente un bisturi, e sia adoperato da persona particolarmente esperta, e che i delitti, per la ricostruzione dei movimenti di chi li ha connessi, sarebbero consumati da più persone in concorso.
Maggior ambiguità postula il ritrovamento dell’involucro di ‘Norzetam’ (in luogo prossimo, ma non sulla scena del delitto, ed a distanza di tempo), medicinale indicato per persone che abbiano subito lesioni cerebrali. Vinci non risulta esserne affetto (lo è invece suo fratello Giovanni — cartella a fasc. 10. vol. 5/6), ma da ragazzo fu gravemente leso.
Il g.i. dispone accertamenti intorno alle persone ricoverate in luoghi di cura, e sulle prescrizioni del farmaco nel territorio in epoca prossima al delitto e perizia sul Norzetam. Ma queste indagini generiche non conducono a risultato.
Alcune saranno proseguite per anni, anche dopo il cambiamento del g.i., e ripetute, o ampliate dal p.m. e ancora mirate dal g.i., anche sotto profili peritali consentiti da nuove tecnologie (per esempio ricerca a livello molecolare di sostanze depositate, sui bossoli delle cartucce). Non se ne conoscono ancora gli esiti.
Talune prospettive potranno apparire particolarmente rilevanti per fondare ricerche specifiche ulteriori.

5.4 – NUOVI ACCERTAMENTI PERITALI

Nel giugno 1983 un nuovo giudice istruttore (che stende questo provvedimento) revoca l’incarico di perizia psichiatrica, per ritardo ingiustificato dei periti, e lo riaffida ad altri periti, con quesiti ordinari. Vinci risulterà sano di mente (vol. 5/G – 6). Le disfunzioni caratteriali appalesate dall’esame non hanno rilevanza patologica, e non appaiono particolarmente significative sotto il profilo del tipo d’autore, per quanto, ovviamente nulla sia stato richiesto, in merito, ai periti.
Si pone il tema dell’unicità dell’autore degli omicidi seriali dal 1974 in poi, sotto il profilo medicolegale e, dal 1968, sotto quello balistico, non apparendo sorrette da dati obiettivi le valutazioni svolte nelle perizie conseguenti alle autopsie delle vittime. Il primo accertamento, affidato a perito di Bologna, non sarà mai condotto a termine, perché sospeso per necessità istruttorie insorte a cagione del duplice delitto di Giogoli (vittime Meyer – Rush) del 9 settembre 1983, che porrà in primo piano gli accertamenti balistici. Il quesito-chiave riguarda le lesioni da arma da taglio, prodotte ‘in limine vitae’ delle vittime già lese da arma da fuoco. Si domanda se è possibile che una sola persona abbia fatto in tempo a cagionare le une e le altre. Tal cosa presuppone un’analisi minuta degli atti, che invece saranno trasmessi ai periti balistici (in vol. 6/A).
La perizia balistica compiuta conferma l’unicità dell’arma dal 1968 in poi. I periti tracciano anche un profilo di evoluzione dell’attitudine al tiro del probabile omicida. Non escludono tuttavia che l’arma possa esser passata di mano (in vol. cit.). Non è possibile, invece, al momento stabilire se l’origine delle cartucce sia unica, per quanto si sottolinei che la pistola abbia sparato esclusivamente proiettili ramati (più veloci) nel 1968 e nel 1974, e di piombo nudo in seguito sino al 1983. Le
cartucce sono comunque tutte Winchester ‘H’ e, supponendo che provengano da due sole scatole (da 50 cadauna), appare improbabile che oltre alla pistola, anche le cartucce abbiano cambiato di mano.
Oltre a disporre le perizie, il nuovo g.i. fa in tempo, prima dell’estate, ad escutere Vinci e Mele, che restano sulle rispettive e contrapposte posizioni.

5.5 – IL DUPLICE OMICIDIO DEL SETTEMBRE 1983

Il delitto di Giogoli, consumato mentre Vinci, supposto autore dei precedenti, è detenuto (il mandato concerne solo il duplice omicidio del 1968), presenta aspetti rilevanti, dal punto di vista dell’indirizzo delle indagini.
Gli uccisi sono due uomini e, pur sussistendo un sospetto di relazione omosessuale tra loro (poi avallato da riscontri della polizia tedesca), non risulta minimamente che fossero in atteggiamento intimo al momento del fatto. Sono trovati in un furgone adattato a ‘camper’ e non in un’autovettura, ed il furgone ha i vetri laterali opachi, che lasciano uno spiraglio solo in un breve tratto in alto, che si apre a m. 1,40 da terra, e lo sparatore ha esploso quasi tutti i colpi attraverso le lamiere. Non ha fatto uso dell’arma da punta e taglio.
Tutto ciò significa che per l’omicida ha avuto maggior peso l’occasione d’uccidere due persone inermi, in circostanze favorevoli, che non una pulsione suscitata dal loro comportamento in intimità.
È stata per lui determinante la prefigurazione della condizione delle vittime. Se ha seguito un richiamo sessuale, per aberrante che possa essere, esso appare secondario.
Quest’osservazione insieme a quella che, per poter uccidere due persone in veicolo chiuso, è necessaria l’arma da fuoco, e non è sufficiente e neanche utile quella bianca, apriva nell’autunno 1983 ad altre considerazioni, tuttora valide.
Il rapporto tra i delitti dal 1974 in poi e il precedente del ’68 dipende da una scelta ragionata. Il delitto del ’68 appare all’agente come un modello d’esecuzione e d’impunità, quali che possano essere le sue pulsioni emotive a petto di situazioni analoghe.
Infine, anche in questo caso, come nel precedente, l’omicida non ha fatto uso dell’arma bianca. Si può supporre che nel 1982 non ne abbia avuto l’opportunità e che, nel 1983, non si sia prefigurato prima dell’uccisione che si trattava di due uomini, confondendone uno per una donna. Ma tal cosa conferma l’assunto: l’uso dell’arma bianca è eventuale e subordinato alla prefigurazione del duplice omicidio, che ha per condizioni essenziali solo la sicurezza e l’impunità. Lo dimostrano anche
(prescindendo dall’assenza di arma bianca nel ’68, avendo quel caso caratteristiche peculiari — v. ‘premessa’) la scarsa abilità dello sparatore nel ’74, l’uso del coltello, in questo caso ed anche nei successivi dell’81, principalmente come arma sussidiaria, esplosi i colpi di pistola, e la necessità di un’ulteriore determinazione dell’agente per il vilipendio dei cadaveri, al quale serve l’arma bianca.
A questa stregua, classificare l’autore della serie omicidiaria (ma quella maniacale è dal ’74 in poi) un ‘lustmorder’ e i delitti come omicidi a fine di libidine (v. da ultimo le indicazioni del F.B.I., trasmesse tramite Criminalpol) appare scarsamente indicativo, se non fuorviante. Il genus degli omicidi a sfondo sessuale è vasto, ma il caso ha tali caratteri di specialità, che farlo rientrare a forza nel genus non è di alcuna utilità per le indagini. La classificazione deve difatti servire ad orientare per analogia o correlazione anche ‘a contrario’, nella ricerca di profili di comportamento extra-delictum. Se, fatte le dovute comparazioni con omicidi seriali apparentemente analoghi, non se ne possono trarre indicazioni univoche dal punto di vista comportamentale, la classificazione resta a livello di esercitazione scolastica.
Il tipo d’autore è dunque un ritratto ipotetico di carattere statistico, che serve ad orientare, prima del processo, indagini generiche di P.G.. Ma è autorizzato, solo dopo un’analisi accuratissima del ‘come’ del delitto, senza la quale non è possibile seriamente prospettarsi un ‘perché’ e, meno ancora, profilare ipotesi comportamentali extra-delictum.
Può servire, quale massima d’esperienza, fuori di casi di previsione esplicita (v. lo sfruttatore di prostitute nel regime originario del CP, v. le qualificazioni delinquenziali), esclusivamente in sede di repressione, per l’applicazione della pena o prevenzione specifica. Non ha invece alcuna attinenza con la tematica probatoria. Insomma, per quanto superfluo possa sembrare l’affermarlo, nessuno può essere indiziato per corrispondenza al modello (ritratto ipotetico).
Codeste considerazioni conducono in quell’autunno 1983 a stimare irrilevante la ricerca a stregua del cd. ‘tipo d’autore’, e ad avvalorare, secondo il p.m., la possibilità di più agenti, dei quali Vinci fosse stato il primo nel 1968, o uno dei concorrenti in quello o negli altri o in tutti.
Il p.m. segue nell’indagine preliminare questa ipotesi di lavoro, e la formalizza a fine ottobre 1983, allorché Antonio Vinci, nipote prediletto (figlio di suo fratello Salvatore) e implicato in altri affari illeciti con lo zio, viene incriminato, insieme a Francesco, per una detenzione in comune di fucili provenienti da furto [sarà poi dichiarata l’incompetenza di Firenze ed il processo si terrà a Prato].
L’ipotesi appare accettabile nella mera premessa che, a quanto risulta acquisito, nulla esclude il passaggio dell’arma (e perché non delle munizioni) da un detentore all’altro, vieppiù che sussiste una differenza, ontologicamente insuperabile, tra il primo dei duplici omicidi commessi con la stessa arma e quelli consumati dal 1974 in poi. Ad essa sono da aggiungere i tempi ragguardevoli, tra il primo ed il secondo e tra questo e tutti gli altri casi, cronologicamente ravvicinati a scadenza pressocché annuale.
Non si può infatti stimare modificata, a cagione del duplice omicidio di Giogoli, la posizione di Vinci. È necessario condurre a termine la verifica intorno al duplice omicidio del ’68, per il quale è detenuto. Solo in seguito può stabilirsi la sorte della pistola.
Perciò non è possibile una immediata risposta all’istanza di escarcerazione presentata dai difensori.
Essa è logicamente fondata su una premessa erronea, ancorata al tipo d’autore, e al presupposto che la pistola non possa aver cambiato mano dopo il 1968 e fino all’arresto di Francesco Vinci. In questo senso non vien meno neppure il primo motivo del mandato a suo carico.

5.6 – LA VERIFICA A CARICO DI F. VINCI

Prima della fine del 1983, l’istruttoria, che si allarga alla ricerca di possibili correi del Vinci o ad alternative alla sua responsabilità, per il ’68, vede la caducazione di molti degli elementi acquisiti, e la conferma di altri, che prospettano in nuova luce la ragione delle accuse di Mele contro di lui.
Innanzitutto si riflette che Vinci ha effettivamente detenuto, in epoca posteriore, ma prossima al 1968, una pistola cal. 22 L.R.. È quella a rotazione, sequestrata dai Carabinieri sulla sua automobile, e per la cui detenzione è stato condannato in corte d’Assise, con riferimento ad un concorso in rapina (v. processo Vetere, cit.). La pistola era nota ai correi prima del delitto (cfr. teste Murgia, vol. 5/B). Vinci nega di aver mai detenuto armi e arriva a dire in corso d’interrogatorio che qualcuno può avergliela riposta in autovettura, e non modificherà mai questa posizione benché inaccettabile (cfr. ibidem). Ma il punto è a suo favore: l’unica arma che si è certi abbia detenuto è diversa da quella adoperata per il duplice omicidio.
Conticelli afferma di averlo visto esercitarsi con una pistola, ma a stregua della perizia sui reperti balistici prelevati sul luogo da lui indicato, dovrebbe trattarsi di una carabina.
Pur stimando che i reperti non abbiano a che fare con quelli che avrebbe dovuto lasciare l’arma detenuta da Vinci, non si perviene ad alcuna conclusione a suo carico, tenuto conto dell’arma poi attribuitagli con sentenza passata in giudicato.
Il mancato rinvenimento dell’arma dei duplici omicidi si risolve, perciò, nel senso che le dichiarazioni di Mele intorno alla pistola sono prive di riscontro (motivo 4 del mandato) e, attesa la varietà delle sue versioni in merito, inattendibili.
In secondo luogo è un fatto obiettivo che Vinci non disponesse della sua lambretta nel 1968. Mele insiste, ancora nell’ottobre 83, ad indicarla quale veicolo, adoperato per recarsi sul luogo del delitto.
L’ipotesi che possa essersi trattato di quello simile, sottratto a Zaninelli, non ha nessun riscontro.
Mele stesso, principiando ad accusare Vinci nel ’68, aveva parlato di motorino (era perciò consapevole che Vinci non disponesse della lambretta o l’aveva addirittura dimenticata). È infine pacifico che il rapporto materiale pistola-lambretta, solo tardivamente è stato postulato da Mele. Nel 1968 lo aveva sostenuto Salvatore Vinci, attribuendone la fonte a Vitalia Vinci, sua cognata. Mele aveva detto che Vinci custodiva l’arma in un luogo che non conosceva neanche Vitalia. Nel 1982 (27 luglio), invece, imitando Salvatore, chiama in causa Vitalia. Infine dice di saperlo per scienza diretta. Il g.i. ha cercato invano una lambretta che abbia il portabagagli nella posizione indicata da Mele (di lato, come sulla Vespa). La lambretta ha sempre avuto il bagagliaio centrale. Il g.i. l’ha dimostrato al Mele, che tuttavia è rimasto sulle sue posizioni (cfr. 43, vol. 5B – 3). Ne segue che anche questo aspetto non è riscontrato (punto 2 del mandato). E Mele sul punto è inattendibile anche oggettivamente.
Quanto all’alibi del Vinci, rileggendo attentamente la testimonianza di Brunetto Andreini, ottenuta dal p.m. (v. retro), le sue negazioni provano troppo. Egli afferma di non conoscere nessuno dei vicini, di non aver sentito, all’epoca, parlare del duplice omicidio e di non aver venduto in casa. In effetti l’alibi poggia sull’altalenante e poco lucida Vitalia, portata a forti risposte emotive nei confronti del marito, sia in senso accusatorio, che liberatorio, anche per questo scarsamente affidabile.
Il discorso è altro e più generale e concerne la diversa rilevanza tra l’alibi trovato meramente falso e quello precostituito. Nella specie è possibile supporre che Vinci non abbia dato un alibi veritiero, ma non che si tratti di un alibi precostituito. Peraltro dagli atti del 1968 si apprende che quella sera non era stato al bar in paese, come era solito, eppure Mele aveva affermato di averlo visto uscire da pubblico locale (quello abituale, della Posta, frequentato anche dal Lo Bianco). Dal 1982 afferma che Vinci lo ha raggiunto in casa. Sposta anche l’orario dell’incontro con lui, anticipandolo. Si tratta di discordanze forse spiegabili con il trascorrere degli anni, ma tali da escludere che si possa su di esse fondare una valutazione dell’alibi (motivo 3 del mandato).
Gli argomenti di cui ai punti 5 e b del mandato appaiono di per se stessi non indizianti, seppur idonei a far nascere sospetto.
Di Vitalia si è detto. Non è da escludere che, essendo sospettato il marito proprio nel torno di tempo in cui si svolgevano i funerali dell’ucciso, ricordando di averlo dovuto denunciare per concubinato con la Locci, lei stessa, non certo cauta e propensa alla logica, abbia tentato di difenderlo ingraziandosi i congiunti del Lo Bianco. L’episodio non è comunque chiarissimo nei suoi contorni, anche per la palese fortissima emotività di cui, nell’occasione, era circostanziata e, a parte la rivalità tra Vinci e l’ucciso, che appare estemporanea, tra le famiglie in precedenza non sussistevano dissapori.
Quanto all’atteggiamento di Vinci all’epoca dell’arresto nell’82, le intercettazioni disposte sulla sua utenza di Montelupo, dove comunicava con sua moglie, fanno chiaro che egli non conoscesse la ragione per cui gli si perquisiva il domicilio e veniva ricercato in casa. Peraltro Vitalia gli faceva capire che si trattava di cosa avvenuta a Firenze prima che se ne allontanasse e lui se ne stupiva, avendo la mente rivolta ai reati intanto consumati in altra zona in quel torno di tempo (21/7- 15/8/1982), per i quali era uccel di bosco. È indubbio che la comunicazione di Vitalia non lo spingeva a maggior ragione ad affidarsi alle forze dell’ordine e comprensibile che se ne preoccupasse al punto di meditare l’espatrio. È espatriato, difatti, dopo la sua escarcerazione, avvenuta nell’autunno 84, con tutta probabilità per evitare il saldo di conti in sospeso.
Vinci non ha mai negato la gelosia per la Locci, alla quale ha affermato di aver addirittura strappato un abito di dosso, perché troppo scollato. Né ha mai circondato di riservatezza la sua relazione con lei, che era anzi pubblico dominio.
Egli stesso ha infine spiegato i termini e le circostanze della cosiddetta scommessa con il Lo Bianco intorno alla Locci. Non è perciò del tutto credibile quando afferma di essersene disamorato, ma è riscontrato dai fatti che avesse allentato i rapporti con la donna in quel periodo, uscendo lei con altri uomini. È più che verosimile che, in precedenza, l’abbia persino minacciata, se tal cosa era indicata già durante le prime indagini vuoi dal marito, che da suo fratello e rivale Salvatore.
Era perciò, all’epoca, sostenibile un suo movente di gelosia e, non a caso, a partire dal m.llo Funari, comandante della stazione di Lastra a Signa, Mele, Salvatore Vinci, a finire ai congiunti dell’ucciso, tutti hanno detto o stimato che potesse essere l’omicida. Senonché, questa unanimità appare sin troppo scontata, di talché qualcuno avrebbe potuto profittare della possibilità che i sospetti si appuntassero su di lui, vista anche la sfida in pubblico lanciatagli dal Lo Bianco, per farsene ragione d’impunità. La vita sentimentale della Locci, a parte il Lo Bianco, come sostengono tutti, dal marito al Vinci, non era difatti limitata ai personaggi di cui si è sin qui detto. Persino Giuseppe Barranca, cognato di Lo Bianco e compagno di lavoro di Mele era uscito di notte in macchina con lei (cfr.dichiarazioni in corte d’Assise, vol. 1A).
Finalmente l’imputazione a, carico di Vinci è legata alla reiterazione in se stessa delle accuse di Stefano Mele, intrinsecamente contraddittorie, già contrastate dagli elementi acquisiti nel 1968, e non riscontrate, nonostante gli approfondimenti, nell’istruttoria dal 1982 in poi.

5.7 – ANALISI DI IPOTESI ALTERNATIVE

Prima di pervenire a conclusione del quadro indiziario è necessario aggiungere che, attese le richieste del p.m., all’atto della formalizzazione del duplice omicidio del 9 settembre 1983, nell’istruttoria dell’autunno-inverno seguente, si è anche sondata l’ipotesi che Vinci possa aver agito con altri, con o senza il concorso, nel 1968, di Mele.
Questa ipotesi si affaccia, con la domanda rivolta al Mele dal p.m. il 7 settembre 1982 (v. retro), se oltre a Francesco Vinci, avesse agito con lui anche suo fratello Salvatore, ma Mele lo ha escluso.
Un richiamo a tale possibilità potrebbe stimarsi offerto, nel 1985, da tale Antenucci Nicola che afferma di aver visto Francesco Vinci a casa del fratello Salvatore la sera del giorno precedente al delitto e di aver sentito i due fratelli parlare della Locci. Ma, a parte una possibile autosuggestione, dovuta a quanto appreso poi (a quell’epoca Antenucci conosceva appena Salvatore e vedeva per la prima volta Francesco), questo elemento, ignoto prima dell’escarcerazione di Francesco Vinci, è acquisito quando è stato scoperto un diverso rapporto tra Salvatore Vinci e i Mele, e perciò di riflesso tra Salvatore e suo fratello, che postula altro indirizzo (v. capo VIII).
Anzi, vien da rammentare ancora una volta che Mele, nel 1968, è passato ad accusare Francesco Vinci, ritrattando le sue accuse contro Salvatore. Perciò lo chiamava a riscontro degli elementi versati contro il fratello. È da stimarsi che Salvatore avesse avuto con lui uno scambio di idee intorno a Francesco (gelosia, pistola) prima del delitto (e v. anche quanto si è già detto circa Vitalia, fonte comune a loro dire, intorno alla pistola).
Tal cosa rende improbabile, salvo il tentativo di difendersi, accusando l’un l’altro, il concorso tra i due fratelli e con il Mele. Francesco, peraltro, non si volge contro Salvatore e quest’ultimo è stato assai più cauto nei suoi confronti nell’ottobre 1983, di quanto non lo fosse stato dopo la riapertura delle indagini e con il primo g.i. Il dato più rilevante è tuttavia il fatto che non si vede per quale ragione il Mele abbia accusato l’uno invece dell’altro, senza coinvolgerli entrambi contemporaneamente.
Il problema va risolto più semplicemente nel senso che non sono acquisiti elementi di una qualche consistenza che autorizzino a stimare possibile un accordo tra i due fratelli, per quanto si sia stimato sintomatico un episodio del 1965, allorché a cagione di una ragazza, all’apparenza insidiata da Francesco, Salvatore ebbe a minacciarne il padre (cfr.: 1 in vol. 5/E), spalleggiando il fratello.
Deve escludersi, come possibile correo di Francesco, anche l’altro fratello Giovanni.
Nell’autunno 83, si è fatta piena luce intorno alla vicenda che lo riguardava (processo per incesto con la sorella Lucia, processo per ingiurie e minacce al fratello Francesco, visita estemporanea ad Antonietta Mele, per ottenere il colloquio in carcere con Stefano al fine di rafforzare le accuse contro Francesco — v. retro). L’atto conclusivo di questo brano d’indagine è in un confronto tra Giovanni Vinci e Silvano Vargiu (in vol. 5/B).
La storia del biglietto apposto sul parabrezza della vettura di Francesco, il riferimento ad una notizia di quest’ultimo quale autore del duplice omicidio, come ricevuta dal Vargiu e riferita ai Carabinieri di Signa, la vicenda della pistola, prima richiesta e poi mostrata al Vargiu stesso, come ottenuta da Francesco, e la visita ad Antonietta Mele, sono tutte conseguenze della scoperta del suo presunto incesto con la sorella, il cui suicidio è stato sventato proprio dal Vargiu, presente in casa sua.
Giovanni, perduto rispetto (è il fratello maggiore) nella famiglia d’origine (fratelli e sorelle vivono tutti in Toscana), a cagione della sua vicenda con la sorella Lucia, e avendo contro anche Francesco, reagisce contro di lui, sospettato anche in famiglia dell’omicidio della Locci, coinvolgendo il Vargiu, antico compagno d’avventure di Francesco, e testimone del suo proprio disonore. La contraddittorietà del rapporto con il Vargiu, che da un lato egli coinvolge nel delitto Locci-Lo Bianco, avanti ai carabinieri, e dall’altro provoca, con la storia della pistola, che poi asserisce essergli stata data da Francesco, lo dimostra. Giovanni, in maniera assai poco credibile ha negato sdegnato, durante il confronto con Vargiu, anche perché il suo astio contro Francesco è nel frattempo sopito.
Ma il suo comportamento nel 1971, la pronta denuncia di Francesco nei suoi confronti, per minacce ed ingiurie, dimostrano ineluttabilmente, non solo che i due non potevano essere complici, ma che nessun reale apporto alla scoperta della verità, nei confronti del fratello, Giovanni potesse dare.
La complicità passata tra Francesco e Silvano Vargiu (v. per esempio le testimonianze del m.llo Funari e le stesse ammissioni di Vargiu nell’autunno 83) lasciava ipotizzare anche una possibile correità nel duplice omicidio di Signa. Si è accertato che, proprio nel 1968 (dopo il duplice omicidio di Signa), Vargiu fu coinvolto in una rapina a mano armata, e perciò con detenzione di una pistola cal. 7,65. Si è indagato intorno all’ipotesi che egli potesse essere la fonte della pistola cal. 22 L.R..
Altra singolare circostanza è che Vargiu abbia vissuto per alcun tempo intorno al ’68, nell’edificio adiacente alla casa di De Felice, in via Vingone di S. Angelo a Lecore (via Pistoiese), lì dove fu condotto Natalino Mele la notte del duplice omicidio (v. cap. 1 n. 1, retro).
Vargiu, secondo Salvatore Vinci, del quale è figlioccio, ha oscillato in quegli anni tra la sua influenza e quella del fratello Francesco. All’epoca del fatto era libero, e prestò (mentre era già detenuto) la sua parola per l’alibi di Salvatore. Ha ritrattato in questi anni, significando che era stato quest’ultimo a chiedergli di riscontrarlo circa una partita a biliardo, la sera del fatto. Egli non poteva certo ricordare il giorno e si era affidato al richiedente.
I sospetti contro Vargiu, a parte le illazioni di Giovanni Vinci, si sono fermati a questo punto, salvocché, nel 1985, tale Casini Spartaco ha riferito al p.m. di rapporti particolarmente stretti tra lui e Salvatore.
In buona sostanza ogni ricerca nei confronti di Francesco Vinci, anche in direzione di altri che potessero agire, per antico rapporto di fiducia con lui, mentre era detenuto, non ha sortito effetto. E, nell’autunno 1983, erano venuti meno pressocché tutti gl’indizi a suo carico, pur ferme le accuse di Stefano Mele.
È da dire che dal 1983 in poi, ad ogni duplice omicidio, detenuto o non che fosse Francesco Vinci, ciascuna delle persone indicate ha subito perquisizioni ed è stata inquisita. Solo a carico di Salvatore Vinci, i sospetti, come si vedrà, si sono trasformati in indizi.
Da ultimo, in requisitorie conclusionali il p.m. inverte il ragionamento del 1983. L’esclusione sicura della responsabilità di F. Vinci da almeno due dei duplici omicidi seriali, perché consumati mentre era detenuto, nel 1983/84 farebbe concludere che egli sia estraneo anche ad ogni altro duplice omicidio dal 1968 in poi.
In effetti l’argomento poggia su una presunzione intorno al tipo d’autore che, per quanto verosimile, non è determinante (v. sull’argomento in generale sub 10.1). Più semplicemente, come si è osservato, non esistono indizi di alcun genere che colleghino F. Vinci ad uno dei duplici omicidi dal 1974 in poi e, quanto al 1968, se ne è appena discorso.

5.8 – RITRATTAZIONE DI MELE E CONFRONTO

Il 16 gennaio 1984, nella caserma del Gruppo CC di Firenze, Mele viene escusso nuovamente.
Nella mattinata conferma le sue accuse contro Francesco Vinci, presente il p.m.. Dopo una breve interruzione gli si contestano le discordanze tra le versioni rese nel 1982 e quelle del processo del 1968, dandogli anche lettura di brani significativi. Mele corregge man mano il tiro, prima affermando che è stato lui stesso a sparare e ad accompagnare il bambino dopo il duplice omicidio, infine dichiarando: “In verità nel 1968 non mi hanno dato la possibilità di essere sincero. Mi stavano tutti attorno e mi interrogavano per ore ed io avevo paura. Ed insomma cercavo di cavarmela e perciò facevo nomi non veri. Non era vero neanche il nome di Francesco Vinci. Adesso non ricordo chi fosse con me. Prendo atto che la cosa è poco credibile. In ogni caso non si tratta di persona a me cara [gli si è contestato che se tace ancora il vero, o protegge una persona cara o una di cui ha tuttora paura]. I miei cari, oltre ai miei familiari, adesso che ci penso erano anche i parenti della Locci e poi il bambino un nome lo fece. Era lo zio Pietro, il fratello di Barbara”.
Subito dopo, Mele cerca di porre rimedio alla manifesta incredulità di chi lo ascolta, significando che andava d’accordo con suoi parenti [maschi], ma che non era stato nessuno di loro (cioè suo fratello Giovanni o Mucciarini). E si lancia ad accusare un anonimo muratore generico siciliano, forse Angelo, forse Salvatore, di circa 25 anni di cui fornisce anche i dati somatici, persona che non avrebbe più visto dopo il delitto e che non sarebbe mai stata coinvolta nelle indagini.
Inopinatamente, passa a parlare di Salvatore Vinci: “Però è vero che a Salvatore Vinci della pistola di Francesco glielo avevo detto io [allude al fatto che, nel 1968, dopo aver ritrattato l’accusa nei confronti di Salvatore Vinci, egli aveva chiesto che si facessero riscontri presso quest’ultimo delle accuse da lui trasferite nei confronti di Francesco, la qual cosa lasciava supporre che di quest’ultimo avessero discorso insieme, prima del delitto, come dimostrano anche altri elementi, di cui si è detto]. Anche Salvatore era un poco di buono. In Sardegna la moglie gli morì con il gas, ma anche lì fu salvato il bambino. [La gravità di queste allusioni inattese lascia perplesso chi lo ascolta e Mele prosegue]. No, non voglio dire niente contro Salvatore. Non c’è nessuna allusione. Salvatore Vinci aveva la macchina a quattro ruote”.
Dopo questo excursus riprende le sue accuse contro il fantomatico Salvatore o Angelo, che poco dopo si trasforma in Virgilio (pseudonimo da lui adoperato per indicare Carmelo Cutrona, che era stato a casa sua il pomeriggio prima del delitto, ed egli aveva chiamato a riscontro della sua assunta malattia, e chiamato temporaneamente in correità, nel 1968, tra un’accusa contro Francesco Vinci e l’altra). Sembra insomma che voglia ripetere i tentativi del 1968.
A questo punto: “Alla domanda se con me quella sera fosse Francesco Vinci, rispondo: NO. Alla domanda: allora chi? — rispondo: quello che ho detto. Se però mi fate fare il confronto con Francesco Vinci gli dico in faccia che è lui. Ho imparato a mie spese che chi vince il confronto se la cava e chi perde paga”.
Gli si spiega che il confronto si impone tra posizioni inconciliabili e che la nuova versione fornita (quella di Angelo-Salvatore, siciliano, divenuto Virgilio) non appare maggiormente convincente di quella precedente e ribatte: “Allora è stato Francesco Vinci”.
Dopo una pausa di alcuni minuti, ripresa la discussione in termini bonari, egli dichiara: “Voi cercate sempre la pistola. Io non lo so a chi l’ho data, non me lo ricordo”. E chiude ribadendo: “Se domani mi mettete a confronto con Francesco Vinci, gli dirò ancora che è stato lui”. (cfr. 145, testi, vo. 5B).
L’indomani, prima di decidere l’opportunità del confronto, richiesto dalle parti, che intendono presenziarvi, Mele viene riudito e accusa ancora Francesco Vinci, affermando però di essere stato lui stesso a sparare e che poi aveva restituito la pistola a Francesco Vinci, che l’aveva messa in un baule della vespa o della lambretta (a seguire, loc. cit.).
Circa questa nuova, e non più ripetuta posizione di Mele va osservato che il giorno innanzi incidentalmente, contestandogli le sue evoluzioni accusatorie, gli si è fatto notare che il risultato del guanto di paraffina, nel 1968, appariva positivo — tracce di nitrati — per lui ed il Cutrona e negativo quanto al Vinci. Il rilievo, male inteso dal Mele, appare oggi comunque intempestivo, quale quello che ha innescato la riproposizione delle accuse nei termini del 1968. Lo indicherebbe anche il riferimento, in negativo, all’autovettura di Salvatore Vinci, che a differenza del fratello e del Cutrona, non possedeva una lambretta. Esso vuol stare a significare che Mele si adegua all’indirizzo dell’inquisizione, che gli sembra riproporsi negli stessi termini del 1968.
Viene quindi posto a confronto con Vinci e, fatte le contestazioni a quest’ultimo, Vinci nega e Mele dichiara definitivamente che, quella sera, non era Vinci con lui, ma Carmelo Cutrona.
Per inciso, nel corso del 1989, sottoposto a perizia psichiatrica, Mele ha ripreso, con i periti, ad indicare quale correo Francesco Vinci.

CAPO VI

— 1984 —

6.1 – LE ACCUSE CONTRO CUTRONA

La nuova accusa di Mele contro Cutrona, nel gennaio 1984, non metteva, né mette tuttora conto di essere presa in considerazione.
È palese che se ha accusato Vinci, sinché ha potuto, e cioè quando ha trovato credito, prima presso i suoi stessi difensori, poi presso i compagni di detenzione (Vargiu Silvano, il Conticelli, Murgia Giuseppe — v. retro), infine presso i nuovi inquisitori, lo ha fatto per una ragione emotiva fortissima.
Vinci era la causa prima di quella sua ‘stanchezza’ della moglie, ammessa con i suoi stessi congiunti la mattina del giorno in cui sarebbe stato arrestato, e dichiarata più volte ai magistrati. A questa misura, il suo astio per lui poteva essere sopito, ma mai spento.
La ripresa delle indagini lo aveva rinfocolato, aggiungendo, come si è visto, la paura di subire ulteriori conseguenze. Superata quest’ultima, aveva reso al figlio (e poi al p.m.: il 7 settembre 1982) una versione emotivamente genuina, per quanto obiettivamente mendace, sentendosi ai suoi occhi meno responsabile dell’uccisione della madre, di quanto stimasse il Vinci.
Ma, dovendo rinunciare ad accusarlo, riprendeva corpo la paura dell’inquisizione, che obiettivamente non avrebbe più avuto ragion d’essere, essendo stato rassicurato, sin per iscritto, dagl’inquirenti. E, per evitarla, provava a ripetere le accuse, secondo quello che stimava fosse l’indirizzo di chi indagava.
In questa dimensione va collocata l’accusa contro Carmelo Cutrona, una persona ormai tanto lontana dai suoi pensieri, da non ricordarne neanche il nome, o meglio lo pseudonimo (Virgilio) con il quale la denominava.

6.2 – RAGIONI DI SOSPETTO

Prima di tirare in ballo Cutrona, il Mele di fronte all’alternativa se la sua omertà, coperta per anni dalle accuse contro Francesco Vinci, sia dovuta alla paura o all’affetto, scarta entrambe le vie.
Anzi, avendo inteso la locuzione ‘persona cara’, nel senso di ‘congiunto’, non si perita di indicare, facendo leva sulle dichiarazioni del figlio nel 1969, Pietrino Locci, il fratello dell’uccisa, quale suo complice. E tanto dichiara in difesa esplicita di suo fratello Giovanni e di Piero Mucciarini.
Ciò desta il sospetto che, all’interno della sua famiglia d’origine, circa la quale nessuno appare aver realmente indagato, a parte il m.llo Ferrero (dopo aver udito l’accusa contro ‘zio Pierino’, lanciata da Natalino, secondo sue dichiarazioni in corte d’Assise), si celi il segreto, che egli custodisce con la menzogna.
In questo senso, concordano diversi elementi.
Innanzitutto sono evidenti gli inquinamenti subiti dal figlio, a partire dal terzo giorno d’indagine. Natalino la notte del delitto era stato preparato a far l’alibi al padre e, quella successiva, sicuramente da lui, ad accusare Francesco Vinci. Dopo essere stato tenuto dagli zii paterni, aveva invece indicato proprio suo padre quale accompagnatore (e questi stimava che fossero stati i parenti a determinarlo, v. già r. circa le sue dichiarazioni del 27.7.82 al g.i.). Inoltre nella loro casa, Natalino era stato indirizzato, a quanto aveva riferito al g.i. nell’aprile 1969, contro Salvatore (Vinci, credibilmente) dallo zio Piero Mucciarini. Questi aveva fatto leva su Stefano, per farlo confessare e, confessando, accusare appunto Salvatore (Ferrero in c. Assise, ma è già evidente dalla sottoscrizione del verbale di Mele del mattino del 23 agosto 1968).
Una tale influenza doveva stimarsi sin troppo decisiva, se è vero che Mele aveva preparato, invece suo figlio ad accusare Francesco Vinci, ed era tanto sicuro di lui, da chiamarlo a riscontro, non appena trasferiva contro quest’ultimo le sue accuse.
Natalino aveva infine accusato proprio Piero Mucciarini avanti al g.i.. Successivamente gli aveva attribuito il nome di Pietro invece di Piero. E Pietro (in effetti ‘Pietrino’) è invece il nome di un fratello della madre, che veniva viceversa indicato come Piero, e dato anche lui presente sul luogo, dopo il delitto. Ciò appariva, all’evidenza, frutto di un inquinamento (v. retro cap. III, interrog. 23 aprile 1969), subito tra i familiari del padre, tra un interrogatorio e l’altro.
Mele, per parte sua, aveva voluto allontanare i sospetti nascenti dalle indicazioni del figlio contro Piero Mucciarini. Per farlo, il 16 maggio 1969 diceva al g.i. che il ragazzo nel marzo di quell’anno era stato per un giorno anche in casa degli zii materni [dal verbale non risulta che il g.i. gli abbia
detto a quale zio si riferissero le accuse di Natalino, ma dal contesto, il bambino era stato subito a casa di Mucciarini, s’intende che Mele, fors’anche già informato dai parenti, deve aver capito trattarsi di Mucciarini].
Il bambino aveva infine ritrattato tutto circa gli zii, in corte d’Assise, fermo il riferimento a suo padre. In quell’ultima sede, in camera di Consiglio, era presente una sola persona estranea alla corte ed alle parti tecniche, lo zio paterno, che non appariva in nessun atto del processo. Il 17 agosto 1982 era stato interrogato dal p.m. l’unico fratello maschio di Mele, Giovanni, e deve stimarsi che si trattasse di lui.
Il 15 di quello stesso agosto Natalino aveva riferito che sua zia Maria gli diceva di dire di non ricordar nulla della notte del delitto, perché, al momento dei fatti, stava dormendo (e, nel corso di una telefonata, intercettata — v. retro —, lo ripeteva). Maria Mele sosteneva, di fronte alle prospettazioni del p.m., di non aver alcun interesse alla revisione del processo in favore del fratello.
Il suo sgomento, allorché il vecchio padre Palmerio aveva indicato quale correo di Stefano al p.m. (v. retro) F. Vinci, il diniego di firma del verbale d’ispezione, la resistenza acché i magistrati interpellassero anche sua sorella Antonietta, allora in effetti gravemente ammalata, prima interpretati come sintomi di paura, appaiono, ora (gennaio 1984) che le accuse contro il Vinci sono svanite, in luce sospetta.
Le intercettazioni telefoniche sulla sua utenza, subito dopo l’inizio delle indagini, attestano infine (v. r. 4.6), in quell’agosto 1982, un lavorio di Giovanni Mele, al quale Maria faceva da spalla, intorno a quello che avrebbero dovuto dire agl’inquirenti, a parte altri congiunti (Teresa), Stefano e Natalino.
Dalle telefonate si apprende che Giovanni aveva lasciato qualcosa per iscritto a Stefano e chiamato il nipote per istruzioni e ragguagli. E quest’ultimo, che nel 1968 aveva accusato del delitto suo marito Piero Mucciarini, era stato già chiamato dalla zia Antonietta per telefono, la sera stessa in cui aveva subito, stando a letto, l’escussione dei magistrati, interrotta su parere del medico presente.
Infine, all’evidenza, nessun effetto aveva sortito l’impegno preso con il p.m., da tutti i suoi fratelli, di spinger Mele a dir la verità, per ottenere la revisione del processo (v. r 4.6 e 4.7. e capi II e III, per tutto quanto).

6.3 – ESCUSSIONE DI GIOVANNI MELE

In attesa delle richieste del p.m., che si era riservato di requisire, circa la posizione di Vinci, dopo il confronto con il Mele (era pendente un’istanza di escarcerazione), e gli ulteriori sviluppi delle indagini (erano peraltro ancora imputati Spalletti e Santangelo, circa i quali si è deciso con separato provvedimento, cfr. vol. 9), si passa alla verifica di alternative intorno al delitto del 1968.
La prima concerne l’atteggiamento dei suoi fratelli, in casa dei quali (Giovanni e Maria), a Scandicci, Mele si trova dopo il confronto del 17 gennaio 1984.
Il 18 gennaio, udito a Scandicci, Giovanni Mele esordisce: “Da ieri ad oggi ho notato un modesto cambiamento nell’umore di mio fratello Stefano, come se in parte si fosse scaricato di qualcosa… Mi ha dato la sensazione che vorrebbe confidarsi per qualcosa, ma io non lo fo perché la ritengo un’interferenza nella sua riservatezza”. Tal cosa, ovviamente, aumenta le perplessità, vistocché si era impegnato a fargli dire la verità, si era recato apposta a fargli visita (cfr. le intercettazioni del 1982, retro) e gli aveva lasciato un appunto scritto.
Giovanni Mele prosegue: “[mio fratello] Ha sempre avuto una modesta attività intellettuale. Stamani siamo stati a Lastra a Signa a cercare la sua abitazione ed ho notato che non riusciva molto ad orientarsi. Ha perduto in sostanza lucidità…”. Tal cosa appare verosimile (al momento Stefano ha circa 65 anni) e sarà in seguito riscontrata in sopralluoghi.
Giovanni non nega che suo fratello sia di buona memoria, ma aggiunge: “Tuttavia si chiude verso gli estranei. Per inserirsi nel rapporto con lui, bisogna porsi a livello di scherzosità”. È palese che miri a proteggerlo dall’ulteriore inquisizione. Al riguardo spiega che il delitto avvenne mentre lui si trovava a Mantova ed era stressato dai turni di lavoro. Tornato a Firenze, si recò alle Murate a colloquio con suo fratello e dice: “Mi colpì il fatto che lui quasi scherzasse e, insomma, sembrasse non dare importanza a quanto era successo”.
La palese difesa delle riserve di Stefano nei confronti dell’inquisizione non si arresta a questo punto.
Dopo la lettura e la sottoscrizione, Giovanni Mele fa riaprire il verbale per dichiarare che Stefano era molto preoccupato, quando era stato fatto venire (per il confronto) e che diceva di continuo: “Ho detto tutto quello che debbo dire, che cosa vogliono ancora”. Egli avrebbe cercato di
tranquillizzarlo.
Quest’ultima dichiarazione accresce il sospetto. Si è al giorno successivo ad una svolta di enorme rilievo, avendo Stefano ritrattato le accuse contro Francesco Vinci, ed è impensabile che suo fratello, suo ospite, non lo sappia.

6.4 – DUE TESTIMONIANZE INTORNO A G. MELE

Nei giorni successivi i sospetti per l’atteggiamento di Giovanni Mele (non è stato possibile udire sua sorella Maria), si accrescono, alla luce di due testimonianze, una della vedova dell’ucciso Antonio Lo Bianco, ed una di una donna sconosciuta, che compare inopinatamente.
Rosalia Barranca (c.148ss. vol. 5b), vedova del Lo Bianco, conferma i suoi sospetti nei confronti di Francesco Vinci, ovviamente ignara che gli indizi a suo carico sono venuti a mancare. Ricorda taluni particolari della vita con il marito, gli ultimi tempi, i rapporti della sua famiglia con quella del Vinci.
Senonché, ad un certo punto, dichiara: “Quanto ad altri particolari, ricordo adesso che, durante il processo d’appello, in via Cavour, io uscii dall’aula. Mi seguì un uomo magro e bassino, che sapevo essere il fratello di Mele, ed io gli dissi: «proprio a mio marito, padre di tre figli, doveva succedere?» Lui rispose che gli dispiaceva per mio marito, ma non per la cognata, giacché per loro ‘la cognata era già morta prima che la si uccidesse’. Insomma, io così ho capito”. Più avanti precisa: “Ricordo che disse anche: «prima o dopo a qualcuno che era con lei sarebbe dovuto capitare. Mi dispiace che sia toccato a suo marito.»”.
Tanto smentisce la posizione dei fratelli Mele, ed anche di Giovanni, durante le precedenti escussioni. Essi avevano dichiarato che in famiglia, prima del delitto, nulla si sapeva del comportamento della Locci.
La Barranca chiama a riscontro una cugina. Costei, Vincenza Russo, viene udita, ma non ricorda.
Tempo dopo sarà lo stesso Giovanni Mele a significare di aver detto qualcosa di simile a quanto riferito dalla Barranca ad un congiunto dei Lo Bianco.
La seconda testimonianza giunge inattesa. Tale Iolanda Libbra, di circa 60 anni, si presenta ai carabinieri di Scandicci il 21 gennaio 1984 e rilascia dichiarazioni a carico di Giovanni Mele, con il quale ha avuto un’amicizia intima. Le conferma al g.i. il 22 successivo alle 18. La donna, a suo dire, intendeva rilasciare dichiarazioni già dopo il 6 gennaio di quell’anno, ma le era stato detto in caserma che il Comandante era in ferie, e sarebbe tornato appunto sabato 21.
La Libbra afferma di aver paura di G. Mele per il suo strano comportamento. L’ha condotta, con la sua autovettura FIAT 128, color verde, vuoi alla Roveta di Scandicci, nei pressi della ‘Taverna del diavolo’ (a pochissima distanza dal luogo del primo duplice omicidio del 1981), vuoi in una località raggiungibile dal Bargino (che si appurerà poi essere una piccola radura, nei pressi di un cimitero pressocché in abbandono, in territorio di Montefiridolfi, ma più spesso ha fatto giri viziosi, senza mai trovare un posto dove fermarsi e come in cerca di qualcuno. In quest’ultima circostanza afferma di avergli visto, nel baule dell’autovettura, un grosso coltello, del quale si stende un disegno allegato il verbale, nonché dei flaconcini contenenti un liquido profumato, idoneo alla pulizia delle mani (adoperato nella sua azienda, che provvedeva alla segnaletica sull’asfalto) ed un groviglio di corde, di 5-6 millimetri di spessore. Vedendole, la Libbra si era ricordata che Giovanni Mele le aveva descritto una tecnica di uccisione (cosiddetta per incaprettamento) della mafia, che consiste nel legare ad arco il collo agli arti, per il dorso, sino a che la tensione muscolare provoca lo
strangolamento. Le faceva altri strani discorsi che avevan per oggetto il suo membro virile, a dire della Libbra spropositato. Le aveva fatto vedere riviste pornografiche e in più raccontato di una lesbica che, dalle parti di Fiesole, addestrava e preparava le ragazze con un grosso sesso artificiale, e quand’erano pronte, lui si recava a possederle. Ma questo membro spropositato, secondo esperienza della Libbra, non gli sarebbe servito a granché nei rapporti intimi.
Tutte codeste cose non illustrano il perché, pur in presenza di una personalità singolarissima, e per alcuni versi sinistra, la Libbra abbia affermato di stimare che il Mele sia il “mostro” (insomma l’assassino delle coppie, secondo i mass-media). E qui la Libbra afferma che, a suo dire, il Mele è un mandatario di suo marito, dal quale vive separata, per ucciderla e riferisce circostanze, dalle quali è palese un’autosuggestione. Singolarmente, non mostra di sapere, e la cosa lascia perplessi, che si tratti del fratello di Stefano.
Più rilevante è che accenni a litigi tra lui ed il cognato Piero Mucciarini, con il quale convive (morta dal settembre ’82 la sorella Antonietta), che sono sfociati in reciproche accuse di pazzia. Il litigio, secondo la Libbra, avrebbe per oggetto la casa (loc. cit. a seguire).

6.7 – LE PERQUISIZIONI2

Il 24 gennaio 1984 vien disposta perquisizione vuoi nell’abitazione attuale di Giovanni Mele, presso sua sorella Maria (nella quale al momento è ospite Stefano, che in quella prossima e già in comune con Piero Mucciarini, sul veicolo e le persone (vol. 6/B-c).
La perquisizione, infruttuosa quanto al Mucciarini, darà invece frutti rilevanti per guanto riguarda luoghi e persona di Giovanni (e Stefano) Mele.
Nel bagagliaio della sua autovettura sono rinvenuti taluni degli oggetti indicati dalla Libbra (corde, disinfettante-solvente, riviste pornografiche). Un coltello, tuttavia diverso da quello descritto dalla donna, anche se di dimensioni apprezzabili, è nell’abitacolo, di fianco al sedile di guida [nel portabagagli si repertano anche peli umani e macchie apparentemente di sangue. Circa i primi gli accertamenti diranno che forse sono delle stesso Mele. Circa le seconde, non daranno le reazioni tipiche dei reperti ematici].
In casa è rinvenuto un ricco armamentario di strumenti da punta e taglio, adattati o forgiati (secondo spiegazioni del detentore) per il lavoro sul sughero (al quale risulta effettivamente dedito). Ma lo strumento più rilevante è la lama, in busta aperta, del bisturi Gillette di maggior dimensioni, in commercio sin dal 1978. Il Mele porta il bisturi nel portafogli, insieme ad una seghetta di ferro, pur essa affilata a lama, ed al pezzo di un’altra lama (che poi risulterà essere egualmente destinata ad uso chirurgico). Il manico del bisturi verrà repertato separatamente, un paio di giorni dopo, su di un tavolo di lavoro.
Sono inoltre repertati blocchi di appunti con singolari piantine, agende con annotazioni, del tipo “I dicembre, luna piena, giorno favorevole.”, di targhe di autovetture con indicazioni dei dati e del colore dei veicoli.
Il Mele fornirà chiarimenti circa gli strumenti. In particolare anche il bisturi e gli altri arnesi custoditi nel portafogli sarebbero destinati al lavoro sul sughero (e difatti se ne troverà traccia a livello microscopico, in sede peritale). Ma arriva a certe ammissioni con reticenza e farraginosamente. Sarà difficile stabilire il rapporto tra manico e lama del bisturi, ad esempio. Ed alla fine si accerterà che ha posseduto un’altra lama, spezzatasi, acquistata insieme al manico, in una coltelleria di via della Spada, in città, in epoca prossima al 1978. Analogamente, il coltello sull’autovettura viene attribuito all’attività di ricerca dei funghi, e così l’annotazione di ‘luna piena’.
2 I numeri di paragrafo 6.5 e 6.6 sono stati saltati.
Resteranno tuttavia inspiegabili le piantine di luoghi (saranno fatte ricerche) e le annotazioni su autovetture, in qualche caso da lui seguite.
Anche sul suo antico luogo di lavoro, nei pressi di Mantova, ove da ultimo faceva da guardiano notturno e dormiva di giorno, rientrando a Scandicci solo a fine settimana, verrà repertato uno strumento da punta e taglio, simile ad un bisturi con manico incorporato, creato artigianalmente, circa il quale, poco credibilmente, parlerà di ‘tagliacarte’. Altri strumenti offensivi, quali una balestra ed un coltello da macellaio (così denominato da lui medesimo) di forma accorciata (forse quello descritto dalla Libbra), non saranno rinvenuti. A suo dire, gli strumenti sarebbero stati fabbricati, nell’officina dell’azienda, nottetempo.
Tutte queste emergenze obiettivamente convincono di una particolare propensione del Mele agli strumenti da punta e taglio, quale che ne fosse il destino abituale. E la cosa si colora maggiormente, quanto al bisturi nel portafogli, trattandosi del fratello di Stefano, e dimostrando l’istruttoria che ha seguito con attenzione le vicende delle indagini divulgate dalla stampa, per esempio le perizie medico-legali dell’81 (in cui si suppone chiaramente l’uso di un bisturi).
Sui vetri dell’officina (ove nottetempo si recava a costruire gli arnesi) verranno poi rilevati dei fori circolari, analoghi a fori di proiettile calibro 22, di cui hanno il diametro, che Mele dichiarerà di non aver mai visti. Taluno dei lavoranti — i fori erano noti a tutti da qualche anno (Mele è in pensione appena dall’autunno ’83) — riferirà ai carabinieri di aver in passato rinvenuto bossoli di cartucce di quel calibro, nei viali dell’azienda. Non risultano avvenute esplosioni d’arma da fuoco di giorno e Mele era l’unico a trovarsi di notte nell’azienda. Accertamenti sperimentali, con armi da fuoco, condotti presso il C.I.S., in sede di perizia, non daranno risultati analoghi. E non sarà possibile stabilire l’origine dei fori.
Tutto questo darà, in una con l’atteggiamento processuale (risposte palesemente fantastiche o menzognere, posizioni assurdamente mantenute, sino alla dimostrazione palmare del loro contrasto con la realtà — v. vicenda relativa al manico del bisturi) un quadro a dir poco singolare della personalità dell’imputato. E il quadro sarà ancor più colorito, dopo i sopralluoghi fatti con la Libbra, lì dove si era recata con l’autovettura del Mele e la scoperta di sue singolari abitudini, quali quella di recarsi in camera da letto per tempo, ed uscire dopo che la sorella anziana è andata a dormire. I luoghi sono quelli in cui, abitualmente, si appartano le coppie, raggiunti dopo un inspiegabile girovagare, secondo le indicazioni della Libbra, o viceversa sinistri, come il piccolo cimitero di Montefiridolfi, o talun angolo della Roveta, dopo il delitto duplice di Scandicci.

6.8 – IL FOGLIETTO

L’elemento più rilevante proviene da sequestro effettuato in danno di Stefano Mele, che si trova, all’atto della perquisizione, nell’abitazione dei fratelli Maria e Giovanni.
Egli custodisce nel portafogli un documento.
Si tratta di un foglietto di cm. 9×17, tratto da un blocco in uso aziendale, verosimilmente presso una ditta del mantovano (in calce è la tipografia). Il retto reca alcune annotazioni presumibilmente di lavoro, in un reticolato prestampato, la qual cosa dimostra che è già stato usato, secondo il destino suo proprio.
Il verso, completamente bianco, reca delle manoscritturazioni. Sul lato corto è annotato il numero di telefono del direttore (‘monsignore’) della casa per ex-detenuti di Ronco all’Adige, della quale è ospite Stefano Mele.
Per il lungo sono scritte tre frasi, divise ciascuna da una linea. I caratteri sono misti in Italico maiuscolo e corsivo minuscolo. Ogni lettera è staccata dall’altra. Il manoscritto dimostra poca familiarità dell’autore con la penna.
Se ne dà qui di seguito una riproduzione, significando che le sottolineature indicano correzioni o stilemi dell’autore (per esempio la prima lettera è una ‘T’, corretta in ‘R’, e talune ‘N’ sono scritte all’inverso). Il corsivo originale minuscolo è reso semplicemente in minuscolo:
RIFERIMENTO DI NATALE RiguaRDO
LO – ZIO PIETO
———————————–
Che avesti FATO il nome doppo
SCONTATA LA PENA.
———————————–
come RisuLTA DA ESAME Ballistico
dei colpi sparati
Il primo esame del foglietto, partendo dal presupposto che Stefano Mele ne sia il destinatario, consente di stabilire che il manoscritto è un pro-memoria, a lui destinato (come dirà l’imputato).
Come si è detto, dall’intercettazione telefonica del 1982, si apprende che Giovanni Mele, secondo sua sorella Maria all’altra sorella Teresa, aveva lasciato ‘tutto scritto’ al fratello. Sulla scorta delle telefonate è possibile addirittura individuare la data ’25 agosto’ (v. r. 4.6 e 6.2 III — Stefano e Giovanni Mele confermeranno l’origine e l’occasione, che sono quelle indicate — Il contenuto del biglietto, v. più avanti, ed il numero telefonico di ‘monsignore’ confermano indirettamente la datazione).
L’esame contenutistico dimostra che le tre frasi hanno per oggetto ciascuna un riscontro ad una proposizione implicita, verosimilmente del destinatario del biglietto, Stefano Mele: la prima un riferimento di Natale (il figlio, durante le indagini del 1968 ha indicato quale autore del delitto lo zio Piero/Pietro), la seconda un fatto obiettivo (Mele ha scontato la sua pena), la terza una prova indiscussa (esame balistico).
Tanto è immediatamente comprensibile, nonostante l’ortografia [incidentalmente la provenienza da una mano ‘sarda’ è supponibile per l’uso incerto del raddoppio consonantico, cosicché ‘fato’ è <fatto>, ‘doppo’ è chiaramente <dopo>, ‘ballistico’ è <balistico>].

6.9 – ‘ZIO PIETO’

Il problema fondamentale concerne il riferimento allo ‘zio Pieto’, nel quale è la valenza indiziaria.
‘Pieto’ sta per <Pietro> e non per <Piero>.
Nell’ordinanza, con la quale il 18 agosto 1984 sarà rigettata l’istanza di escarcerazione di G. Mele e P. Mucciarini, si spiega che sul biglietto deve leggersi ‘zio Pietro’, e che zio Pietro è Pietrino Locci. Ma il Tribunale della Libertà escluderà che il biglietto appaia univocamente intelligibile in questo senso, per far luogo a ragioni difensive del Mucciarini (delle quali si dirà in dettaglio nel capo seguente).
Il travisamento è evidente. Il biglietto, nel momento della sua acquisizione, va letto obiettivamente per quello che è, alla luce dei dati già emergenti dagli atti. È necessario perciò ricostruire il ragionamento, prima ancora di osservare che, di esso, è interpretazione autentica di chi lo ha scritto e riscontro nei fatti di chi lo ha ricevuto.
Ricostruendo le emergenze istruttorie, sono identificabili i seguenti punti fermi:
a) Durante l’incontro con il g.i. del 27 luglio 1982 (atto che precede la ripresa delle indagini da parte del p.m., laddove il biglietto è stato scritto appena dopo la loro ripresa da parte del p.m.) Mele ha negato la sua partecipazione al duplice omicidio. Ha accusato Francesco Vinci, facendo leva su di un solo argomento, il racconto, a suo dire, fattogli da Natalino, la sera del giorno successivo al fatto.
Il 16 e 17 agosto 1982, il p.m., riaperte le indagini intorno al 1968, ha prospettato ai suoi fratelli che, se lo convincono a dire la verità, Mele può ottenere la revisione del suo processo (nessuna menzione è fatta loro del legame del duplice omicidio di Signa con gli altri omicidi successivi) purché indichi chi era con lui, inteso come il vero omicida.
Poiché l’indagine è principiata quel 16 agosto con l’escussione di Natale, e questi, giusti i solleciti della zia, ha affermato di non ricordar nulla, prendono consistenza le sue dichiarazioni da bambino.
b) Su queste premesse, chi scrive il biglietto (Giovanni Mele) il 25 agosto (prima che Mele sia nuovamente escusso dal p.m., ed essendo evidente la prospettiva che lo sia, v. r. capo IV) conclude che Stefano non può essere creduto se, dicendosi non presente al fatto, accusi Francesco Vinci, per cui fu già condannato di calunnia [i suoi stessi difensori (avv. Ricci e Castelfranco), credendo nella sua colpevolezza, lo avevano stimolato ad ammetterla se voleva accusare credibilmente un complice che la attenuasse (v. il verbale di dibattimento del 1970)].
Men che mai potrebbe esser creduto ora, attribuendo al figlio Natale di avergli riferito, dopo il fatto in segreto, il contrario di quanto il medesimo aveva detto al giudice. E aveva detto che l’assassino era lo zio Piero Mucciarini, che il padre era presente, il Vinci non c’era ed era stato il padre a suggerirgli di dire che ci fosse (v. r. capo II).
Si era cercato di far dire al bambino zio Pietro, (alludendo al quasi omonimo Locci) invece di zio Piero, ma era chiaro che il bambino indicasse sempre la stessa persona.
In giudizio il bambino, accusando solo il padre, aveva ritrattato ogni altro riferimento.
Giovanni Mele, non si dimentichi, era presente nella camera di Consiglio (v. r. ibidem). Ciò era bastato, ma non sembrava bastare ora.
c) Chi scrive il biglietto, è il fratello gemello della morente Antonietta. E costei lascia tra l’altro una figlia minore. Non si vuole correre il rischio che la ragazza, rimanendo orfana di madre, perda anche il padre, Piero Mucciarini, per le accuse del nipote (si tratta di riferimenti espliciti nel processo, come si vedrà in questo capo ed in quello che segue).
Al momento (agosto 1982) non solo non v’è dissapore, ma solidarietà tra i due cognati. Solo un anno dopo la morte della sorella Antonietta, nel 1983, andato in pensione Giovanni Mele, e tornato perciò ad abitare continuativamente (altrimenti era a Scandicci solo per il finesettimana) nella casa di cui era comproprietario con sua sorella, la questione della
coabitazione di lui con Mucciarini e la figlia, farà nascere dissapori tra i cognati (di cui riferisce anche la Libbra e diranno essi stessi in istruttoria).
d) Il riferimento, sul biglietto, all’esame balistico presuppone che Stefano Mele affermi di essere stato presente al duplice omicidio. Lo dimostra il fatto che conosceva il numero dei colpi sparati, prima che fosse accertato per perizia. ‘Ergo’, secondo l’autore dell’appunto, egli deve per forza dirsi colpevole.
Se Mele si dice colpevole, può e deve dare un’identità allo zio nominato dal figlio, dirimendo l’equivoco Piero-Pietro in quest’ultimo senso. Secondandone la testimonianza in istruttoria deve dire che si tratta di un certo Pietro (e non un Pietro qualsiasi, perché a differenza del bambino non può confonderlo).
e)
f) A riprova che lo stimolo è in favore di Mucciarini, nel senso dell’inquinamento subito da Natalino nel 1968, si osservi che se sul biglietto si vuol leggere Piero e non Pietro, bisogna supporre l’inverso. Cioè Stefano deve accusare Piero Mucciarini, per difendere una persona quasi omonima dai riferimenti di Natalino.
Tal cosa fa nascere il problema dell’interesse di Giovanni Mele in sé e per sé. Il biglietto resta indiziante ed in maniera gravissima per chi l’ha scritto. Ma che G. Mele si sia sentito costretto a vendere la libertà del cognato, per quella di uno che gli era ancora più prossimo, e insomma un altro correo dell’omicidio.
È questa la tesi difensiva di Mucciarini, ma è all’evidenza destituita di ogni fondamento, perché ribalta tutto quanto emerge dal 1983 in poi, nel senso che vi sia la congiura dell’intera famiglia Mele contro di lui.
Il comportamento di chi ha scritto il biglietto ha una sua logica intrinseca (si veda la contrapposizione con Teresa Mele, circa l’identità dello ‘zio Pietro’, infra capo seguente). È in sé esuberante rispetto alla necessità evidente in famiglia della difesa del Mucciarini, ed in questo è il suo valore indiziante. Ma Giovanni si muove in questa prospettiva, tant’è che ha riferito in famiglia di aver lasciato un appunto scritto al fratello (v. r. 6.2 e richiamo a 4.6).
Leggendo il nome quale Pietro, il biglietto conserva assoluta coerenza con tutte le emergenze processuali, e insomma con la storia retrostante, alla quale Mucciarini men di ogni altro può dichiararsi estraneo.

6.10 – INTERPRETAZIONE AUTENTICA

Che il biglietto miri obiettivamente a spingere Stefano nei confronti di ‘zio Pietro’, una persona diversa, quasi omonima di Mucciarini (sia o non Pietro Locci, ma lo è palesemente, come si vedrà) diviene insuperabile alla luce delle dichiarazioni, la sera stessa del sequestro (24.1.1984), di G. Mele, in corso d’interrogatorio, di cui si riportano i brani relativi.
“Adesso che faccio mente locale ho scritto il biglietto prima che, nel 1982, fosse disposto il raffronto con Vinci. Mio fratello mi aveva detto che avrebbe fatto il nome, una volta scontata la pena. Io pensavo, perciò di spingerlo a rendere testimonianza [l’imputato non ha nulla da obiettare alla contestazione che, udito poche sere prima come testimone, ha dichiarato di essersi sempre guardato dal penetrare la riservatezza del fratello, e aggiunge:] … Quanto alla prima frase, Natale aveva fatto il nome di zio Pietro. Io perciò volevo che lui si adeguasse alle dichiarazioni rese dal figlio in istruttoria [istruttoria del 1968. Gli si contesta che il bambino in istruttoria aveva parlato dello zio Piero Mucciarini, e le altre emergenze in merito dagli atti del 1968, ed egli spiega:] … La confusione tra ‘zio Piero’ e ‘zio Pietro’ fu cagionata dall’avv. Ricci [difensore di Stefano Mele nel 1968] che scambiò un nome per un altro, cosicché si disse successivamente al bambino per errore, da parte dell’avvocato di fare il nome di ‘zio Piero’ [gli si contesta che il fratello, il 16 gennaio, ritrattando le accuse contro Vinci ha dichiarato — v. retro —: “… e poi il bambino un nome lo fece, era lo zio Pietro, il fratello di Barbara”, ma G. Mele risponde:] Escludo, visto che la S.V. me lo contesta, che io intendessi con quel promemoria far capire a mio fratello che io volevo che lui accusasse Locci Pietro, fratello di Barbara… Suggerii altresì a mio fratello che avrebbe dovuto dire che aveva intenzione di fare il nome dopo scontata la pena… Quanto alla frase ‘Come risulta da esame ballistico dei colpi sparati’, questa era di mero promemoria, voleva cioè significare che mio fratello aveva detto il giusto, con il fatto che lui era presente, dal momento che aveva indicato
esattamente il numero dei colpi sparati. In altri termini io volevo dire a mio fratello che lui era stato provato colpevole e che perciò su questo fatto non c’erano problemi”.

6.11 – ALTRE DELUCIDAZIONI CIRCA IL FOGLIETTO

Dopo questa interpretazione autentica, attesocché G. Mele poi correggerà, già nell’interrogatorio successivo, il tiro sui soli punti circa i quali resta apparentemente nel vago (‘promemoria’ e ‘Pietro’ inteso come ‘Locci’), bisogna proprio che la lettura del biglietto, prima della sua cattura, sia inequivoca.
Nel biglietto, in buona sostanza, egli diceva a suo fratello in procinto di essere interrogato nuovamente circa il suo correo: 1) quanto al riferimento di Natale, devi indicare come correo Pietro Locci; 2) devi spiegare che lo accusi solo adesso, perché ti eri impegnato (con te stesso?!) a farne il nome solo dopo aver scontato la tua pena; 3) devi dimostrare di poterlo dire consapevolmente perché tu eri presente sul luogo del delitto, come dimostra il fatto che sapevi quanti colpi erano stati esplosi contro le vittime, prima che li accertasse la perizia balistica.
Il biglietto va inteso come pro-memoria, nel senso che contiene direttive ineludibili in caso di necessità e cioè che Mele sia costretto a raffrontarsi con la versione del figlio (bambino o adulto) in merito a Piero Mucciarini.
In questo caso, Mele non può dire genericamente <Pietro>, ma deve indicare di quale Pietro si tratti.
È, nel momento in cui lo dice, e proprio per poterlo dire, un assassino confesso, non un bambino confuso, di cui deve superare l’ambiguità. Stefano non può, in conclusione, non dire che ‘zio Pietro’ è lo ‘zio Locci’. Si può solo stimare che, in alternativa, sia in grado di identificare un altro Pietro, ma quale, se già nel 1968 non era riuscito di trovarlo?
La prova definitiva è nei fatti. Stefano Mele, (v. retro l’istruttoria sommaria del 6-7 settembre 1982) non si è trovato immediatamente nella necessità di dover difendere Piero Mucciarini. Ottenuta dagl’inquirenti la possibilità di parlare con il figlio adulto, avutone conto che non era in grado o non aveva intenzione di smentirlo, piuttosto che rifarsi alle sue dichiarazioni da bambino, inquinate all’epoca dai familiari (da zio Piero a zio Pietro), ha accusato Francesco Vinci.
Nel 1984, ritrattata l’accusa contro il Vinci, per difendere Mucciarini segue l’indirizzo del foglietto e ripone, per prima cosa, Pietro Locci, e non un Pietro qualsiasi, in bocca a suo figlio nel 1968 (v. retro: 16 gennaio). Ciò è accaduto 8 giorni prima che gli venisse sequestrato il manoscritto del fratello. Analogo dirottamento da Piero Mucciarini a Pietro Locci egli, su probabile indirizzo dei congiunti, aveva operato nel maggio ’69, allorché il G.I. gli diceva delle accuse del figlio contro uno zio (v. r. 6.1 e già cap. II e III).

6.12 – LE NUOVE ACCUSE DI STEFANO MELE

Su questa scorta principalmente, perché ogni altro elemento contro il Mucciarini, emergente dagli atti del 1968 acquistava senso e credibilità, allorché Stefano Mele, quel 24 gennaio 1984, dice che il cognato e lo stesso Giovanni sono stati suoi correi, la cattura di questi ultimi è inevitabile.
È necessario riportare i brani delle dichiarazioni di Mele in proposito (esc. test. vol. cit.), per intendere la pesantezza dell’accusa. Egli è chiamato a spiegare il contenuto del biglietto ed esordisce:
“Prendo visione del biglietto, sequestratomi stamani durante la perquisizione e trovato nel mio portafogli [e più avanti spiega che lo aveva in tasca anche il 16 gennaio, allorché in parte si è adeguato a quello che è scritto sul biglietto]. Il biglietto… l’ha scritto mio fratello circa un anno fa… me lo ha dato a Ronco all’Adige [in effetti, come preciserà Giovanni risale a poco più di un anno prima, fine agosto 1982, v. sopra]. — A questo punto il verbale riporta: «Si dà atto che il testefa una pausa lunga, e invitato a proseguire…» [dichiara:] Quella notte con me erano tutti e due, mio fratello Giovanni e Piero. Andammo sul luogo dell’omicidio con la macchina di Giovanni, io poi sono andato in galera, quindi sono andato a Verona e non so cosa abbiano fatto loro dell’arma”.
L’aspetto più suggestivo dell’accusa è che Mele dopo aver detto delle circostanze in cui ha ricevuto il biglietto, non ne spiega il contenuto, né perché suo fratello si sia dato da fare per indirizzare lui, che appare tacere la verità da sempre, in una direzione quantomeno sorprendente. Ma passa, dopo una pausa, all’accusa. E l’accusa in sé risolve tutta una serie di spiegazioni che si vorrebbero intorno al biglietto [è da rimarcare che, al ritrovamento del biglietto in suo possesso, Mele attribuirà un senso d’inevitabilità, per la denuncia contro il fratello ed il cognato. Lo si arguisce anche da una telefonata, in cui risponde alle accuse della sorella Maria, che lo rampogna, quando è a Ronco all’Adige; cfr.: vol. 6/C, intercett. 1984)].
Solo più tardi apparirà rilevante anche l’immediato riferimento all’arma del delitto. Stefano vuole, con l’affermazione ‘non so…’, scaricare ogni responsabilità al riguardo.
Riprenderà lo stesso atteggiamento il 2 agosto 1984, allorché sarà escusso, avvenuto l’omicidio di Vicchio. In quella circostanza ripete che gli altri, le persone che ora sta accusando, devono sapere e dire.
L’affermazione, in sé logica, appare terribilmente ambigua, dal punto di vista della ricerca della verità.
Una volta stimate inattendibili anche queste accuse, si ipotizzerà che egli possa in effetti non poter indicare presso chi cercarla, perché lui stesso sarebbe innocente. Ma questa supposizione, prescindendo da ogni argomento storico e logico, vale l’opposta che egli non dica la verità, o tutta la verità, per ragioni che superano l’affetto familiare. Quest’ultima apparirà vincente nella logica del processo, per due ragioni.
Le prima è che l’istruttoria appalesa un astio ed un distacco del Mele dal fratello e dal cognato, che fanno capire (sarà evidentissimo nel confronto) che, fuori della convenzione intorno alla morale corrente, non
ha remore affettive di alcun tipo nell’accusarli. La seconda è che, nel 1985, egli dirà cosa che non avrebbe nei voluto ammettere e che concerne i suoi rapporti con Salvatore Vinci.
Mele prosegue, spiegando che l’accordo era stato preso una settimana prima del delitto, con il fratello che allora, lavorando a Mantova, tornava a fine settimana, a casa di Antonietta. Gli aveva detto che non ce la faceva più (a sopportare i tradimenti della moglie) e che il fratello aveva preso la decisione di uccidere la moglie ed un amante sorpresi in flagrante. È significativo che effettivamente la settimana prima del delitto (era il periodo di ferragosto), G. Mele lo confermerà, aveva ricevuto la visita di suo fratello.
Rivela poi che Mucciarini prese la notte di riposo (era fornaio a Scandicci, presso il forno Buti, dalle parti di Casellina). Non sa invece se suo fratello fosse ancora a Scandicci o venisse all’uopo [sul versante degli alibi, particolarmente quello di Mucciarini, saranno poi svolti accurati accertamenti, di cui si darà cenno].
Aggiunge di averli trovati all’ora prefissata, nei pressi della macchina del fratello, sulla strada appena fuori di casa sua. E aggiunge di non saper quale vettura avesse suo fratello, spiegando: “Sono passati 16 anni”. L’ambiguità di questa risposta, poiché il suo racconto dovrà essere riscontrato al dettaglio, apre la via ad un’altra indicazione. Egli finirà per coinvolgere un altro cognato, Marcello Chiaramonti, marito di Teresa, che ora vive a Piombino, ed allora a Scandicci, a poca distanza dai Mucciarini, che allora possedeva un’autovettura, unico in famiglia.
Anche la risposta successiva è ambigua, ed egli muterà più volte versione, indicando come esecutore ora il fratello ora il cognato: “La verità è che ho sparato io. Non voglio aggravare la posizione di mio fratello. Almeno lo posso agevolare in qualche modo”. La prima affermazione è subito smentita dal senso apparente della seconda. Appare oggi pregna di cinismo, ed è il primo avviso che l’accusa non trova seri ostacoli nell’affettività. L’accusa prosegue contro il cognato: “È vero che il bambino vide il Mucciarini sul posto del delitto.
Se ha detto così, vuol dire che è vero. Mio fratello invece non lo ha visto. Dopo il delitto, gli altri due se ne tornarono con la macchina, io invece accompagnai il bambino per dirgli appunto di ricordarsi di dire che io ero malato a casa e di non fare il nome di Mucciarini”.
L’affermazione di aver accompagnato suo figlio appare in quel momento credibile. Apparirà improbabile solo nel 1985, escarcerati i congiunti. Egli l’ha fornita memore che il figlio, uscito dalla casa del Mucciarini, per il sopralluogo, il sabato successivo all’omicidio, affermò di essere stato accompagnato dal padre. E Mele ha sempre sospettato che siano stati i parenti a farglielo dire (v. retro 4.3 ss.).
Altro riscontro logico, che sarà maggiormente convalidato dall’istruttoria è nell’affermazione: “Piero e mio fratello sapevano tutto di come si comportava mia moglie, sicché avevano bene in mente i nomi di Salvatore Vinci, Francesco Vinci e gli altri.

CAPO VII

— G. MELE E P. MUCCIARINI —

7.1 – DELITTI DAL 1974 AL 1983 (com. giudiz.)

L’unico indizio, inteso come fatto noto, da cui è possibile risalire all’ignoto, a carico di G. Mele e Mucciarini, intorno agli omicidi duplici dal 1974 in poi è costituito dagli accertamenti peritali che l’arma adoperata in tutti i casi è la stessa del 1968. Venendo inquisiti per il primo dei duplici omicidi consumato con quell’arma, era un dovere di garanzia processuale (così come si era fatto per F. Vinci) dar loro avviso che si procedeva anche per quelli successivi.
Fuori di ciò, nessun elemento collega Piero Mucciarini ai delitti dal 1974 in poi. Né gli è stato mai contestato. Il mandato di cattura, ovviamente, non ne fa cenno. L’indagine, nei suoi confronti, ha avuto per oggetto meramente il duplice omicidio del 1968, anche se la sua fisionomia sembrava corrispondere a quella di un identikit diffuso dai carabinieri nel 1981, dopo il duplice omicidio di Calenzano (si trattava del guidatore di un’autovettura sportiva di colore rosso, e Mucciarini non ha la patente e non ne ha mai possedute).
I precedenti di vita e penali (cfr.: sub 7.6) non apparivano indicativi.
Quanto a G. Mele, quelli che, circa i delitti dal 1974 in poi, nel 1984 integravano il quadro indiziario, appaiono dopo il duplice delitto di Vicchio, meri sospetti.
In particolare le sue strane abitudini, delle quali si è fatto cenno nel capitolo precedente, danno un ritratto quantomeno singolare della sua personalità.
Per un verso, esse disegnavano un profilo d’autore suggestivo, che non sarebbe di per se stesso apparso rilevante, se per altro non fossero apparse sintomatiche in relazione ai fatti, e tanto non poteva essere trascurato. In particolare allarmava il suo continuo girovagare in autovettura, anche in ore serali (come lui stesso ammetterà), e uscendo, da ultimo, dopo aver eluso l’attenzione della sorella convivente (Maria). Così anche la frequentazione dei luoghi dei delitti o di luoghi che, altrimenti, ne avevano le caratteristiche. Né potevano essere trascurate la spiccata propensione alla fabbricazione ed all’uso delle armi da punta e taglio e la sua, altrimenti innocente, attitudine al lavoro d’intaglio sul sughero. Particolare attenzione verso quest’ultima era dettata anche dal tenore delle perizie medico-legali, intorno ai duplici omicidi dal 1981 in poi.
Mucciarini narra, nel corso di un interrogatorio (22 febbraio, c. 9 e 9r), che, recandosi a discutere con lui per questioni d’interesse (autunno 1983), Giovanni Mele aveva preso un coltello grande a sega, nascondendolo alla sua vista con un giornale, sul tavolo della cucina di casa sua, nella quale lo aveva poi invitato a raggiungerlo. Solo dopo la discussione, assai animata, andato via il Mele, che era riuscito a calmare, rassettando, Mucciarini aveva trovato il coltello. Ci aveva ripensato il giorno dopo e, riflettendo su quello che era successo, preoccupato, si recava dai Carabinieri, ai quali però parlava di altri episodi.
Il Mele aveva vissuto da prima del delitto duplice del 1968 in Mantova, ritornando puntualmente in territorio di Firenze ogni fine settimana. Tutti i delitti, tranne il primo, sono stati commessi di fine settimana, fino al 1983, ma non di domenica (giorno di presumibile ritorno per il lavoro di lunedì).
Un’indagine accurata sui suoi spostamenti, operata dai Carabinieri presso l’azienda, rilevava che in un solo caso, quello del 6 giugno 1981, egli risultava aver usato un biglietto ferroviario timbrato il giorno precedente per il ritorno a Mantova. Il biglietto non era vistato, la qual cosa, per la coincidenza a rovescio, allarmava maggiormente.
Da ultimo l’uomo non si era creato una propria famiglia, viveva praticamente di notte a Mantova e poche ore ogni settimana a Firenze (Scandicci). I suoi interessi, attraverso l’istruttoria, apparivano limitati alle armi da punta e taglio, al sughero, a suo dire ai funghi, ed infine alla pornografia (v. Libbra e i sequestri).
Il duplice delitto di Vicchio spazzava di colpo l’apparente univocità di tutti questi elementi, per quanto non si avesse alcuna certezza, né si ha tuttora (quali che siano gli accertamenti con elaboratore elettronico circa i tagli operati sui cadaveri femminili, dai periti di Modena), intorno dell’unicità dell’autore, dal 1974 in poi [v. più avanti 7.6].

7.2 – 1968: GLI ALIBI

Le tematiche probatorie intorno al delitto del 1968, possono raggrupparsi intorno a questi aspetti: le dichiarazioni di Stefano Mele, i mezzi per l’esecuzione del reato (Marcello Chiaramonti), il movente, gli alibi.
Procedendo inversamente, il primo tema è quello degli alibi dei due cognati, che in questa sede va dimensionato.
Quanto a G. Mele si è potuto appurare che, di norma, l’azienda di Mantova in cui lavorava rispettava un periodo di chiusura per ferie fino al 21 agosto (cfr. indagini dei carabinieri). G. Mele ha sostenuto tuttavia di essere tornato al lavoro da Firenze subito dopo, ferragosto 1968 e che aveva appreso la notizia del duplice omicidio, leggendola sui giornali (Mucciarini dice di avergli telefonato).
Le affermazioni di Giovanni Mele non erano più riscontrabili documentalmente, nel 1984, presso l’azienda (indagine dei CC. v. sopra). Sono stati fatti riscontri circa indicazioni della sorella Maria di telefonate, attraverso una vicina di casa di Antonietta Mele, ma senza risultato. Comunque il problema non è quello se Giovanni Mele fosse a Firenze in ferie, all’epoca della divulgazione della notizia del duplice omicidio (che pure i suoi congiunti affermano di aver appreso il 23 agosto), ma se potesse trovarvisi al momento del fatto, atteso che Mantova, anche nel 1968, era raggiungibile in poche ore da Firenze. Resta perciò monca e non riscontrabile solo l’indicazione relativa al periodo di probabile chiusura aziendale. G. Mele non era stato richiesto di alibi nel 1968.
Più complesso è il tema dell’alibi di Piero Mucciarini per la notte dal 21 al 22 agosto 1968. Si è appurato, documentalmente, che egli risulta al lavoro, presso il forno Buti di Scandicci, nella zona di Casellina, quella notte. Ma i compagni di lavoro, divisi in due squadre, non ricordano di averlo visto nell’una o nell’altra.
Il Mucciarini che riposava in quel mese, per lo più la notte sul mercoledì, aveva, secondo, le sue ultime dichiarazioni scambiato il suo giorno di riposo con quello di un compagno (Panicci Natale), che risultava, secondo le registrazioni, assente proprio la notte successiva (giovedì). Il Panicci, per parte sua, ha affermato che egli difficilmente si assentava dal lavoro, per ragioni di bisogno e che le registrazioni sono meramente formali (per controllo esterno del rispetto delle norme sindacali nel forno Buti) e non dicono il vero.
Si è peraltro appurato che in quella fine d’agosto 1968 è stato proprio il Mucciarini a segnare le schede di presenza poi convertite sul registro.
Mucciarini è stato interpellato sull’alibi, formalmente in c. d’Assise, e si è limitato a dire che il suo riposo cadeva di mercoledì. Nel 1984 ha affermato di non sapere in che giorno fosse stato commesso il delitto (notte sul mercoledì o sul giovedì). Il Tribunale della Libertà ha stimato che ben poteva ignorarlo.
Ciò è improbabile per due motivi. Natalino lo aveva accusato, a quanto pare (e sostiene lo stesso Mucciarini, v. tra l’altro anche l’interrogatorio già menzionato) anche in famiglia, il che imponeva una semplice verifica sul calendario. In secondo luogo nell’ultimo interrogatorio reso, Mucciarini ha dichiarato che l’alibi gli fu richiesto quasi subito dai carabinieri, ed egli avrebbe detto di essere al lavoro, perciò doveva sapere subito del rapporto tra l’alibi ed il giorno della settimana. Si è scritto in ordinanza che l’episodio appare improbabile come narrato da Mucciarini. Ma in sé l’episodio dev’essere vero, anche perché, in c. d’Assise, il m.llo Ferrero ha affermato di aver indagato circa il suo alibi.
Soffermandosi infine sulla risposta fornita dall’imputato alla richiesta di alibi, Mucciarini non ha detto al giudice né nel 1970 (c. Assise), né nel 1984 quale fosse il suo alibi e chi potesse riscontrarlo (i compagni
sul lavoro o la moglie a casa), ma solo che in un certo giorno della settimana non lavorava. Il giudice ne avrebbe dovuto desumere che era per esempio al lavoro, se il delitto si fosse verificato in un giorno diverso da quello di riposo. Senonché le deroghe al mercoledì appaiono, già documentalmente, piuttosto frequenti e il luogo del delitto non è molto distante dal luogo di lavoro di Mucciarini, non tale, insomma, da non poter essere raggiunto in un tempo nell’ordine dei minuti con qualsiasi veicolo.
Se la sua affermazione può essere apparsa sufficiente nel 1970, allorché Mucciarini non era imputato, non lo è nel 1984.
Il suo contributo alla ricostruzione del tema, pur ferme le sue proteste d’innocenza, è cresciuto man mano che si procedeva, fino all’affermazione di essere stato interpellato intorno al suo alibi, quasi subito e informalmente dai carabinieri e di aver loro detto di essere al lavoro quella notte. La qual cosa significa proprio che, in qualsiasi momento successivo, egli sarebbe stato in grado di dare almeno la stessa risposta.
Dopo l’escarcerazione del Mucciarini, giunte informalmente voci che il Panicci (la cui posizione come si è visto, appare rilevante circa l’alibi: i fatti sono assai più complessi e articolati di come sono stati sinteticamente riportati), dubitava pubblicamente della sua innocenza, l’antico compagno di lavoro veniva nuovamente escusso. Ma non si otteneva alcun elemento di novità, attribuendo egli alla sua leggerezza quanto si stimasse d’attribuire alla sua presunta consapevolezza.
Non si ha un accertamento esauriente della verità in materia di alibi, non che non si voglia credere agl’inquisiti. Non è possibile dire che tutto sommato gli alibi reggono (ordinanza del Tribunale della Libertà), quanto piuttosto che non sono sicuramente caducati. Il che, alla chiusura dell’istruttoria, significa soltanto che è un argomento inutilizzabile.
È infine da rimarcare che nel caso di G. Mele al più si poteva ipotizzare che l’alibi fosse falso. Nel caso del Mucciarini, l’eventuale falsità, per quanto si è osservato circa la documentazione scritta, fatta sulla scorta delle sue stesse annotazioni, e lo scambio formale del giorno di riposo, avrebbe condotto a ritenerlo addirittura precostituito. Tal cosa non è provata.

7.3 – IL MOVENTE

Quanto al possibile movente dei due imputati, è pian piano emerso nel corso delle indagini.
Si è innanzitutto delineato e poi acclarato non esser vero che la famiglia di S. Mele era all’oscuro dei tradimenti della Locci, come aveva sostenuto, per esempio, Antonietta Mele prima di morire.
Giovanni Mele arriva a dire, negl’interrogatori, di aver sentito parlare della Locci quale ‘ape regina’, prima del delitto, nei bar di L. a Signa.
Crea al riguardo un movente assai fantasioso a carico dei fratelli Locci, attratti come fuchi dalla regina, la cui fama dev’essere arrivata nella zona di S. Casciano. Giunti a Lastra, avendo scoperto che si tratta della
sorella, avrebbero deciso d’ucciderla. Tal cosa, peraltro è infondata, laddove si osservi che se i Locci potevano essere all’oscuro dei tradimenti della sorella, dopo che costei con il marito ed il figlio si era allontanata dalla Romola, prima per Scandicci e poi per L. a Signa, checché abbiano essi stessi interesse a dire nel processo, erano ben consapevoli della sua ‘leggerezza’.
Il quadro è rappresentato principalmente dal Mucciarini e da Maria Mele. Tutti erano consapevoli che sempre, fin dall’inizio del matrimonio, la donna aveva avuto relazioni extraconiugali. Maria Mele afferma che all’epoca suo fratello le aveva detto che taluni attribuivano il suo stesso figlio ad un Vinci (si riferisce a Salvatore, coabitante con il Mele, a Casellina, all’epoca del concepimento).
Mele lo confermerà, affermando però, che erano stati i suoi fratelli a dirglielo dopo la riapertura delle indagini negli anni ’80.
Mucciarini riporta che la Locci si era comportata male anche nel periodo in cui i tre vivevano alla Romola di S. Casciano, presso i familiari di lei (seconda tappa della famiglia di Stefano, dopo Casellina). Anzi aggiunge che il pomeriggio del 23 agosto 1968, mentre Mele era tenuto in caserma, Pietro Locci, insieme ad Antonietta Mele, gli aveva fatto visita e aveva rinfacciato al Mele che era lui stesso a portar gli uomini da sua moglie alla Romola.
Dalla Romola Stefano e famiglia erano tornati in casa del padre e con il fratello Giovanni (che però era per lo più a Mantova) in quel di Scandicci. Ma la convivenza, per il comportamento della Locci, era diventata impossibile, tanto che il vecchio Palmerio aveva sprangato le finestre. Suocero e nuora erano arrivati a vie di fatto (Maria Mele dice, il 24 marzo 1984, che la Locci aveva picchiato il vecchio Palmerio tre volte). Tal cosa era nota anche a Giovanni Vinci, il quale testimonia (già al p.m. nel 1982, v. r. 48) che la Locci si era detta insidiata dal suocero.
L’impossibile convivenza era sfociata in una decisione di Palmerio Mele, che Maria giudica rovinosa per la famiglia.
Il vecchio padre, stanco della convivenza e bisognoso di un’assistenza che la nuora non gli assicurava, aveva venduto la casa in cui abitava, a prezzo inadeguato, pur di far presto e suddividendo il ricavato tra i figli, che pure vedevano disperse maggiori aspettative patrimoniali.
Palmerio Mele andava a vivere con una delle figlie (cfr.: anche le dichiarazioni di Marcello Chiaramonti, marito di Teresa Mele).
Stefano Mele, rimasto senza abitazione, con la sua parte, comprava una casa già alluvionata e perciò assai malridotta nella primavera del ’67 a Lastra a Signa. Ancora nell’imminenza dell’omicidio, oltre un anno dopo, si proponeva di farne mettere a posto il tetto, avendo avuto circa mezzo milione di lire, che era andato a ritirare a Prato in compagnia di Mucciarini, nel giugno del ’68 (si tratta di emergenze prevalentemente di questo processo). La riparazione si sarebbe dovuta fare proprio dal Lo Bianco e da un altro muratore. Durante il loro sopralluogo in casa Mele era comparso Francesco Vinci (di qui forse la successiva discussione e scommessa al bar tra lui stesso e Lo Bianco intorno alla Locci).
È certo che del mezzo milione di lire, Mele all’epoca lavorava, non si ha più traccia dopo il delitto.
Nel borsellino della Locci sono rinvenute poche decine di migliaia di lire.
Mele dirà subito nel processo di aver prestato (v. interrogatorio del mattino del 23 agosto, cap. I) 150.000 lire a Salvatore Vinci e che altre 150.000 le aveva prestate al medesimo sua moglie.
Risulterà poi lui debitore, per titoli scaduti proprio nei giorni del delitto, di Salvatore Vinci e che forse aveva fatto un prestito, tuttavia modesto (60.000 lire a F. Vinci).
Nella sentenza della corte d’Assise, si valorizzerà l’aspetto economico come movente del delitto.
Tutto il processo del ’68 è pervaso dal sospetto che la Locci abbia speso il denaro, con il quale Mele si riprometteva cose importanti (500.000 lire corrispondevano, nel 1968, a più di quanto un manovale generico potesse portare a casa in cinque mesi), con gli amanti. La sera del delitto, per concorde affermazione dei suoi cognati, Antonio Lo Bianco non aveva un soldo (Colombo Antonino, il minore, afferma che gli aveva chiesto un prestito di un migliaio di lire). Nulla difatti gli si è trovato sul luogo del delitto, ed è palese che era stata la Locci a pagare i biglietti per il cinema.
Questo aspetto della vita coniugale di Stefano era ancor più rilevante per i familiari del Mele, che non i tradimenti da lui subiti. Mele non aveva un lavoro stabile e la moglie dilapidava quel poco che riusciva a guadagnare. Era già anziano e con un figlio bambino: le prospettive non erano delle più rassicuranti, vieppiù che il vecchio Palmerio era attaccatissimo al nipotino maschio, che forse i fratelli di Stefano giudicano spurio.
Mucciarini dice che si era recato, mesi prima del delitto, a saldare, a L. a Signa, debiti del Mele, per conto del suocero. Il negoziante gli aveva chiesto anche il saldo del conto di ‘quell’altro’ e cioè dell’uomo che viveva, in quel periodo, in casa Mele, e cioè Francesco Vinci. Tale ultima cosa era nota già durante la degenza ospedaliera di Stefano, nel febbraio 1968, a Palmerio e Maria Mele, che avevano incontrato F. Vinci in ospedale. Gli amanti della Locci erano perciò considerati in guisa di sfruttatori.
In questa luce, dopo il delitto e la sparizione del denaro dell’assicurazione, la frase di Stefano Mele, a giustificazione del delitto: ‘non ce la facevo più a mantenerla’, ha un significato economico più che affettivo. È riportata in questo processo da Mucciarini e Chiaramonti, i due cognati, recatisi in casa sua la mattina del 23 (il giorno della confessione) con Teresa Mele, moglie del secondo, divulgatasi la notizia del delitto. E qualche ora dopo Mele, presente Mucciarini (che sottoscrive il verbale) dichiara ai carabinieri che un amante della moglie, ma sostanzialmente un suo debitore è il probabile omicida. Tal cosa appare, dopo la sua confessione, inequivocabilmente come una proiezione sull’altro del proprio movente.
Il movente del duplice assassinio è economico e morale insieme. Ciò assodato, appare pienamente ed esclusivamente condivisibile, negli atti del 1984, da Stefano Mele con taluno tra i suoi familiari.
Siffatta comunione, in un certo senso, appare tradita dalle stesse dichiarazioni di Giovanni Mele a Rosalia Barranca (di cui si è detto nel capitolo precedente). Anzi in questa luce assume un significato non solo la frase che rivela l’aspettativa del delitto in Giovanni Mele (‘prima o poi a qualcuno sarebbe dovuto capitare’), ma anche l’altra che egli sarebbe arrivato sino ‘alla rovina economica’ per aiutare il fratello.
Si è, come ognun vede, fuori di riferimento al delitto a sfondo sessuale tipicizzato, benché Giovanni Mele, in questo processo, carichi d’erotismo persino incestuoso, con il riferimento all’ape regina, la valenza dell’assassinio.
Lo stesso Stefano Mele colorerà le ragioni dei familiari assunti correi con motivazioni eroticosessuali.
Mucciarini avrebbe avuto rapporti con la Locci (ed egli li avrebbe spiati: tale affermazione, per l’ambiguità della correlazione attraverso Stefano Mele, tra Mucciarini e Salvatore Vinci, assumerà un significato rivelatore solo nel 1985), ed il fratello sarebbe stato geloso di lui, perché senza una donna.
In effetti, come in ogni delitto di sangue, la carica sessuale celata o superata dal movente cosciente (se il movente è quello dianzi descritto), esiste anche in questo (peraltro a petto della freddezza dello strumento adoperato, si tratta, di due amanti uccisi in intimità, quali che siano le ragioni di ucciderli comunque), perché l’omicidio ha sempre radice in una nozione istintuale che la cultura non è riuscita ad infrenare.
Sotto altra angolazione va osservato che un movente è argomentazione di forte peso (e tale appariva nel 1984), spesso in grado di risolvere univocamente anche un modesto complesso indiziario. Anzi è accaduto non di rado che sia stato maggiormente determinante, nella coscienza dei giudici, delle stesse prove materiali.
[È il caso del delitto dei ‘fratelli Gallo in Sicilia. L’uno scomparve, lasciando sue presunte tracce di sangue dopo un litigio, e l’altro, a cagione d’un litigio per motivi d’interesse, fu condannato all’ergastolo, pur non essendo stato ritrovato il cadavere. Fu liberato solo dieci anni dopo, allorché si scoprì esser vivente in altro paese il fratello dato morto per sua mano.
Più concreti di noi, gli anglosassoni non stimano esservi omicidio senza cadavere. Tuttavia questo privilegio accordato dalla giustizia in U.S.A. alla realtà materiale, ha suggerito alla mafia un rilevante numero di cementificazioni di cadaveri].
Queste considerazioni di scuola appariranno significative alla luce degli ultimi sviluppi dell’istruttoria, allorché sull’altro piatto della bilancia (v. anche il senso delle requisitorie del p.m.) si è posto soprattutto il mancato ritrovamento della pistola.
L’ambiguità logica del movente cessa solo con l’evidenza della sua infondatezza. Di per sé il movente, lo si è già osservato per altro verso, non ha significato probatorio. Ma la prospettazione di una qualità della persona a cui lo si attribuisce, diversa da quella che si vuole condizione per il determinarsi in astratto al delitto non vale a diminuirne l’incidenza, salvo una valenza emotiva nel pensare comune intorno al delitto, che ha maggior peso di quanto si creda negli orientamenti giurisprudenziali. Lo dimostra il fatto che, pur essendo senza alcun dubbio la famiglia Mele estranea al mondo del crimine e composta da onesti lavoratori, Antonietta Mele, affermandolo prima di morire, abbia sentito nel contempo il bisogno di negare che si sapeva in casa sua, e fin troppo, della Locci prima del delitto (v. r. 4.6).
Un movente, checché pensasse un secolo fa Lombroso e pensino oggi i suoi seguaci, è proprio dell’uomo normale, anche se la sua suggestione aumenta, quando già sì fa aggio al sospettato di esser capace di farlo seguire dall’azione.

7.4 – IL BIGLIETTO E GL’IMPUTATI

Del biglietto, della sua materialità, provenienza, epoca e significato, si è già discorso ampiamente nel capitolo precedente. In questa sede resta da dire che la sua valenza probatoria appare rilevante nella luce dell’istruttoria del 1984, con riferimento ad entrambi gl’imputati.
Il biglietto indica, senza intermediazioni rappresentative, quello che è l’atteggiamento di Giovanni Mele verso il fratello e il nipote intorno alla verità di cui sono depositari. Dice anche che la posizione di Piero Mucciarini appariva, a lui stesso ed alla famiglia, gravemente compromessa già a stregua delle risultanze del 1968, per le accuse di Natalino (v. r. III).
Il biglietto ripropone, attraverso Stefano Mele, l’inquinamento allora operato nei confronti del bambino per indirizzarlo verso un quasi omonimo zio Pietro.
Le acrobazie narrative di Giovanni Mele, per dimostrare che l’originaria versione del bambino era stata invece modificata da ‘zio Pietro’ in ‘zio Piero’, ed operata dall’avv. Ricci, difensore di Mele nel 1968, o ancora dalla sua segreteria, sono smentite vuoi dalla loro intrinseca incredibilità, per la farragine e l’artificiosità del racconto, che dai riscontri esterni.
Si è già detto che dall’istruttoria emerge che il bambino fu condotto dall’avvocato (vi è un appunto del Ricci, in merito all’appuntamento da fissare, che risale sicuramente a mesi dopo il delitto, quando il bambino era già in collegio), ma tempo dopo che aveva già fatto il nome di Piero anche ai carabinieri (come narra il m.llo Ferrero poco più di un mese dopo il delitto). All’avvocato non disse nulla, ma intimorito scoppiò a piangere. La allora sua diciannovenne segretaria, Patrizia Consani, lo prese da parte e cercò di calmarlo, riuscendoci, ma senza ricavar nulla. Così ha riferito quest’ultima (l’avv. Ricci è deceduto) l’8.3.1984.
Finalmente lo stesso Mucciarini dice (v. interr. Del 22.2.1984, foglio 6r): “… io ho sempre saputo che in casa il bambino aveva fatto il nome di Piero, insomma il mio. Il babbo della Daniela sono io…”.
Anzi sospetta che lo facesse anche da adulto. Stima che le stesse pressioni della zia Maria presso il nipote, allorché gli diceva di dire di non ricordar nulla, fossero controproducenti nei suoi confronti [codesta deprecazione dell’incidenza, per contrasto, di Maria Mele sul nipote, doveva esser nota in famiglia. Maria Mele, telefonando dopo l’arresto dei congiunti, alla sorella Teresa a Piombino, afferma che le nipoti, figlie di Mucciarini, sono contro di lei — interc. ’84].
Mucciarini ha sostenuto, nonostante gli si dicesse che il ragazzo affermava ora di non ricordare, che Natale lo accusava anche dopo la riapertura delle indagini. Anzi ha affermato di non credere che il ragazzo non ricordasse cosa o chi aveva visto a 7 anni (in effetti poco meno). Con la qual cosa bisognava intendere, che se lo accusava anche da adulto (ma non era così) lo facesse per astio (ma perché?) nei suoi confronti. In effetti, poiché il biglietto tendeva a rimuovere l’accusa del bambino contro di lui, facendo pressioni sul padre e lo stesso Natale divenuto adulto, per dimostrarsene estraneo, Mucciarini non aveva altra scelta.
Analogamente, sostiene che una volta, al mare, sorprese sua moglie Antonietta e la sorella Teresa a parlare di ‘Barbara’ e zittirsi al suo sopraggiungere (Teresa Mele afferma che forse parlavano di una sua amica, che aveva lo stesso nome della Locci, ma non di quest’ultima). Mucciarini ne deduce che le donne di casa Mele ‘sanno’, così come gli ha fatto capire anche Natalino la sera della riapertura delle indagini (v. r.). I Mele sarebbero custodi di una verità a lui ignota.
Teresa Mele, lo si è visto, riferisce che il bambino aveva fatto subito ad Antonietta il nome di uno ‘zio Pietro’, non ‘Piero’, che nessuno aveva mai capito chi fosse, anche perché dava dello ‘zio’ a tutti.
Ma codesta difesa indiretta del cognato non porta lontano.
Il problema è che mentre si può porre credibilmente uno ‘zio Pietro’ qualsiasi sulle labbra di un bambino che chiama (secondo Teresa) ‘zii’ tutti gli adulti diversi da suo padre, e far accettare che oggi non ricordi chi fosse, è impensabile che suo padre, Stefano, avallando le dichiarazioni di Natale bambino, possa indicare un nome, invece di un correo.
Mucciarini sa benissimo tutto questo e fa rinvio anche a Giovanni Mele. Costui avrebbe rafforzato il suo convincimento che il nipote era tornato ad accusarlo avanti al giudice nel 1982 [ma, come si è detto nel cap. prec., G. Mele lo smentisce credibilmente. Al più, aveva fatto commenti sulla scarsa affidabilità del figlio come del padre, come lo stesso Mucciarini altrimenti riferisce].
E, per sovrappiù, riferisce anche che ai primi di settembre 1982, quando Stefano Mele è comparso a Firenze (cap. IV) convocato dal p.m. (e intanto aveva già in tasca il biglietto scritto da Giovanni), presente la Maria, fuori della stanza ove Antonietta giaceva gravissima (sarebbe morta 15 giorni dopo) lo ha redarguito, invitandolo a dire la verità, visto che Natale continua a fare il suo nome.
L’episodio è riscontrato in certa misura da Stefano e Maria Mele, ma non sul punto che egli aveva detto che Natale continuava a fare il suo nome. Più precisamente Maria Mele dichiara in merito, il 5 marzo 1984: “Piero disse a Stefano: <Deciditi a dire la verità. Lo vedi, hanno interrogato anche me.
Se tu non dici la verità mi mettono in carcere e la mia figliola rimane orfana di madre e di padre> … era arrabbiato… non ha detto invece: <tuo figlio continua a fare il mio nome>. Preciso: non si è parlato di Natalino. … Stefano ha risposto: <tu vedrai, io mi decido a dire quello che devo dire e lo dirò>”.
In effetti il Mele ha poi accusato, si è visto come (r. cap. IV), Francesco Vinci. Ritrattando nel 1984, ha fatto per prima cosa, giusto il biglietto, il nome di Pietro Locci, attribuendo al figlio di averlo indicato nel 1968. Ma subito non è stato creduto ed ha ripiegato su Cutrona. Infine, trovato il biglietto, ha accusato Piero Mucciarini oltre a suo fratello, che lo aveva scritto.
In conclusione, le preoccupazioni dei Mele per Piero Mucciarini, erano innanzitutto derivate da lui stesso. E, già in questa luce, è assai poco credibile che egli non sapesse dell’iniziativa di Giovanni intorno al biglietto (vieppiù che, come si è visto, Giovanni dopo averlo scritto, ne aveva parlato in casa, v. già cap. IV e cap. VI). Ed è maggiormente incredibile che, sapendone, potesse supporre che suo cognato Giovanni aveva spinto l’altro cognato Stefano ad accusarlo, per bocca del nipote.”

7.5 – SEGUE: LA LETTURA DI P. MUCCIARINI

Se anche avesse potuto pensarlo prima del suo arresto (ma non era universalmente noto che Mele aveva accusato F. Vinci?), non poteva ritenerlo ancora, una volta avuto pieno conto e del biglietto e delle dichiarazioni di chi lo aveva scritto oltre che lui, in cui difesa il giudice stimava essere stato compilato.
Ne fa fede l’inverosimile interrogatorio (citato) del 22 febbraio 1984, nel quale il biglietto viene minuziosamente letto, e analizzato parola per parola dallo stesso Mucciarini.
Egli afferma: “La mia opinione è che… Stefano Mele abbia detto in parte la verità… è manovrato. I fatti oggi mi fanno dire che sia stato Giovanni Mele a manovrarlo… contro di me”.
Invitato a leggere il biglietto, non si sposta dalla sua posizione, e saggia lui il giudice che lo interroga: “… vedendo un Pieto… non mi viene… Non so ora… Io penso un riferimento alla mia persona… — L’ufficio invita a pensare se non ricordi qualcun altro il cui nome possa essere richiamato dal termine PIETO — Che voglia riferirsi a Pietro Locci?… Qui è un nome sbandato… Io penso che Pietro Locci se voleva fare una cosa non si sarebbe mischiato con Giovanni… credo… D.R. Voglio dire che Pietro Locci il delitto lo avrebbe fatto da sé. Sono due famiglie distinte. Lo avrebbe fatto da sé. D.R… Oggi si vede delle cose che non ci si può meravigliare di nulla… come convincimento mio, Pietro Locci non lo fo’ capace di fare questo delitto… Poi nella vita si vedono cose…”
Una volta stabilito che il biglietto indica (e ha ribadito lo stesso Giovanni Mele) Pietro Locci, ed aver affermato ancora: “Giovanni vuole coinvolgermi me”, facendogli l’ufficio osservare che se il biglietto indica Pietro Locci non può coinvolgere lui, dichiara: “Lei pensa che faceva per scagionare me?” — L’ufficio: “Cosa pensa Lei?” — E Mucciarini, costretto a tirare le conclusioni: “…Questo è stato scritto nel 1982?” — l’ufficio: “Sì” — “…Questo sarebbe un fatto di scagionamento a me.
Questa è la mia opinione… Questo per quello che posso capire… Le certezze non esistono”.
E non avrebbe potuto dire diversamente. Il biglietto era stato scritto, viva ancora sua moglie, un anno prima del litigio con Giovanni, litigio cui si era appigliato per sostenere che il biglietto accusasse lui. Giovanni Mele, a riprova spiega il 6 aprile 1984: “se io mi sono interessato di Piero Mucciarini, è stato soltanto perché mia sorella che ora è morta, me lo ha chiesto”. Senonché, Mucciarini, più avanti, nel corso delle stesso interrogatorio, torna sui suoi passi (D.R.):  “In sintesi, dopo tutto questo discorso, io sono convinto che il bigliettino sia un’accusa nei miei confronti”. D.R.: “Escludo che quando Giovanni mi disse che Natalino continuava a fare il mio nome (si dà per ammesso quanto affermato, ma non ritenuto, per verificare dall’interno la coerenza della difesa), io gli abbia suggerito di porvi rimedio”.
È accaduto che, dopo la sua lettura del biglietto, e la constatazione che esso indirizza contro Pietro e non Piero, apparsa troppo faticosa e studiata (v. per es. la domanda al giudice) per essere sincera, l’esame del biglietto è proseguito. Dal tenore delle domande e delle risposte, Mucciarini ha inteso che l’indagine si sta orientando verso l’ipotesi che egli fosse in accordo con Giovanni se non per la stesura materiale del biglietto, per l’indirizzo da dare a Stefano (peraltro, l’episodio citato del suo incontro con quest’ultimo, ne è conferma). Tal cosa lo ha preoccupato.
L’interrogatorio ha poi subito una breve pausa per la cena e Mucciarini ha riflettuto e deciso di tornare sui suoi passi.
Ma la sua nuova affermazione che Giovanni ha scritto il biglietto contro di lui è apparsa stavolta apodittica e inaccettabile. E la contestazione del suo rapporto con l’indirizzo nei confronti di Stefano, a mezzo di Giovanni Mele, è divenuta esplicita, per via della sua contraddizione intorno alla presunta affermazione di Giovanni.
Mucciarini si rende ora conto che quello che gli costa la galera non è la sua difesa, implicita nel biglietto, quanto l’accusa esplicita contro Pietro Locci. Essa avvalora oltre il pensabile le dichiarazioni del bambino contro di lui nel 1968, vieppiù che Stefano ha accusato anche suo
fratello, autore del biglietto.
Per questa ragione arriva a sostenere un vero e proprio complotto ordito, peraltro sotto i suoi occhi, dai suoi congiunti (v. suoi riferimenti a ciascuno nel paragrafo precedente). È poco credibile vieppiù che egli pretendeva esplicitamente da Natalino e poi da Stefano, e in accordo con sua moglie sul letto di morte, la proclamazione d’innocenza. Percepisce pienamente che se è comprensibile il bisogno di allontanare i sospetti da lui, appare eccessiva l’esplicita influenza, esercitata su Stefano Mele contro Pietro Locci, per la sua mera difesa.
Giovanni Mele non arriverà mai a capirlo, e sosterrà la credibilità dell’ormai scoperto inquinamento del ’68, anche di fronte a minutissime contestazioni sul punto. Cambierà versione più volte, dall’aver indirettamente appreso dal fratello che i complici sono i cognati da parte Locci, sino a dire che erano state le sorelle a riferirgli che il bambino aveva fatto il nome di zio Pietro (e non Piero) in casa. Ma non ammetterà mai che la sua iniziativa, risoltasi nell’indirizzo contro Pietro Locci, è rivolta alla mera difesa di Mucciarini, sulla linea dell’inquinamento operato in famiglia nei confronti di Natalino nel 1968 e per l’impegno assunto con la sorella in punto di morte.
Quando si perviene (15 giugno 1984) al confronto tra i due, si assiste ad una scena paradossale. Giovanni spiega di aver scritto sul biglietto ‘Pieto’, volendo dire Pietro, e che Mucciarini non c’entrava per niente, perché si riferiva a Pietro Locci non a lui.
P. Mucciarini interloquisce: “ma Natalino fece il mio nome”. G.: “Dopo. All’inizio aveva fatto il nome di zio Pietro”. Io l’ho saputo dalle mie sorelle, dopo lo hanno fatto confondere”. P.: “Mah, sarà come dici tu. A me risulta che Natalino disse ‘zio Piero’, il padre della Daniela. Padre della Daniela sono io”.
Il dialogo vien ripetuto con maggiori precisazioni, e ciascuno insiste sulla sua posizione, finché Mucciarini sbotta: “Tu conosci come stanno le cose. Tu cerchi d’implicarmi. Adesso dici che è Pietro Locci”. La cosa va ancora avanti per un po’.
Finalmente Mucciarini rimprovera a Giovanni Mele di aver scritto il biglietto e questi gli ripete che lui Piero è innocente, e insomma che tutti in famiglia sapevano che Natalino aveva accusato l’altro zio quasi omonimo, tranne lui a quanto pare…
In questa luce, salvo giungere al paradosso di stimare che artatamente i familiari e la sua stessa moglie avessero fatto credere a Mucciarini (ed egli se ne sarebbe maggiormente convinto, anche per diretta esperienza) che Natalino accusava lui da fanciullo e da adulto, laddove invece accusava altri, si concludeva che il biglietto era una completa montatura per difenderlo oltre la verità della sua colpevolezza.
Solo Mucciarini avrebbe potuto, a questo punto, risolvere il problema della sua innocenza, proprio principiando ad ammettere che l’errore dell’indirizzo dato a Stefano (ed a Natalino) con il biglietto non era solo di Giovanni, ma anche suo, quale che fosse stata l’iniziativa dell’altro di metterlo per iscritto. La logica dell’inquisizione, difatti, non ha alternative alla resa dell’imputato che, solo accettando l’evidenza, può spezzarne la coerenza apparente degli altri indizi. Rifiutando il sacrificio di una posizione insostenibile che è a monte del problema, non si può difatti entrare in esso a discuterlo, e l’accusa segue incontrastata la sua logica.
Egli avrebbe dovuto spiegare, visto che Giovanni Mele non ne era capace, perché nel 1982, se era veramente innocente, e dunque ignaro di quanto sapesse Mele, non si era scelta la strada più semplice di fargli dire di non voler parlare, o ancora di essere innocente (e perciò all’oscuro della verità), avvalorando la premessa dei magistrati che parlavano di revisione (lui stesso, Mucciarini — v. par. prec. — aveva esercitato pressioni sul Mele e, a suo dire, per proprio esplicito tornaconto, esattamente come nel biglietto, e per le stesse ragioni).
Appariva bensì possibile che la paura lo inibisse dal modificare la sua linea di difesa nel senso della verità. Ma era difficile ritenerlo, vistocché non sembrava che si fosse sino a quel momento, ed a partire dall’apparizione di Natalino alla casa di De Felice, e dalle accuse di Mele contro Salvatore Vinci (mattina del 23 agosto 1968), che Mucciarini aveva controfirmate, a passare per ‘Salvatore tra le canne’, alla metamorfosi del nome Piero in Pietro, e così via, adoperato altro strumento che la menzogna.
E quand’anche si potesse intuitivamente, dopo il delitto di Vicchio, stimare allo stato delle indagini scemati in parte gl’indizi (ma non oggettivamente rispetto al delitto del 1968, salvo quanto si dirà nel paragrafo successivo), come pensare che chi aveva gestito l’orrendo segreto di Stefano Mele non ne fosse a parte, con le implicazioni di morte che ciò continuava a comportare?

7.6 – MEZZI DI ESECUZIONE: MARCELLO CHIARAMONTI

Se era facile supporre, una volta che l’aveva fatto, quali ragioni avessero determinato Stefano Mele a nascondere la correità del fratello e del cognato, era più difficile capire se ed in che misura mentisse.
La prima deposizione di Mele non scorre limpida, come quella di un uomo che si è finalmente liberato del peso della verità. È tuttavia vero che non ci si poteva attendere un’accusa del tutto lucida, dall’uomo ormai anziano, di scarsissima cultura, di assai modesta capacità di raziocinio, ma nient’affatto stupido. Si metteva anche in conto il peso dell’emotività, a cagione del rapporto con gli accusati.
Così le affermazioni del racconto che riguardavano lo sparatore e la posizione di ciascuno sul luogo del reato, attese anche le incertezze delle precedenti ricostruzioni, non allarmavano particolarmente e non venivano valorizzate più che tanto.
Nell’escussione (v. r.: il giorno della perquisizione) del 24 gennaio, a domanda del p.m., dichiara: “A me la paraffina risultò positiva, dunque ho sparato io. La S.V. mi fa rilevare che secondo la legge è indifferente ai fini della responsabilità chi abbia sparato. È vero, ma a distanza di tanti anni non potreste trovare tracce sulle mani degli altri due. Tuttavia è stato Mucciarini. NO, NON È VERO. La verità è che è stato mio fratello a sparare. Poi mi fu messa in mano la pistola. Qualche colpo ho sparato anch’io, ma non ricordo quanti colpi ho sparato se prima o dopo. Sono passati 15 anni. Gli restituii subito l’arma”.
Il brano, indubbiamente, per chi non conosca Mele, o non abbia letto sue precedenti dichiarazioni, non genera molto affidamento. In via generale, deve osservarsi che la fedeltà della trascrizione, non fa grazia a Mele neanche delle sue incertezze emotive e, dopotutto, non sta parlando del furto di un’autoradio, ma implica in un delitto terribile, con tutto quello che ne è seguito, i suoi più prossimi collaterali. Ed egli si rende ben conto che chi ha un rapporto di maggior prossimità all’arma viene maggiormente indiziato anche dei delitti successivi (sarà lui stesso a riferire in una successiva testimonianza, degli atteggiamenti sospetti del fratello, che fa scenate per una coppia in istrada e li narra anche al figlio).
Va perciò detto che, conformemente ad esperienza, l’affannoso approssimarsi, anche attraverso versioni contrastanti a quella definitiva, non è di per sé particolarmente sintomatico di mendacio, e può anzi suggestionare in senso positivo.
Nella specie si riscontra una naturale e progressiva disinibizione, se studiata, decisamente diabolica.
Nel complesso la versione di Mele appariva attendibile, prima che l’istruttoria ponesse in luce alcuni rilevanti interrogativi intorno ad altri aspetti materiali e circostanziali del reato.
Erano, peraltro, gli stessi inquisiti a valorizzarne per contrasto le accuse. Giovanni Mele le riversava su Pietro e poi anche Giovanni Locci, creando un parallelismo nominale e di correlazione che appariva di per sé gratuito. Mucciarini accettava parzialmente le indicazioni di Mele, limitandosi a respingerle per quanto lo riguardava. Ciò sarebbe stato sufficiente, se egli non avesse mirato a distanziarsi anche da Giovanni Mele che aveva scritto il biglietto. Finalmente Mucciarini stesso apriva ampi squarci nel velo del movente (v. par. 7.3 r.).
L’incrinamento della versione di Mele si appalesava, innanzitutto con riferimento ai mezzi adoperati. Circa la pistola (v. anche capo prec.) si limitava a dire che di essa non si era occupata e non aveva contribuito al suo acquisto.
Quanto al veicolo aveva indicato l’automobile del fratello. Giovanni Mele ne possedeva una, sin dai primi anni 70. Ma non poteva trattarsi di quella. E non ne aveva possedute altre prima. Ciò non esclude, in via di mera ipotesi, che potesse procurarne.
Il primo a porre il problema è stato Mucciarini.
Il 27 gennaio 1984 dichiara: “In questi giorni mi sono posto il problema del veicolo. Stefano dice che si andò a commettere il delitto con la vettura, ma nessuno di noi tre aveva la vettura e la patente.
Perciò due sono le cose: ragioniamo o vi era uno al mio posto o vi era una persona che guidava la macchina”. D.R.: “Non saprei dire se amici o parenti. L’altro mio cognato che allora aveva 25 anni all’incirca, era un giovane molto serio, che aveva lavorato con Giovanni, alla segnaletica del Giuntini, aveva macchina e patente e precisamente una Prinz N.S.U. — Io credo che Giovanni avesse più confidenza con lui che con me che ero un ubriacone. Però Marcello non lo farei capace”.
Va detto a questo punto che Mucciarini ha molto insistito sul suo vizio di bere. Egli principia l’interrogatorio, a cui qui si fa riferimento, affermando di capire benissimo le ragioni per cui è stato arrestato, che, tuttavia, all’epoca dei fatti era un ubriacone e non si sarebbero fidati di lui.
In effetti risulta che nel 1968, in ottobre e insomma due mesi dopo il duplice omicidio, abbandonò il forno Buti, per un altro, e si diede al bere. Condusse avanti il vizio per un decennio, andando anche in cure psichiatriche e arrivando sull’orlo della separazione dalla moglie. Finalmente sul finire del decennio 70 smise. Risulta altresì che ha un precedente per rapina, nell’immediato dopoguerra, che pare tuttavia, e in quei tempi, un errore di gioventù. A riparare i danni di giustizia avrebbe provveduto il suocero Palmerio Mele, che aveva assai stima di lui. Gli affidava, lo si è visto, l’incombenza di andare a pagare per suo conto i debiti della famiglia di Stefano.
È sintomatico che Mucciarini si prospetti sin da questo interrogatorio quasi in veste di collaboratore di giustizia (qualità che ha rivendicato anche con riferimento alle indagini dei Carabinieri nel 1968). Egli offre spunti alternativi alla sua presunta responsabilità, per la ricerca, ponendo a suo tempo quesiti attraverso le risposte, e offrendo oltrecché fatti, una difesa estremamente ragionata ed argomentata.
Sulla scorta di questa indicazione di Mucciarini, l’inquisizione ritorna su Stefano ed egli dichiara, ancora nei limiti astratti di credibilità, senza indicazioni o sollecitazioni, che in effetti era stata adoperata l’autovettura di Marcello Chiaramonti, l’altro cognato, marito di Teresa Mele. Spiegava anzi che era presente anche lui e che non ne aveva voluto parlare prima, per tenerle fuori.
Marcello Chiaramonti, intanto già udito quale teste, si è difeso con tutta l’onestà e la limpidezza che gli ha concesso l’essere inquisito per un delitto gravissimo, libero e con la paura di perdere la libertà.
Mancando riscontri di carattere materiale o comunque esterni contro di lui, a parte alcuni aspetti marginali (come e quando per esempio aveva appreso la notizia del delitto) o di difficile interpretazione.
Tra questi ultimi è la sua comparsa (non di per se stessa, ovviamente, ma per quanto è successo dopo) in casa di Stefano Mele, con la moglie ed il cognato Mucciarini, la mattina del giorno della confessione e dell’arresto di lui. In merito ha riferito, analogamente a Mucciarini e, diversamente da sua moglie Teresa (v. r. cap. IV) che, giuntivi, trovavano il Mele piangente ed alle loro domande circa l’accaduto, egli avrebbe risposto che non ce la faceva più a ‘mantenere’ la moglie uccisa. Si comunicava anche a lui l’ipotesi che avesse esercitato influenza sul bambino che, preparato a tacere la notte del delitto dal padre presente, o più probabilmente da chi lo accompagnava alla casa di De Felice, due giorni dopo mutava indirizzo. Non solo dava presente il padre, la qual cosa è riscontrata, ma suo accompagnatore, il che appare quantomeno dubbio (v. r. capo III).
Di difficile valutazione erano alcune sue dichiarazioni, per esempio circa il fatto che, appresa la notizia dell’arresto dei cognati si era recato dal suo superiore in fabbrica a Piombino a cautelarsi per l’assenza in relazione ad un suo eventuale arresto.
Analogamente, era difficile intendere la ragione della diversità di versioni tra lui e la moglie Teresa, oltre a quanto detto da Stefano al loro comparire in casa sua (Teresa Mele riferisce che Stefano si dava innocente, ma affermava che sarebbe finito alle Murate — 4.7), anche in ordine alle affermazioni fatte dal bambino in casa ad Antonietta Mele circa lo zio Pietro. Chiaramonti dichiarava di non averne sentito dalla moglie all’epoca dei fatti e di averlo appreso da lei solo recentemente.
La posizione di Chiaramonti apriva in se stessa il problema della validità intrinseca delle dichiarazioni di Stefano Mele. Vale a dire che ne poneva indirettamente in luce motivi di dissenso e di disamoramento per la sua famiglia.
Per quanto concerne Chiaramonti, prescindendo dalle ragioni offerte per giustificare di aver taciuto nei suoi confronti, non emergevano rapporti di una qualche intensità, come nel caso del fratello e di Mucciarini, che lasciassero pensare ad una rimozione troppo forte, quanto ad una sostanziale indifferenza per la sua sorte.

7.7 – LE DICHIARAZIONI DI STEFANO MELE

Le ragioni indicate divenivano ancor più evidenti alla data dei confronti (11 maggio 1984) con suo fratello e Mucciarini. Essi non apportavano alcun reale nuovo contributo. E si risolvevano, tra l’altro, in pretesi riconoscimenti di meriti acquisiti da ciascuno degli accusati verso il congiunto e, reciprocamente, in accuse da parte sua anche del tutto estranee ai fatti e legate a motivi di affettività tradita.
Mele, che si era sentito rifiutato dalla famiglia, scaricava su di essa il suo rancore.
Ciò, indubbiamente, dava adito a perplessità. Ma le accuse contro i cognati erano solo un aspetto del quadro indiziario.
Si è detto, nell’ordinanza di diniego dell’escarcerazione che, nei loro confronti, non pesavano tanto le sue dichiarazioni, quanto il fatto che, essendo egli stato partecipe del duplice omicidio e perciò detentore della verità, ne avevano disposto come se fosse anche loro.
Con ciò si ipotizzava la necessità di indagare ancora intorno agli aspetti non rassicuranti della sua versione, relativi ai mezzi di esecuzione del reato.
Tra l’altro, nelle sue ultime dichiarazioni del 2 agosto 1984, Mele (dopo il delitto di Vicchio), nelle quali (v. cap. II), dopo aver tentato di estraniarsi, ma invano, dai fatti del ’68, ribadiva le accuse contro i congiunti, significando che dovevan saper loro della sorte dell’arma.
Venivano intese innanzitutto nel senso letterale che egli non poteva sapere ciò che era accaduto dopo il suo arresto. Si supponeva altresì che esse potessero significare l’esistenza di un ‘pactum ad excludendum’ in favore di taluno che Mele non poteva o voleva nominare (e si davano indicazioni alla P.G., perché si indagasse ancora in direzione di congiunti o amici degli imputati, oltrecché dello stesso Mele all’epoca dei fatti), per accordo con i congiunti. E le altre emergenze a loro carico, circa le influenze esercitate nei confronti suoi e di suo figlio, quand’anche li si stimasse indiziati in minor misura (v. quanto detto sopra circa il ‘biglietto’) lo lasciavano supporre.
Successivamente, prendendo le mosse da una pagina tralasciata dell’istruttoria del gennaio 1984, si profilava un nuovo e diverso movente di Mele per il duplice delitto del ’68 e per la sua reticenza.
Codeste ragioni, poi riscontrate, facevano ulteriormente scemare gl’indizi a carico dei congiunti.

CAPO VIII

— 1985 —

8.1 – LA PAGINA TRALASCIATA

La pagina riguardava Salvatore Vinci.
Si è già osservato che, ritrattando le accuse contro Francesco Vinci, il 16 gennaio 1984, ad un certo punto Mele faceva il nome di suo fratello Salvatore.
Si riporta qui di seguito il brano relativo (par. 5.8, ma v. anche 4.3 e 5.7), per migliore intendimento:
«Inopinatamente, passa a parlare di Salvatore Vinci: “Però è vero che a Salvatore Vinci della pistola di Francesco glielo avevo detto io [allude al fatto che, nel 1968, dopo aver ritrattato l’accusa nei confronti di Salvatore Vinci, egli aveva chiesto che si facessero riscontri presso quest’ultimo delle accuse da lui trasferite nei confronti di Francesco, la qual cosa lasciava supporre che di quest’ultimo avessero discorso insieme, prima del delitto, come dimostrano anche altri elementi, di cui si è detto]. Anche Salvatore era un poco di buono. In Sardegna la moglie gli morì con il gas, ma anche lì fu salvato il bambino. [la gravità di queste allusioni inattese, lascia perplesso chi lo ascolta e Mele prosegue]. No, non voglio dire niente contro Salvatore. Non c’è nessuna allusione. Salvatore Vinci aveva la macchina a quattro ruote”».
Nel discorso di Mele sono presenti tre punti di riferimento.
Uno riguarda un discorso tra lui e Salvatore precedente il delitto, intorno a Francesco, il fratello, e di fatto rivale a cagione della Locci, del suo interlocutore. Il discorso aveva per oggetto, a quanto si è già rilevato (v. cap. II, IV e V), i due elementi chiave di quella che sarà poi l’accusa del 24 agosto 1968 contro F. Vinci: la pistola e la minacciosa gelosia.
Circa la pistola, si è osservato che Mele, riproponendo le accuse contro Francesco, già nell’atto che precede la ripresa delle indagini (l’escussione operata dal g.i. il 27 luglio 1982) per prima cosa si riportava alla stessa fonte di Salvatore Vinci nel 1968, e cioè Vitalia, moglie gelosa di Francesco. Il g.i. aveva allora domandato al Mele (che si professava estraneo al duplice omicidio, dicendo di aver appreso dal figlio che Francesco ne fosse l’autore — v. loc. cit.) se non avesse conoscenze dirette in merito all’arma del Vinci.
Mele, nel 1984, afferma di essere stato lui stesso a dire a Salvatore Vinci della pistola detenuta da suo fratello (cosa non improbabile, visto quanto si è rilevato nel cap. IV; ma non si tratta dell’arma del delitto). Intanto Salvatore, per parte sua, dal 1982 mostrava scarsa memoria di quanto aveva riferito a carico di suo fratello, in merito al possesso di pistola.
Il secondo riferimento di Mele concerne una vicenda di Salvatore Vinci, risalente al 1960, effettivamente accaduta, fuori delle allusioni, nei termini indicati. Di essa egli aveva già detto nel primo interrogatorio in cui lo accusava, presente Mucciarini, la mattina del 23 agosto 1968. Anzi allora (v. r. 2.3) affermava, senza mezzi termini, che Salvatore ‘aveva ucciso la moglie’. La vicenda, in effetti, ha strane analogie con il delitto duplice di Signa.
Rileggendo le dichiarazioni del 1968, ponendo mente alla successiva evoluzione di Mele (che poi confessa il delitto e chiama direttamente in correità Salvatore), e alla presenza di Mucciarini all’interrogatorio, si profila un’altra ipotesi di lavoro (alternativa a quelle indicate nell’ultimo par. del capo prec.).
Mucciarini potrebbe aver appreso la verità da Mele, la mattina in cui si recava in casa sua con i cognati Teresa e Marcello Chiaramonti. Convintosene, avrebbe indotto Mele a dirla (almeno in parte, cfr.: Ferrero in Assise, cap. II). Di qui vuoi l’indirizzo dato a Natalino (che dopo il delitto aveva taciuto il nome di chi aveva visto), di chiamare in causa suo padre, già il 24 agosto successivo, vuoi quello che il bambino esplicitamente gli attribuiva, di dire “di aver visto Salvatore tra le canne” (cfr. n. 3.2 e 3.7 e capo VII).
Da ultimo Mele fa cenno, con palese ironia (si rilegga la frase) alla vettura posseduta dal Vinci, la qual cosa riporta immediatamente alla sostanziale rispondenza, sotto questo ed altri aspetti, del suo primo racconto confessorio (v. r. capi II e IV-V a proposito di veicoli diversi attribuiti a Francesco Vinci ai dati obiettivi emergenti dalle indagini. E apre una prospettiva in favore di coloro che ha precedentemente accusati anche a cagione dei veicoli rispettivamente posseduti.

8.2 – AMBIGUITÀ

Codesti elementi di per se stessi non significavano nulla di nuovo, anche se il riproporli ed in una sintesi assai efficace, offriva una quota di probabilità ad un’ipotesi già esclusa nel 1968, e tuttavia da verificarsi, riprese le indagini intorno al primo duplice omicidio. I riferimenti di Mele indicavano un percorso, a suo parere abbandonato dal magistrato, per seguire un veicolo a due ruote (quello che aveva Francesco, sino a quel momento perseguito quale suo complice) mentre era Salvatore ad avere l’automobile e cioè il veicolo realmente impiegato per commettere il delitto.
Quel percorso, dopo le indagini del 1984, appariva ineludibile, secondo lo svolgimento dell’istruzione, in base agli elementi raccolti (art. 299 CPP), e maggiormente in quanto fungeva da riscontro d’innocenza di persona già inquisita (Mucciarini e, di seguito G. Mele).
Il discorso di Mele con Salvatore prima del delitto era il profilo maggiormente allarmante di questo quadro sintomatico.
Un parlare tra i due, prima del delitto, è inequivocabilmente presupposto, nel secondo interrogatorio reso al magistrato il 24 agosto 1968, dallo stesso Mele che, ritrattando le accuse contro Salvatore e riversandole sul fratello Francesco, giungeva a chieder dal primo indiretta conferma intorno alla pistola e la minacciosa gelosia del secondo. Si badi che, in quella circostanza, Mele affermava che Francesco custodiva l’arma in un posto che non conosceva neppure Vitalia sua moglie.
Salvatore, interpellato subito dopo dal magistrato, sosteneva che era stata Vitalia a supporre che la detenesse, avendo il marito minacciato di ucciderla e lui a pensare di cercarla nel motoveicolo del fratello, senza trovarla.
Stando a questo racconto di Salvatore, Francesco aveva minacciato sia la moglie (che sapeva avesse una pistola) che l’amante. Nello stesso verbale del 24.8.68, aggiunge che Francesco aveva seguito la sua vettura con la Locci a bordo mentre si recavano a Firenze, e la donna gli aveva riferito del timore d’esserne uccisa: decisamente abbastanza per un ritratto dell’omicida. Il primo profilo d’autore tracciato in questa indagine è quello disegnato da Salvatore avendo per modello suo fratello. Come si vede, non si è molto lontani dal Mele del 1984.
Tornando al Mele del l968, è stato lui per prima a parlare di Vitalia, seppur non come fonte d’informazione. Nel 1982, 27 luglio, atto di cui si è detto più volte, Mele per prima cosa dirà invece di aver appreso da Vitalia (ma non era invece nel ’68 la fonte di Salvatore?) che Francesco aveva un’arma.
Solo a domanda del magistrato che ha percepito l’aporia (v. r. 4.3), risponderà di averlo anche saputo dallo stesso Francesco (come aveva detto all’inizio già il 22 agosto, prima di accusare direttamente chicchessia e di confessare, e insonne prima che entrasse in giuoco, nelle indagini, Salvatore v. 2.1).
È interessante anche ricostruire l’ordine di questo dialogo a distanza, concernente cose che i due si erano già detti, intorno a Francesco, prima del delitto, attraverso gli atti compiuti dal magistrato quel 24 agosto:
1) interrogatorio di Mele — che conferma la confessione resa ai Carabinieri il giorno prima, e la chiamata in correità di Salvatore, per denaro e gelosia —; 2) escussione di Salvatore — che nega le accuse, lasciando capire che l’uomo giusto può essere il fratello; 3) nuovo interrogatorio di Mele — che ritratta, accusa Francesco e chiede riscontro presso Salvatore; 4) escussione di Salvatore — che ribadisce i punti chiave: pistola e gelosia minacciosa del fratello.
Il discorso, in buona sostanza, vagliava proprio l’ipotesi di un delitto nei confronti della Locci da parte di Francesco. Una volta uccisa la donna, esso diviene un punto di riferimento tra i due. Salvatore lancia il primo segnale, Stefano intende al balzo, ritratta, dà il cenno di Vitalia e lo chiama a conferma. Salvatore riscontra e così esclude la propria responsabilità. Stefano, pur continuando ad ammettere il delitto, riduce la propria, trasformandosi, grazie all’aiuto di Salvatore, da primo attore in comprimario, posizione mai più abbandonata.
Era in ciò, tuttavia, da valutare l’ambiguità di Mele. Costui poteva addirittura aver fatto conto di accusare Francesco, dopo la commissione del delitto, rifacendosi a discorsi con Salvatore, non osando farlo direttamente o da solo. In questo caso è palese che il suo correo (o i correi) sarebbe altri che non Salvatore Vinci. Ed egli avrebbe giuocato la sua impunità, in tutto o in parte, proprio sulla possibilità di accusare entrambi i fratelli, ponendoli l’uno contro l’altro. Difatti, nel corso di interrogatorio reso al g.i. nel 1969, asseriva di averli accusati entrambi, perché si può dire che ‘gli trombassero la moglie sotto gli occhi’ (v. r. 2.8).
Dopo l’esperienza del 1984, ci si doveva domandare se le sue accuse non fossero frutto del carico d’odio o di cinismo che aveva accumulato contro tutto e tutti, per la sua vicenda umana. A cagione dei tradimenti e delle umiliazioni subite, palesemente si sentiva vittima e non offensore.
Sul fronte opposto, l’ambiguità era accresciuta da altri due singolari episodi che davano conto del singolare rapporto tra Mele e Salvatore Vinci.
Al termine del menzionato interrogatorio del 24 agosto del 1968, nel quale Mele trasferisce nei confronti di Francesco le accuse, già rivolte contro Salvatore che chiama, incredibilmente a riscontro, Mele chiede che quest’ultimo, presente alle Murate, sia introdotto alla sua presenza.
Giunto Salvatore, egli ‘prorompendo in singhiozzi, chiede perdono per il male che può avergli fatto’ (trattamento mai più usato ad altri r. 2.9).
In corte d’Assise nel 1970, Salvatore, che è parte offesa di calunnia, reca al dito l’anello di fidanzamento della donna uccisa.
Salvatore prima afferma di aver avuto l’anello dal Mele, a saldo di questioni di denaro, per lavoro fatto insieme al Mele, che lo aveva riscosso tutto, senza dargli la sua parte.
Dinanzi alla contestazione diretta di Mele, di avergli già mostrato l’anello sul posto di lavoro, affermando di averlo avuto dalla Locci, Salvatore lo ammette. Solo insiste nel dire che è stata una ricompensa, per denaro che avrebbe dovuto avere dal Mele.
Colpisce che Salvatore Vinci non si sia dato conto dell’inopportunità di portare al dito quell’anello, quale che fosse la ragione per cui lo aveva avuto dalla moglie, con il consenso o la ratifica del marito. In quell’aula in cui Mele veniva giudicato per aver ucciso la donna ed il suo ultimo amante, e per aver attribuito a lui, Salvatore, prima che ad altri, di aver preso parte all’assassinio per gelosia e per denaro.
Bisogna che stimasse di aver nei confronti di Stefano Mele, sospeso ad una sentenza, che ne avrebbe disegnato il passato, di cui Salvatore era parte rilevante, e deciso il futuro, in cui questa sua parte sarebbe stata rimuginata insieme alle altre con amarezza, un ascendente che i fatti accaduti non facevano scemare.

8.3 – CAUSA DELL’AMBIGUITÀ

Un altro dato acquisito nel processo gettava una luce allarmante intorno alla possibile verità.
Teresa Mele aveva detto, fin dal 1982 al p.m. (v. r. 4.7 circa l’atto, reso il 21 agosto) di aver sentito delle voci secondo le quali, la cognata Barbara ‘vantava’ in giro che Natalino non era figlio di Stefano, bensì del Vinci (non sapeva quale; n.d.s.: non poteva trattarsi di Francesco, all’epoca ancora in Sardegna). Alle voci non si può dare alcun credito. Senonché Stefano ha affermato (30 maggio 85) che i suoi fratelli gli dicevano che Natalino era figlio di Salvatore (quello tra i Vinci che, all’epoca del concepimento, era con lui convivente). Maria Mele ha detto invece che era stato Stefano a dirlo loro (v. r. 7.3).
La cosa in sé non avrebbe avuto particolare significato, fosse o non vero il convincimento dei familiari, se Stefano Mele non avesse precisato che gli era stata ultimamente detta nel gennaio 84, all’epoca della ritrattazione delle accuse contro Francesco, del riferimento a Salvatore, di cui si è discorso all’inizio di questo capitolo, e delle nuove accuse contro i parenti. In particolare era l’epoca in cui Stefano ricordava che, anche allora, in Sardegna, morendo la moglie di Salvatore, era stato
salvato il bambino.
Tutto ciò faceva salire il sospetto a sommo grado, senza che pervenisse a dignità d’indizio.
Innanzitutto mancava un movente, che fosse più credibile di quello versato da Stefano nel 1968, a carico di Salvatore. Il rapporto tra i due lo faceva intravvedere senza disegnarlo.
Ma soprattutto non si riusciva a capire la ragione di Mele d’occultarlo. Se questa ragione esisteva, ed era pensabile, allo stato dell’istruttoria, doveva essere assai più forte dell’odio, della paura, e del sacrificio degli affetti familiari, che Mele aveva man mano palesati, dal 22 agosto 1968.
Nell’inverno-primavera ’85, il Procuratore della Repubblica apriva a carico di Salvatore Vinci un’autonoma indagine, per fatti diversi, confluita assai più tardi, in questo processo (3.3.86), e comunque intanto comunicata in copia a brani al g.i. (vol. 7/G).
Essa, a mezzo dell’inquisizione di parenti, amici e conoscenti di lui, poneva in luce un quadro quantomeno singolare della sua personalità e delle sue abitudini sessuali.
La sua stessa moglie Rosina Massa, separatasi da lui nel 1981, e Ada Pierini, già amante, attestavano rapporti sessuali con altri uomini o multipli, a cui Salvatore le aveva indirizzate, a seconda dei casi partecipando o limitandosi ad assistere.
La Rosina riferiva, ed ha confermato poi al g.i., anche una relazione omo-eterosessuale di Salvatore con Saverio Biancalani, suo antico socio e tuttora amico, e la moglie Gina, in cui lei stessa sarebbe stata costretta, sino a dissapori, mai più sanati.
Finalmente, oltre al rapporto con il Biancalani, ne coltivava altri della stessa natura, pure occasionali (confermati da accertamenti dei carabinieri).
Tale Spartaco Casini, già dipendente del Vinci, nei primi anni ’80, riferiva di un’affezione singolare, del Vinci anche per Silvano, insomma il Vargiu, di cui già si è discorso (cap. V) e si tornerà a discorrere.
Codesti aspetti della vita privata di Salvatore Vinci apparivano rilevanti al p.m. per postulare un’indagine [la Massa è andata ben oltre nelle deposizioni rese al p.m. — che ha confermate in istruttoria formale ed ha riferito che, nell’81, il marito era stato ricoverato in Ospedale per ragioni psichiatriche — v. cartella agli atti, vol. 7/G], laddove altri, di cui è ampio e documentato dettaglio, oltrecché negli atti menzionati del p.m., anche nel voluminoso rapporto dei carabinieri n. 311/1 del 22.4.86 e nel seguito del 14.10.1986, pur significativi per illuminare la personalità del Vinci (e di taluno si darà cenno all’occorrenza nel capo seguente) non sono di particolare utilità.
Il Procuratore della Repubblica svolgeva indagini in Sardegna e presso le sorelle di Steri Barbarina, la prima moglie di S. Vinci, morta a 19 anni, dopo un clamoroso tradimento nei confronti del marito, nel gennaio 1960 a Villacidro. Per questo fatto infine, esercitava azione penale per omicidio, a carico di Salvatore Vinci e il cognato Salvatore Steri in concorso, nel processo per i duplici omicidi. Dopo una perizia sugli atti [ad ovvio livello di ‘hypothetical question’, trattandosi di un cadavere sepolto da oltre 25 anni; la perizia dimostrava quanto pareva evidente, e cioè l’incongruità degli accertamenti medico-legali, allora svolti], l’esame delle sorelle Steri e la presentazione spontanea di Steri Salvatore, con sentenza d’incompetenza gli atti a carico dei due omonimi cognati, sono stati stralciati e, insiene all’indivisibile rapporto dei carabinieri del 22.4.86 (cit.), nella tarda prinavera ’86, trasmessi per competenza al Procuratore della Repubblica di Cagliari.
Il 30 maggio 1985, Mele è interrogato quale imputato di calunnia (v. epigrafe) presente il p.m., nella persona del magistrato che ha svolto le indagini di cui si è detto. Dichiara al g.i. di aver avuto insieme a sua moglie rapporti omo-eterosessuali con Salvatore Vinci e di essere stato con lui, la moglie ed il figlio alle Cascine, dove Salvatore faceva congiungere la Locci con altri uomini.
Mentre lui si allontanava con il figlio, Salvatore restava ad assistere. Il fatto dev’essere accaduto alla ripresa della relazione del Vinci, palese ed ammessa nel 1968, giacché Salvatore non era più con i Mele, che vivevano alla Romola, quando era nato il bambino, e non risulta li avesse frequentati dal 1961 in poi.
Fatto analogo a quello descritto da Mele, circa le ‘Cascine’, per quanto concerne la sua esperienza diretta, è attestato da Massa Rosina, che arriva a significare di essere stata costretta con violenza a seguire le sue inclinazioni o a tollerarle. Va rimarcato che costei, denunciata dal marito, nel 1981, per abbandono del tetto coniugale, è stata assolta, pur essendo pacifico il fatto — era scappata con un giovane a Trieste —, per aver dimostrato che egli la determinava, tra l’altro, a condotte riprovevoli. Meno credibile, e tuttavia ha così dichiarato al p.m., è la Pierini, che spiega di essersi allontanata da Salvatore, per analoghe ragioni.
Le dichiarazioni di Mele erano suggestive sotto il profilo del tipo d’autore, intuitivamente delineabile dai crimini dal 1974 in poi [proprio in quel periodo la perizia di Modena, in particolare delinea un profilo di psicopatologia sessuale, nel quale si rimarcano ‘vojerismo’ e ‘sadismo’]. Ma, ciò che era rilevante, denunciavano un aspetto del tutto trascurato della sua possibile reticenza intorno al correo, più forte d’altri già apprezzati, a stregua della sua cultura d’origine e dell’accurato occultamento: la vergogna.
Che sua moglie fosse troppo disinvolta nei suoi confronti, per non godere di una sua compiacente tolleranza [il Mele dichiara — fin dalla prima escussione dopo il delitto — di conoscerne gli amanti e di non essersi mai ribellato ad alcuno], lo si poteva arguire dal suo narrato. Significativo era il riscontro di Mucciarini che Pietrino Locci aveva rimproverato a Stefano, in presenza della sorella Antonietta, di essere lui stesso a portare gli uomini alla moglie, il giorno del suo arresto. Mucciarini narra anche di un aperto rimprovero del vecchio Palmerio al figlio, per analoghe ragioni. Lo dimostrava anche la frase di Mele che si poteva dire che i Vinci gli trombassero la moglie sotto gli occhi (cit.).
Ma non se ne poteva trarre nulla di più. Lo stesso duplice omicidio, per quanto connotato di caratteri obiettivamente morbosi, (uccisione dei due amanti in intimità) mostrava uno scrupolo di pudore (rassestamento dei cadaveri).
La scoperta del particolare rapporto tra Mele e Salvatore Vinci dava un significato anche gli strani comportamenti di cui s’è detto, del Mele che chiede perdono, piangendo, a Salvatore Vinci, e di quest’ultimo che osa portare in giudizio l’anello di fidanzamento della donna, da lei ricevuto, praticamente sotto gli occhi del marito. Va detto che, dallo stesso processo verbale (dibatt. c. Assise), s’apprende che quell’anello era stato ricevuto una prima volta (all’epoca della convivenza) da Salvatore, con la benedizione del marito, e poi restituito.

8.4 – LE NUOVE ACCUSE DI MELE

L’accusa di Mele nei confronti di Salvatore Vinci nel 1968, stimata calunniosa, appariva suscettibile di nuova valutazione.
Viceversa, alla luce di quanto era accaduto dalla ripresa delle indagini, nel 1982, era da attendersi che Mele, intuito l’indirizzo della nuova ricerca, immediatamente vi si adeguasse, rivolgendo accuse d’omicidio a Salvatore Vinci. Ciò puntualmente accadeva, con la differenza che questa volta non cessava d’accusare coloro che aveva incolpati in precedenza (ad eccezione di Vinci Francesco e Cutrona Carmelo, che ammetteva d’aver falsamente incolpati), come a prevenire future contestazioni.
Alle nuove dichiarazioni di Mele dal 1985 in poi, a carico di Salvatore Vinci, non si è dato altro peso, se non quello che c’erano.
Mele, nell’interrogatorio del 30 maggio 1985 in cui ha iniziato a versarle, le ha, a suo modo, avvalorate. Ha detto che di Salvatore aveva parlato, indirizzando per la ricerca della pistola, informalmente Valeria ed un presunto carabiniere [Valeria è stata identificata per un’ispettrice di Polizia, realmente mandata dal dirigente della Squadra Mobile, per conto del p.m. a contattarlo, dopo il delitto di Vicchio a Ronco all’Adige, ed escussa. Ha confermato il riferimento a Salvatore, per quanto concerne la pistola].
Comunque, nell’interrogatorio citato, con il quale ha risposto di calunnia (reato in epigrafe), ammettendola, gli si è mossa contestazione.
Il processo verbale reca: “La SS. Vostra mi contesta che il problema non è quello di fare dei nomi, ma di dimostrare come effettivamente si sono svolte le cose nel 1968, e che la nuova versione resa non appare credibile …”.
Al termine, il p.m. ne ha richiesto la cattura, disposta ed eseguita. Ma in seguito non si è spostato dalla posizione assunta, che non è di chiara decisa ed esclusiva accusa contro Salvatore Vinci (a differenza che in passato), sembrando piuttosto preoccupato dell’inquisizione.
Il p.m. ricorre, nelle requisitorie del 18 ottobre u.s., ad un altro argomento per disattendere le accuse di Mele a carico di Salvatore Vinci. Mele, osserva, è un ‘oligofrenico’ (così conclude la perizia depositata appena prima della chiusura dell’istruttoria). Ha anche rilevato che era già stato condannato per calunnia (e ritenuto parzialmente infermo nel l970).
È un argomentare apodittico. A questa stregua non sarebbe neanche stato opportuno riprendere le indagini nel 1982, partendo dalle sue dichiarazioni (cfr.: capo IV). Il procuratore della Repubblica lo ha fatto, perché la logica dell’istruttoria è un’altra.
Non esistono limiti di contenuto alle indagini (e se ne pongono virtualmente, allorché, senza valutarne il merito, si conclude che un atto è irrilevante), purché, oltre a quelli formali, siano rispettati taluni canoni nella valutazione di attendibilità della prova rappresentativa, giusto il senso dell’art. 348 CPP (e delle norme che vi si ricollegano). L’analisi minuziosissima di tutto il dichiarato di Mele a partire dal 1968, riferita in questo provvedimento, fa fede dello scrupolo del vaglio, anche se non esenta da errori.
All’evidenza, doveva farvi affidamento anche il p.m. sino alle ultime requisitorie menzionate, vistocché per 7 anni il problema del contenuto delle dichiarazioni di Mele non è stato mai sollevato (neanche da parti private). E non lo è, sotto diversa angolazione, neanche nelle ultime requisitorie, se è vero che sulla base delle sue dichiarazioni, se ne chiede il rinvio a giudizio.
Né si è perduto tempo a seguire le farneticazioni di un minus habens (e l’analisi induce a molte perplessità intorno all’incidenza della sua ‘oligofrenia’, del che si dirà ancora nel capo X) stabilire in quale misura ciò sia rilevante nelle indagini). Egli è apparso custode geloso di un segreto, che sbarra l’unica strada non occasionale, per scoprire il perché di una serie atroce di delitti.
Le sue dichiarazioni nel processo non sono mai state di per se stesse determinanti, se non stimate, anche a torto, e comunque nei limiti del possibile, munite di riscontri esterni.
In questa dimensione, per ricercare la verità, ci si è dovuti calare nell’assurdo d’inquisire intorno all’inquisizione già attuata, non essendovi alternativa, nella specie, che il manicheismo del rifiuto del ruolo.
È ruolo che non ha futuro. Ma finché esiste, deve essere svolto con la sua logica fino in fondo.
Il fondo è la complessità di questo provvedimento, nel quale è doveroso, sia pure con onerosa farragine (e pesanti ripetizioni, per riprendere il filo), spiegare l’evoluzione delle indagini, attraverso il ragionamento che ha sorretto la ricerca fin dall’inizio. Di esso il dubbio virtuale è stato lo stimolo.
Proprio per ciò non si può dar corso a ripensamenti che tendano, in via d’assioma, a superare la libertà di convincimento.
In questo interrogatorio del 30 maggio 1985, si tratta comunque della prima volta, dal lontano 24 agosto 1968, che Mele reitera le sue accuse a carico di Salvatore Vinci.
Nel processo verbale del 3 dicembre 1982 (menzionato dal p.m. in requisitorie del 18 ottobre u.s.) Mele non accusa affatto Salvatore, ma conferma al g.i. quanto ha già dichiarato al p.m. contro F. Vinci. Anzi afferma che ciò che, nel lontano 1968, aveva attribuito a Salvatore, per ‘troppa bontà’ nei confronti di Francesco, pertineva a quest’ultimo.
Ribadisce solo il particolare che Salvatore gli aveva intestato, suo malgrado, un motorino, e che, accaduto un incidente (a Francesco Vinci che lo guidava, come si desume aliunde), suo padre Palmerio aveva dovuto pagarne le spese.
Di tal cosa, che è un leit-motiv del Mele, è riscontro in atti del 1968. Mele era debitore di Salvatore (reale proprietario del motorino) con titoli in iscadenza, proprio nei giorni dell’omicidio, verosimilmente perché l’altro aveva anticipato spese che non voleva assumersi, a cagione sostanziale del fratello e formale di Stefano, intestatario. I titoli saranno poi sequestrati il 16 agosto 1982, proprio in casa di Maria Mele, all’epoca convivente con il padre, dal p.m.. Maria vi farà riferimento e con ragione, per significare l’incomprensibilità degl’impegni del fratello con i Vinci.
Si osservi ora che, nel 1968, accusando Salvatore, Mele gli attribuisce quale movente anche debiti da lui contratti nei suoi confronti ed in quelli della moglie, che l’altro non sarebbe stato in grado di pagare.
Salvatore (la escussione del 24 agosto 1968), per allontanare l’accusa da sé, afferma che Mele, ricevuto denaro per un altro incidente, dall’assicurazione, gli aveva offerto un prestito, da lui rifiutato ed aveva allora promesso di aiutare Francesco, in quel periodo bisognoso. Pare ora di capire, che quella sia stata invece l’occasione dell’accollo del debito di Francesco per il primo incidente a favore di Salvatore, debito poi pagato da Palmerio Mele.
In questa luce, l’accusa di Salvatore e la successiva ritrattazione, con richiesta di riscontro a carico del nuovo accusato, Francesco, di cui si discorre dall’inizio di questo capitolo (e insomma del 24 agosto 1968), appaiono in un’ambiguità ancora maggiore. Stefano potrebbe indicare la via dell’impunità al vero correo a prezzo del fratello, altrimenti invece aiutato, proprio per favorire lui. Certo è che, per come le accuse vengono rivolte, ritrattate e ritorte, attraverso un vero e proprio colloquio, per il tramite delle contestazioni del magistrato (v. paragrafi precedenti), tra i due si svolge una trattativa di scambio che ha per merce la libertà, e per prezzo Francesco Vinci.

8.5 – L’ALIBI DI SALVATORE VINCI NEL 1968

Ai carabinieri che lo sentirono tra il 23 ed il 24 agosto 1968, S. Vinci, negando le accuse di Mele, dichiarò che la sera del 21 agosto era stato a giuocare a biliardo con due amici (Silvano e Nicola).
Uno di questi, in effetti un suo dipendente, tale Antenucci Nicola, che conosceva da pochissimi giorni, disse ai carabinieri che “il giorno 21” era stato appunto con Salvatore a giuocare a biliardo.
L’Antenucci il giorno successivo, 24 agosto, “ore 16,50 (f. 3, test. vol. 1A) fu escusso dal magistrato. Ma qui le cose divennero più complicate. Dalla data, si passò, più ragionevolmente, al giorno della settimana. Ed Antenucci sostenne che era andato a giuocare con il Vinci la sera del martedì. Ma martedì era il 20 e non il 21 agosto.
Il magistrato (Mele aveva già ritrattato, passando ad accusare Francesco — il verbale relativo reca: ore 14,30) era convinto che Antenucci sbagliasse e gli fece rifare il conto a rovescio a partire dalla sera innanzi. In questo modo i conti sembrarono tornare.
Altro riscontro dell’alibi fu dato, diversi mesi dopo (aprile 1969), da Vargiu Silvano, l’altro giuocatore di biliardo, per prima cosa ai carabinieri e poi al giudice. Anche a lui, e a tanta distanza di tempo, fu chiesto incredibilmente, se il 21 agosto del 1968 era stato a giocare al biliardo con Salvatore Vinci.
In questa istruttoria il Vargiu ha spiegato che non poteva certo ricordare una data (non avrebbe potuto, a tanta distanza di tempo, ricordare neanche un giorno della settimana senza riferimenti) e che, qualche tempo dopo i fatti (parla di un mese), Salvatore gli aveva parlato del suo problema e chiesto di confermare. Lui ricordava di essere stato a giuocare a biliardo con Salvatore ma, quanto al giorno preciso, si era affidato a quello indicatogli da Salvatore.
Nel 1983, dopo il duplice omicidio di Giogoli, pur essendosi ancora lontani dal sospettare di Salvatore, premendo di vagliare la posizione di Francesco Vinci (anche indirettamente, attraverso una ricostruzione dell’istruttoria del ’68) fu effettuata una verifica presso di lui e presso Salvatore.
Salvatore ricordava di essere stato a giuocare a biliardo, ma non chiamava più a riscontro l’Antenucci, bensì, fermo Silvano Vargiu, Saverio Biancalani.
Il giudice gli rammentava la versione del 68, ma stranamente il Vinci, aveva vaghissima memoria dell’Antenucci.
La cosa, nel 1985, sarebbe apparsa singolare. Si sarebbe difatti scoperto che Salvatore, pochi giorni dopo il duplice omicidio di Signa, aveva preso in casa con sé Nicola Antenucci, e cambiando domicilio se lo era portato dietro. Era stato con lui per un paio d’anni. La convivenza era bruscamente finita per un litigio al quale, probabilmente, non erano estranee le grazie di Rosina Massa, moglie del Vinci. È apparso assai più probabile che Salvatore ‘volesse’ dimenticare.
Quanto al Biancalani, in quell’ottobre ’83, e successivamente ha confermato, non sarebbe a suo dire, mai stato a giuocare a biliardo con Salvatore. Biancalani, fin troppo intrinseco di lui, stando a Rosina Massa ed al menzionato rapporto dei Carabinieri del 1986 e a quelli seguenti è apparso mendace su aspetti collaterali, vuoi in suo favore, che proprio. Circa l’alibi del ’68, ha puntato a defilarsi anche su aspetti innocenti della vicenda, rendendo credibile quello che Antenucci avrebbe detto al suo riguardo, di tenercelo fuori comunque. In ogni caso non era stato indicato a riscontro dell’alibi nel 1968.
In quell’autunno 1983, Antenucci si avvedeva di aver sbagliato il riferimento al giorno della settimana nel verbale del 24.8.1968.
Nel 1985 ha stabilito che cosa aveva fatto in quella settimana. Egli aveva errato il conto, per una ragione assai semplice. Ricostruendo le serate a ritroso ne aveva saltata una.
Era stato prelevato la sera del 23 agosto, venerdì, per rendere le sue dichiarazioni e trattenuto sino alle prime ore del giorno successivo. Risalendo indietro, con la memoria, il sabato ricordava due serate, trascorse dopo la partita a biliardo, il che nel calcolo del magistrato (venerdì la prima, giovedì la seconda, mercoledì, sera del delitto, la terza) che lo aveva interrogato nel 1968, riscontrava l’alibi di Salvatore. Anzi, non convincendosene Antenucci in quella sede, era il magistrato a convincerlo (cfr.: “invitato il teste onde controllare l’esattezza dei suoi interessi temporali, a precisare in qual modo abbia trascorso le sere successive, il teste riferisce soltanto di due sere, dimostrandosi sorpreso che oggi è sabato, e convinto che fosse invece venerdì…”), ma nel verbale non si dà atto della sera perduta nel conto a ritroso.
In effetti si è chiarito in questa istruttoria, che Antenucci non poteva mettere in conto la sera del venerdì, non avendo trascorso anche quel dopocena negli svaghi, ma in caserma fino alle prime ore di quel giorno, in cui veniva escusso dal magistrato alle Murate, dove l’avevano condotto i carabinieri. In conclusione era stato di martedì e non mercoledì a giuocare con Vinci, proprio come aveva detto al magistrato nel 1968, finché non era stato costretto a correggersi, per un suo presunto errore.
A riprova, ha ricostruito la settimana a partire dalla domenica prima, giorno in cui aveva conosciuto il Vinci. E la partita a biliardo con Salvatore e Silvano cadeva ineluttabilmente di martedì (la sera prima era stato presente, al posto di Silvano, Saverio, cioè Biancalani).
La credibilità dell’Antenucci è già nel racconto. A quell’epoca aveva diciotto anni e viveva, picarescamente, dormendo nelle case abbandonate (ora in questa, ora in quella) di alcuni villaggi nella zona di Vaiano. Prestava lavoro precario in un ‘carbonile’ di Prato, in procinto di chiudere. E non possedeva un orologio, men che mai un calendario e null’altro, se non gl’indumenti che indossava, un motorino per spostarsi e, ricchezza assoluta, la disponibilità di tutto il suo tempo, al punto di trascurarne il fluire (in questo senso, non è che egli non avesse memoria delle cose che lo aveva riempito, tutt’altro: si veda la ricchezza di particolari già nel verbale del ’68, soltanto che non aveva ragione alcuna di tenerne conto preciso).
La domenica (18 agosto 1968) aveva, tramite Saverio Biancalani, i cui genitori erano del posto, e d’estate vi si tratteneva, conosciuto il Vinci, che gli aveva offerto un lavoro precario di muratura generica in un capannone di S. Giorgio a Colonica, da svolgersi insieme a loro.
Aveva trascorso con Vinci e, rispettivamente con Biancalani (lunedì) e Silvano (Vargiu, a lui prima sconosciuto), le prime due serate della settimana nuova, la terza a Prato, a vedere uno spettacolo di pattinaggio alla casa del popolo, il giovedì alla Briglia di Vaiano. Sul posto di lavoro, a S. Giorgio a Colonica, Vinci era stato presente i primi due giorni, il terzo non era comparso, il quarto (giovedì, quando era stato consumato il delitto) era apparso a mezzogiorno fugacemente, ed il quinto, lui non l’aveva visto, ma erano andati a prelevarlo i carabinieri. Ne aveva chiesto a Biancalani. Costui gli aveva detto del duplice omicidio di Signa, di cui parlavano i giornali (l’episodio è menzionato nel verbale del ’68), e nel quale si sospettava l’implicazione di Vinci.
Biancalani aveva aggiunto che probabilmente i Carabinieri avrebbero interpellato anche lui, Antenuccì e che, per quanto lo riguardava, voleva essere tenuto da parte.
Quel pomeriggio, in effetti i carabinieri lo avevano rintracciato, chiedendogli riscontro dell’alibi di  Vinci per la sera del 21 (che egli non sapeva quale fosse). Aveva detto che era stato a giuocare a biliardo e trattenuto sino al mattino successivo (sabato).
Tali cose le ha ripetute e sostenute credibilmente in confronto con Biancalani ancora il 29 giugno 1989.
Si è cercato anche un riscontro esterno al suo racconto circa la sera del mercoledì (lo spettacolo a Prato). Vi è conferma che, a quell’epoca, se ne facessero di tal genere, nel luogo indicato dall’Antenucci. Ma i carabinieri non hanno potuto appurare le date precise (rapp. CC. 2.2.1987). Ciò non toglie un briciolo di credibilità al suo racconto, mai seriamente avversato dal Vinci e dal Biancalani.
L’alibi di Salvatore Vinci, dunque, non regge obiettivamente, perché risponde ad un accadimento reale del giorno prima del fatto.
Non ne era riscontro la testimonianza del Vargiu, che, sentito a distanza di tempo dai fatti, lo aveva confermato su richiesta del Vinci. Non era riscontrato da Antenucci, quanto piuttosto serviva a forzare costui ad una ricostruzione che ad esso corrispondesse.
A riscontrarlo, all’evidenza, si è voluto sempre sottrarre il Biancalani, ancora chiamato in ausilio nel 1983 dal Vinci, ma invano. Basta leggere con quanta pertinacia, ancora a distanza di anni, Biancalani si affanni a negare persino cose ovvie ed innocenti, contro ogni evidenza, e per paura.
Ne sono esempi il diniego di aver lui rappresentato la notizia sul giornale all’ignaro Antenucci, lontano le mille miglia dalla vita privata del Vinci e di essere stato anche lui a giuocare a biliardo con Vinci una di quelle sere, ma non quella del delitto (e si badi, Antenucci aveva riferito entrambe le cose, incidentalmente, già nel verbale del 1968, e non certo per volerlo implicare, visto che si trattava di aspetti neutri).
Erra, pertanto, in requisitorie, il p.m. che chiama in causa il Biancalani circa l’alibi in se stesso, invece di Vargiu. E non può condividersi la sua valutazione, in astratto (“Non può attribuirsi attendibilità a chi, di scarsa memoria, dopo aver deposto in un senso a pochi giorni dal fatto, in anni successivi riferisca fatti diversi…”), senza calarsi nella realtà obiettiva dei dati testimoniali.
La ragione del proscioglimento di Vinci, relativamente al delitto del 1968, non è dunque nel peso delle dichiarazioni di Mele o di Antenucci, come si è requisito, ma semplicemente nel fatto che in merito non c’è altro oltre a quello che si è osservato, a partire dal primo paragrafo di questo capo.
In assenza di prove materiali di qualsiasi genere, e della possibilità d’andare oltre, è decisamente poco.
Le indagini (come si dice nel capitolo che segue) hanno avuto per oggetto altri elementi, che concernono taluno dei duplici omicidi seriali, ma per essi non vi è stata evoluzione in prova positiva e ne esce confermata la necessità di proscioglimento dell’imputato.

CAP O IX

— SALVATORE VINCI —

9.1 – LO STRACCIO

Si è già anticipata la decisione nei confronti di Salvatore Vinci, senza ancora parlare di quello che è apparso l’elemento più rimarchevole a suo carico.
In effetti, all’esito delle indagini, basterebbe dire che la sua stessa provenienza, ancorché supposta, e ben inserita nel quadro della complessa personalità dell’imputato, ed il suo significato probatorio non sono punto chiari.
Il 30.7.1984, all’indomani del duplice omicidio di Vicchio, che accresceva se possibile l’orrore di quelli precedenti, si effettuavano perquisizioni presso le abitazioni di tutti coloro che, per qualche ragione erano stati sospettati in passato. Tra tanti, Salvatore Vinci.
La perquisizione in casa sua portava al rinvenimento in camera da letto, in un armadio secondario, sotto alcune coperte invernali, di una borsa di paglia contenente tre stracci di tela, verosimilmente di cotone.
La borsa, tonda come uno scudo e foderata, non presentava particolarità di rilievo. La sua fattura asiatica di livello ordinario non offriva spunti per risalirne all’origine commerciale.
Due dei tre stracci, stampati in giallo a fiorellini da un lato, racchiudevano a mo’ di copertina il terzo, bianco, e quantomai sporco di grigio con macchie rosso-vinose e giallastre. I carabinieri sequestravano il tutto, senza che Salvatore Vinci battesse ciglio, sospettando che le macchie scure fossero di sangue. Rapportavano all’autorità giudiziaria, che intanto ne verificava l’alibi. Ma per diversi mesi nessuno prestava particolare attenzione al reperto.
Finalmente, prima un accertamento ematologico a Firenze (affidato nell’aprile 85 dal procuratore della Repubblica al dr. Marini), indicava presenza di sangue umano di gruppo 0, quindi un accertamento del C.I.S., a Roma, informava il p.m. che sullo straccio oltre alle macchie di sangue, vi erano tracce di polvere da sparo.
Il p.m., dubitando anche dei riscontri all’alibi di Vinci, intanto effettuati, richiedeva, nell’autunno 85, la formale istruzione a suo carico per l’omicidio duplice del 1984.
Tal cosa contrastava, a quanto risulta, con l’organizzazione interna dell’ufficio del procuratore della Repubblica, perché lo straccio era connesso con le indagini preliminari — generiche — ancora in corso relativamente allo stesso reato. Per queste ultime, pur trascorso l’anno, non era stata ancora disposta la conversione del rito.
Alla richiesta degli atti da parte di questo ufficio, il procuratore della Repubblica li trasmetteva in blocco, in una con una missiva interna, che esprimeva riserve intorno al valore sintomatico del corpo di reato. Tali riserve si traducono, all’esito delle numerose perizie disposte, in motivi delle requisitorie finali.
Fermo il dovere di indagare nel senso ufficiale dell’indirizzo significato dall’azione penale, è da dire che, fin quando non si sono svolte le perizie, il valore sintomatico dello straccio, per quanto modesto si voglia, è rimasto univoco.
Proveniva dall’abitazione di un sospettato, altrimenti intanto raggiunto da indizi per il primo duplice omicidio. Era stato ritrovato il giorno successivo ad un altro duplice omicidio consumato con la stessa arma da fuoco, e con susseguente uso di arma bianca, circa il quale, nella missiva ufficiale, per verifiche effettuatene, si dubitava anche dell’alibi. In questa luce, quale che fosse l’intuizione, fors’anche giusta, circa l’origine e il perché delle straccio, sarebbe stato quantomeno lesivo delle garanzie difensive dell’imputato, continuare ad indagare informalmente in merito (v. sopra, accertamenti dr. Marini e C.I.S. disposti dal procuratore della Repubblica).
La ragione ancor oggi proposta, in senso contrario, che “…appare ben singolare la circostanza che il Vinci, già in precedenza perquisito [n.d.s.: per il delitto duplice del 1983] proprio nell’ambito della stessa indagine, all’indomani del duplice omicidio avvenuto in Vicchio di Mugello il 29.7.1984, custodisse, per di più in camera da letto, uno straccio che in qualche modo potesse collegarlo all’omicidio.”, era e rimane nulla più che una petizione di principio.
Un fatto è un fatto, ed il come ed il perché, se non vi sono elementi per suffragarli, in qualsiasi senso, appartengono al campo delle illazioni.

9.2 – SUA PROVENIENZA

Salvatore Vinci ha sostenuto, in astratto credibilmente, data la natura dell’oggetto, che la borsa appartenesse ad una donna di casa. L’ha attribuita, con qualche incertezza, ad Ada Pierini. Costei tuttavia non conviveva con lui, a quanto si è accertato, dal 1983 e cioè dall’anno precedente al suo rinvenimento.
Vista la borsa, la donna ha detto che non è mai stata sua. Ha affermato di averne posseduta un’altra, pure di paglia ma di foggia diversa, dandone una minuta descrizione. Non v’è assolutamente nulla che possa far credere a Vinci piuttosto che a lei.
La moglie del Vinci si era allontanata ancor prima (1981) ed è apparsa altrettanto ignara. Nulla sa, neanche la convivente di Vinci, all’epoca dei fatti, Antonietta D’Onofrio. La cosa potrebbe destare maggiori perplessità, ma la donna viveva buona parte della giornata a Prato.
Soltanto una donna, che prestava attività di ‘colf’ in casa Vinci, Anna Viggini, afferma di aver notato la borsa tra l’inverno e la primavera del 1984, ma non sa cosa custodisse.
La scoperta dell’origine della borsa in sé, escludendone l’attribuibilità alla convivente attuale del Vinci al momento del rinvenimento, non ha gran significato, se non si spiega anche l’origine degli stracci. Insomma può essere appartenuta a chiunque, restando nella disponibilità del Vinci all’epoca di cui è discorso. Ed è ciò che conta.
Il fatto è che è già difficile farsi una ragione del perché la borsa estiva, fosse in un armadio che conteneva solo coperte invernali, e sotto di esse. Ancor più difficile è spiegare il perché dei tre stracci all’interno della borsa ed in particolare di quello sporco, e diverso, tra i due omogenei e puliti. E ancora se borsa e stracci fossero stati riposti ivi insieme e quando.
La situazione è quanto mai ambigua.
Sullo straccio macchiato dal sangue e dalla polvere da sparo, sono state trovate (le evidenti macchie giallastre) anche tracce di “componenti base usati per il trattamento di superficie del legno” (perizia merceologica del 15 maggio 1986). Tal cosa può far pensare ad un suo destino sia a lavori domestici, che di falegnameria (e Vinci all’epoca s’occupava di serrature e dunque di porte). È inverosimile che le macchie eterogenee siano state cagionate nello stesso contesto. Ma quali sono state cagionate per prime e quale delle ipotesi in merito è più tranquillizzante? — Bisognerebbe avere l’abilità di Achille Campanile per sbizzarrirsi su tutte le possibili varianti e le loro implicazioni.
Non è da escludere che se si fosse indagato prima, si sarebbero ottenute delle spiegazioni, almeno in parte, convincenti. Ma il reperto nel suo complesso, e per il modo in cui è stato rinvenuto, non attenua minimamente l’allarme, significato dalle altre tracce.
Il p.m. elude il problema (v. par. precedente), rispondendo implicitamente alla domanda, che si è posto, intorno al perché Vinci avrebbe dovuto custodire lo straccio, se conservava le tracce del reato (il che lascia perplessi, dopo 4 anni di indagini, e le sue richieste di ripetuti accertamenti peritali).
Prescindendo da divagazioni psicopatologiche, avanzate per esempio nel rapporto dei carabinieri, dal quale si evince che Vinci custodiva cose altrimenti strane, che danno un quadro del tutto particolare della sua personalità, alla domanda del p.m, si può rispondere ponendo una domanda di segno opposto. Perché custodire (chiunque sia stato) lo straccio, ed in quella borsa, in quel sito, in quel modo, tra due puliti di origine diversa e tra loro omogenei, se era semplicemente uno straccio sporco?

9.3 – LE TRACCE DI SANGUE

Si è accennato che un primo accertamento informale della Procura di Firenze, effettuato dal dr. Marini, dell’istituto di Medicina Legale, conduceva al rinvenimento di sangue umano del gruppo 0.
La perizia del 14 maggio 86 (affidata nel dicembre dell’anno precedente) ad un collegio, del quale faceva parte una titolare di cattedra a Roma, esperta di ematologia a livello internazionale, Matilde Angelini Rota, concludeva per la ‘positività nella ricerca di sostanze antigeniche B, H e D’, indicanti la provenienza delle macchie da due gruppi sanguigni: B e 0 Rh pos.. Non si dava tuttavia per certo il gruppo B, per la contemporanea positività di antigeni A e B su porzioni di tessuto non macchiato, che potevano dipendere da deposizioni anteriori, a più riprese, di materiale organico di natura imprecisata (per esempio lavaggi con sapone).
In sintesi, lo straccio era inquinato da prima della deposizione del sangue, e non si poteva esser certi circa i gruppi diversi da 0.
In chiarimenti successivi alla prima perizia (anche del dr. Marini, che aveva seguito lo stesso metodo della Angelini Rota), si dava per certo solo il gruppo 0, perché per il cennato inquinamento, si sospettava che anche le altre tracce fossero in realtà di gruppo 0 mascherato da gruppo B.
Si decideva perciò con una seconda perizia, di far analizzare ogni altra macchia non esaminata e di porre il quesito se l’antigene H, caratteristico del gruppo 0, potesse essere mascherato da altri fattori.
La perizia, depositata nel dicembre 1987, concludeva che sullo straccio era presente sangue umano di gruppo B e che non si era ulteriormente rinvenuta traccia di sangue del gruppo 0.
Tale conclusione non consente di ritenere, come stima il p.m. in requisitorie, che tutte le macchie sullo straccio siano appartenenti ad un solo gruppo (B), vuoi per la ragione che sangue di gruppo 0 era stato già rinvenuto due volte (anche dal dr. Marini), vuoi perché l’ultimo esame (cfr. pg. 2) è stato effettuato su 12 campioni rispetto ai 38 possibili (tante erano le macchie apparenti di sangue), dei quali solo tre, questa volta, hanno dato esito positivo alla prova generica del sangue (n. 8, 21 e 37) [la qual cosa non significa affatto che negli altri casi non si tratti di sangue, ma che non è possibile accertarlo chimicamente].
Il quesito che l’aveva necessitata è stato esplicitamente eluso.
Circa la presenza del gruppo 0, si argomenta in discussione: “la ricerca del fattore D nelle macchie 3 e 33 ha dato… una positività così scarsa da non consentire una conclusione certa… non abbiamo mai ottenuto una positività delle reazioni eseguite utilizzando siero anti-H…”. In assenza 1) dell’indicazione di uno standard minimo, 2) del perché della restrizione della ricerca a due soli campioni quanto al gruppo 0, in precedenza sicuramente apparso, 3) del perché della limitazione delle indagini rispetto alle ritenute sostanze inquinanti preesistenti, c’è di che restare perplessi.
Si aggiunga che, a proposito della positività di tipo B, è detto che ‘tali macchie sono piuttosto vecchie. Si tratta di affermazione scientificamente priva di significato, in assoluto, se non si àncora ad una misura del tempo e, relativamente, se non riferita ad un parallelo con altre macchie sullo stesso straccio.
Assai probabilmente con essa si vuol dire che la scarsa positività dei risultati è dovuta (come si intende aliunde) alla difficoltà di ottenere risposte all’esame chimico per l’anzianità del reperto.
L’ultima perizia, pertanto, non solo dice poco, ma la relazione cela una preoccupazione di attendibilità (probabilmente suscitata dalla difficoltà di accertare il mascheramento dell’antigene H, denotante il gruppo 0. Al quesito può intendersi data risposta implicita, laddove si da per accertata la presenza del gruppo B: insomma sarebbe proprio gruppo E e non 0 mascherato per inquinamenti). Lungi dal superare i risultati della prima, può servire ad integrarli (in una con quelli ottenuti dal dr. Marini).
Dalla sintesi degli accertamenti si traggono le seguenti conclusioni.
Dal punto di vista quantitativo, per i campioni in complesso analizzati, e i risultati ottenuti e non smentiti dal progresso degli accertamenti, i gruppi sanguigni presenti sul panno sono inequivocabilmente due (v. anche chiarimenti dei periti intorno alla prima perizia, del 16.5.1986).
Dal punto di vista qualitativo, il risultato comunque non inquinato (e in se stesso non inquinabile) è quello che concerne il gruppo 0 (altrimenti le sostanze A e B, rinvenute nella precedente perizia, non ne avrebbero consentito l’identificazione — v. i menzionati chiarimenti, in particolare, della dr.ssa Angelini Rota e anche i chiarimenti del dr. Marini in data 23 febbraio 1987). Sono infine maggiori le probabilità che non sia inquinata neanche la positività di gruppo B, a stregua dell’ultima perizia.
Codesti risultati non potevano essere tranquillanti, vuoi che li si interpretasse in bonam che in malam partem.
Offrendo il progresso scientifico, successivamente alle perizie ematologiche, la possibilità di ricerca del D.N.A., e non essendo possibile il paragone con reperti delle vittime dei duplici omicidi (non conservati dopo le autopsie), laddove c’era possibilità di effettuare una verifica con reperti di Salvatore Vinci e della sua antica convivente Ada Pierini (e insomma un riscontro d’innocenza in positivo), si mirava ad una verifica in questa direzione.
I periti italiani avrebbero potuto provvedere in Gran Bretagna, ove risultavano pronte sonde adeguate alla pochezza dei reperti, da parte dello stesso inventore del metodo di ricerca.
Viceversa le sonde risultavano inefficaci e la perizia non poteva conseguire risultati.
Fermi ai dati ematologici, non si può convenire con il p.m. che il sangue appartenga ad una sola persona e che nella specie si tratti della Pierini, di gruppo B secondo i carabinieri (in effetti il sanitario che l’ha prelevato), che all’epoca, contrariamente a quanto sostiene il p.m., non conviveva con Vinci da un anno circa. Peraltro lo stesso Vinci, secondo i carabinieri, avrebbe sangue di gruppo 0 (come lo aveva, a stregua di accertamenti peritali, il povero Claudio Stefanacci).
Il fatto è che la metà della popolazione italiana appartiene a quest’ultimo gruppo ed una buona fetta all’altro (anche se meno diffuso dello 0 o A). E non si è passati all’esame dei familiari o conviventi del Vinci e di altre persone a lui prossime, potendo tutte aver in astratto a che fare con lo straccio.
Finalmente, la coincidenza di gruppo è scarsamente indiziaria, e trattandosi di gruppi ad ampio spettro di diffusione significativa solo per compresenze.
Il significato indiziario dei gruppi identificati sullo straccio era ancorato al possibile parallelismo con quello delle vittime del duplice omicidio di Vicchio, come rettamente, sotto questo profilo, osserva il p.m.. Fuori di esso, per la mancata coincidenza di un gruppo, benché sullo straccio ne siano stati rinvenuti due, resta un motivo di sospetto generico non suscettibile di evoluzioni per quel che concerne questa indagine.
E, non potendosi disporre una verifica d’identità genetica (unica ad avere significato probatorio), non ha senso alcuno, salvo illazioni, formulare opinioni in positivo.
Il che, per quanto concerne la posizione di Vinci alla chiusura delle indagini, è esattamente la stessa cosa, senza farsi carico di spiegazioni che l’imputato non ha voluto o potuto fornire.

9.4 – LA POLVERE DA SPARO

Sullo straccio vi sono inequivocabilmente tracce di polvere da sparo, come accertato più volte pertialmente.
Si condivide l’osservazione del p.m.: “…chi mai potrebbe ragionevolmente ritenere che quelle tracce derivarono dai residui della pistola Beretta cal. 22 usata per commettere i delitti?”.
Nessuno in effetti lo potrebbe, vistocché, nella perizia del 16.5.86 (la prima), i periti concludono: “allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non è possibile stabilire il tipo di munizionamento dal quale [i residui di polvere da sparo] provengono”.
È tuttavia evidente che forse ci si sarebbe potuti arrivare identificando la pertinenza delle macchie di sangue. Ed è ancora più evidente che rimane il problema della provenienza della polvere da sparo in se stessa, quale che sia il calibro dell’arma.
È incongruo, anche sotto questo profilo, dar per attendibile la versione del Vinci intorno alla pertinenza della borsa ed al suo contenuto alla Pierini.
Il problema è stato avvertito dallo stesso imputato. Mentre è disposto a far concessioni, per quanto concerne la provenienza delle macchie di sangue, nonostante le emergenze peritali esclude apoditticamente che sullo straccio possano esservi tracce di polvere da sparo. Il che lascia perplessi, vistocché afferma di non aver nulla a che fare con la borsa.
Ma, al punto in cui si è giunti, non è un problema di questa istruttoria.
Vista la conclusione dei periti, non c’è nella emergenza della polvere da sparo, e alla luce delle parallele perizie ematologiche, ragione di convincersi che lo straccio abbia a che fare con i delitti di cui qui ci si occupa, come ipotizzato nella richiesta di formale istruzione.

9.5 – ALIBI, PERQUISIZIONI, ED ALTRO

Le verifiche fatte intorno all’alibi fornito ai carabinieri da Salvatore Vinci, per la sera del 29 luglio 1984, effettuate dal p.m. e poi riprese dal g.i. conducono a conclusioni quasi simili a quelle relative al duplice omicidio di Signa.
Nella specie, sono emerse discordanze tra quanto aveva dichiarato lui stesso (circa un’uscita alle 21,30 con la D’Onofrio e la bambina per prendere un gelato, in un bar all’inizio di via Cerretani, facendo rientro alle 22-22,30, una nuova estemporanea uscita sino alle 23,30 circa, per riprendere il cane, ed un’ultima uscita notturna tra le 3 e le 3,30 del mattino per fare esercizio di corsa, nonché gli interventi effettuati dal figlio quella notte, per conto della ditta di ‘Pronto Intervento Casa’ di cui era titolare), e quanto rispettivamente dichiarato dal figlio e dalla D’Onofrio.
Il figlio quella sera ha fatto due interventi, ma Vinci e la donna ne ricordano uno solo. Quanto a costei, probabilmente, come peraltro ha detto, da una cert’ora in poi dormiva in camera sua. L’unico segno, della sua consapevolezza della presenza in Firenze dell’amante quella notte, per alcun tempo prima di addormentarsi, sarebbe quello di averne visto dalla finestra (quarto piano) stando sul letto in camera, le gambe attraverso la serranda semiaperta del laboratorio a livello strada, di fronte.
La donna, ha poi affermato che le uscite con Salvatore e la bambina sono state rarissime, che lei non colloca quella di cui Vinci ha parlato, nella sera (prima parte) del 29 agosto 1984 (si sono comunque verificati, in istruttoria formale, i percorsi e i tempi con la stessa D’Onofrio), ma in una data diversa e antecedente. Ha spiegato che al p.m. aveva dato un’indicazione corrispondente a quella di Vinci, perché lui glielo aveva chiesto in anticamera, ma non era, per parte sua, in grado di ricostruire proprio quella serata.
Il dettaglio di tutti gli accertamenti, degli orari, dei tempi di percorrenza è stato minuziosamente ricostruito nel rapporto dei CC menzionato (22.4.86). A parte il problema dell’attendibilità dei testi a riscontro, e di alcune inverisimiglianze della narrazione dello stesso Vinci, è giusta l’osservazione circa il fatto che, quando tutto combaci e non è così (in un certo lasso di tempo la donna dormiva ed il figlio era fuori), Vinci avrebbe avuto il tempo di andare a Vicchio, commettere il delitto e ritornare a Firenze.
Ma, alla luce delle dichiarazioni della D’Onofrio, vi è motivo di dubitare di tutto quanto dichiarato intorno a quella serata, esattamente come circa il 21 agosto 1968 (v. capo precedente), sulla scorta del riferimento ad avvenimenti accaduti in epoca prossima, ma diversa da quella del fatto, giuocando il Vinci sulla memoria altrui.
Assai più complesso è il problema dell’alibi fornito relativamente al delitto duplice di S. Casciano.
Anche in quella circostanza (supponendo che si tratti della domenica sera), a voler credere a tutti i riscontri (forniti dall’intera famiglia Biancalani, di cui si è detto nel capo precedente), gli restava il tempo sufficiente per recarsi a consumare il delitto e tornare in luogo ove potesse esser fissato un orario (e riuscire quella stessa notte). Ma non mette contro di parlarne, per la ragione semplicissima che non si è in grado di stabilire con certezza l’ora e nemmeno il giorno esatto della consumazione (sabato o domenica). Tutto il ragionamento effettuato nel rapporto dei Carabinieri menzionato, non è verificabile (anche se il controllo è stato fatto presso i Biancalani), senza il parametro di partenza: la certezza del momento di consumazione del reato [si sono acquisite testimonianze circa il momento del delitto, anche a distanza di tempo, in istruttoria formale, ma appaiono prive di sicura attendibilità e comunque del tutto insufficienti].
Va detto, tuttavia, che Vinci non aveva al momento dei fatti una vita scandita da orari (basta leggere i suoi racconti) ed impegni fissi vuoi in famiglia che all’esterno. Il suo stesso lavoro era ancorato ad attese di chiamate estemporanee e di uscite altrettanto estemporanee, in qualsiasi ora del giorno e della notte. Era munito di più veicoli a motore ed in grado di spostarsi con sufficiente rapidità.
Da un certo momento in poi i carabinieri attestano un controllo in talune ore serali e in certi giorni della settimana, ma essi stessi (v. rapporto menzionato) dubitano della continuità ed efficacia del controllo. L’uomo, difatti, è apparso dotato di notevole iniziativa, anche riguardo alle attività motorie. Seguiva una scuola di alpinismo alle Cave di Maiano, ed era munito di strumenti e cordami per calarsi dalle finestre, esercitandosi, verosimilmente, sul retro della sua abitazione. Disponeva anche di locali lontani dal luogo di abitazione, poi risultati in stato di abbandono (periferia Nord di Firenze). Faceva uso di un elmo da minatore munito di lampada.
Le perquisizioni effettuate nei suoi confronti (a partire da quella assai tardiva del 1968), e quella più rilevante suggerita da dichiarazioni della Pierini al p.m., sono risultate vane per quanto concerne la pistola (circa quest’ultima, come risulta da intercettazioni telefoniche, ed indirettamente da una vicenda in cui è implicata la D’Onofrio, una sua amica ed un sottufficiale di Prato, l’uomo era già avvertito dei controlli di P.G.).
È ovvio che detenesse strumenti da punta e taglio, ma non è stato trovato uno strumento descritto in sede testimoniale al p.m..
Particolare attenzione infine hanno prestato i carabinieri, oltrecché al ritrovamento di oggetti per uso di autoerotismo [e risulta che il sesso fosse il suo principale interesse, senza particolari preferenze o riguardi all’età, al sesso, ed al numero dei partners: v. in particolare il supplemento al rapporto menzionato, in data 14.10.1996, che concerne anche i legami, strettissimi anche sotto questo profilo, con ciascuno o entrambi i coniugi Biancalani, riscontrati anche dalla moglie, Massa Rosina] ad un biglietto rettangolare (perq. 26 giugno 1985).
Esso contiene l’appunto: “Sign. Magiore Toriso Via Colli n.101 — 264261”.
Il numero di telefono corrisponde a quello che, all’epoca, identificava l’utenza del gruppo Carabinieri di Firenze, presso il quale prestava servizio il ten. col. Torrisi, autore del rapporto. Via Colli non esiste a Firenze, perlomeno in questa denominazione, mentre esiste una via dei Colli a Signa.

L’imputato ha da ultimo asserito che l’appunto concerne una chiamata ricevuta dai carabinieri per entrare in un appartamento (ma quando?). Il rapportante afferma di non aver mai conosciuto il Vinci prima della perquisizione in casa sua. Ed all’epoca non era maggiore da un pezzo. L’appunto rimane perciò misterioso.
Singolare è anche l’accostamento della circostanza del ritrovamento di una ricevuta della ditta del Vinci, datata 1982, in casa di Meoni Luisa, uccisa da ignoti il 13 ottobre 1984, con il fatto che, sentito dai carabinieri intorno al suo alibi fornito ai carabinieri (e mai più riscontrato) circa l’omicidio dei tedeschi in via di Giogoli (9.9.83), Vinci abbia asserito di avere proprio la sera di quel duplice omicidio, effettuato (alle 16) un intervento in via della Chiesa 42, edificio occupato dalla Meoni. Il teste Casini ha dichiarato al p.m., il 19.4.1985, circostanze tali da far stimare una relazione con la prostituta uccisa. Nel rapporto si formula un’ipotesi di lavoro, che non si è avuto modo di vagliare con attività istruttoria, apparendo l’omicidio della Meoni (ne è copia in atti) caso di per sé complesso, sottoposto ad altra attenzione, e non direttamente connesso con quelli in
oggetto.

9.6 – CONCLUSIONI

Le conclusioni intorno a Salvatore Vinci sono le conclusioni intorno alle indagini (salvo gli aspetti collaterali di cui si dirà nell’ultimo capitolo). Non si è in presenza di indizi che possano evolversi in prova. E la prova, in processi che hanno per oggetto eventi materiali di questa portata, non può essere che reale (nel senso tecnico: “di cose”).
L’assassino (o gli assassini), a stregua degli atti d’indagine preliminare del procuratore della Repubblica, è stato sufficientemente abile da non lasciare tracce utili per la sua sicura individuazione. Le centinaia e centinaia di perquisizioni effettuate nel corso degli anni, non hanno prodotto alcun risultato rassicurante. L’istruzione formale è riuscita ad ottenere elementi materiali o documentali di significato non univoco, come si è visto, ed un oceano di parole, nel quale è stato assai difficile orientarsi, men che giungere in porto.
Si tratta di un affare, per usare un gallicismo, nel quale agli aspetti puramente tecnici si è dovuto assimilare (ma è anche questa una tecnologia propria del giudice) la conoscenza del comportamento umano, e la semantica del linguaggio, che hanno avuto peso in talune scelte e valutazioni. Ed è quello l’ambito maggiore di errore.
Nel caso di Salvatore Vinci, le possibilità di suggestione sono apparse rilevanti. La ricostruzione del quadro criminoso, nel rapporto dei carabinieri 22.4/14.10-1986 sono improntate all’immagine della sua personalità, attraverso una serie di scansioni temporali in se stesse indiscutibili, a partire dalla morte misteriosa della giovanissima moglie, in Sardegna nel gennaio 60, a passare per i suoi singolari rapporti con uomini e donne, decisamente fuori della norma (basti pensare a quelli con coppie di coniugi), per i suoi improvvisi stati di abulia (sino al ricovero in ospedale psichiatrico) e di opposta eccitazione, a finire all’ambiguità del suo comportamento nei riguardi del suo stesso fratello Francesco (v. capo precedente).
Il p.m., in requisitoria, definisce il rapporto dettato da ‘vivo spirito investigativo’. Ma la ricostruzione che offre non ha la pretesa di indiscutibilità e non è seguita, come altrimenti si è letto, men che dalla richiesta, dal suggerimento di un provvedimento di restrizione. Chi ha sottoscritto il rapporto era perfettamente consapevole dei limiti del suo operato. Il rapporto è infine ampiamente documentato, ed il seguito delle investigazioni ha dato spazio ad altri aspetti misteriosi [per esempio gli oggetti pervenuti da un’ultima perquisizione tra cui un rullino fotografico. Il processo di sviluppo/stampa ha rivelato le immagini di una giovane coppia di sconosciuti in automobile, quest’ultima verosimilmente di origine piemontese — le indagini non sono giunte mai a conclusione — in vacanza all’Elba (?)].
Lo scrupolo investigativo non si è fermato comunque a questi aspetti. I carabinieri hanno ricercato nei limiti del possibile l’arma dei delitti (o loro tracce materiali), consapevoli che era e resta l’unico argomento risolutivo.
Le indagini, da ultimo svolte in Sardegna, per individuare l’origine della pistola, si sono arenate presso la bara di un povero emigrante di Villacidro (non v’è ragione di farne il nome), la cui cal. 22 L.R. manca all’appello.
Così, nei confronti di Salvatore Vinci, è rimasto quanto bastava per motivare un mandato di comparizione e poi di accompagnamento, vistocché non era comparso al confronto con la Pierini, da lui chiamata in causa circa la borsa di paglia ed il suo contenuto.
La Pierini è comparsa, ed ammettendo la menzogna per altri versi, ha ribadito assai credibilmente la sua posizione circa questo. I mandati sono stati richiesti dal p.m., sulla scorta degli indizi di cui si è sinora trattato, ovviamente, o di quali altri? — Nulla è mutato in seguito, nonostante altre indagini collaterali (Antenucci – Biancalani e circa l’apprendimento della notizia di reato nel 1982, nella compagnia di Prato).
Riesce perciò difficile intendere le motivazioni in requisitorie del p.m. che, al primo deposito degli atti in suo favore, nello scorso febbraio, aveva richiesto il supplemento d’indagine circa il solo Salvatore Vinci (la qual cosa, par l’intreccio della sua posizione con quella degli altri imputati, significata peraltro proprio dalle indagini da ultimo compiute — Antenucci e Prato — impediva intanto il proscioglimento di questi ultimi).
Si aggiunga che l’ipotesi di lavoro, intorno a Salvatore Vinci era condizionata da un dubbio rimasto irrisolto, che concerneva il nascere dell’accusa di Mele nel 1968 e che s’intrecciava con il tema della responsabilità dei suoi congiunti e di Francesco Vinci.
L’indagine resta senza risultati. È convinzione, puramente razionale, e nient’affatto intuitiva (v. i primi tre capi), come tale suscettibile di dimostrazione in contrario, che nell’accaduto del 1968 sia comunque la chiave per scoprire la verità.

CAP O X

— LE DECISIONI —

10.1 – PROSCIOGLIMENTI

Alla luce di quanto si è sinora ritenuto, in fatto e diritto, tutti gl’imputati dei duplici omicidi e delitti connessi, e Vinci Francesco anche di maltrattamenti (circa i quali, si è visto nel capo V, la perizia
non rileva, e la moglie Vitalia non è parsa attendibile) devono essere prosciolti con la formula per ‘non aver commesso il fatto’.
Alla luce della nuova normativa, è indifferente per il proscioglimento se si sia pervenuti alla prova positiva d’innocenza o se sia carente quella di colpevolezza, o ancora se gl’indizi di colpevolezza siano meramente insufficienti per un giudizio.
Peraltro i dati raccolti sono stati esposti in dettaglio ed egualmente il loro significato, nel ragionamento del giudice, cosicché è palese, ad esempio, per quale ragione si pervenga al proscioglimento di Marcello Chiaramonti e per quale altra a quella di Salvatore Vinci.
Giova piuttosto osservare che il criterio, altrimenti indicato dal p.m., dello stato di detenzione di talun imputato (F. Vinci, ad esempio) al momento della consumazione di uno dei duplici omicidi, non è risolutivo per tutti gli altri delitti a ritroso nel tempo.
Presuppone la certezza nell’attribuzione dei duplici omicidi ad un solo autore (a parte Mele nel 1968), consumati talora a distanza di 6-7 anni, che si è escluso essere acquisita sin dalla premessa di questa sentenza. L’argomento ha attinenza con ipotesi di lavoro di ricerca generica contro ignoti.
Ma non ha nulla a che fare con l’istruttoria svolta, per quanto sia stato adottato, con riferimento al duplice omicidio di Vicchio, anche dal tribunale della libertà.
La ragione di questo ripudio è esattamente speculare a quella del mancato rinvenimento dell’arma.
Si può indurre, da elementi noti, che uno degl’imputati l’abbia detenuta per un certo lasso di tempo, essendo ignoto chi la detenga attualmente (lui stesso od altri). Ma non si può assolutamente ritenere il contrario, e cioè che non l’abbia mai detenuta sol perché appar certo che non la detenga attualmente (in questi limiti, il ragionamento del p.m. nel 1983, all’atto della formalizzazione del delitto di Giogoli, mentre F. Vinci era detenuto, è tuttora valido).
Il mancato ritrovamento dell’arma non consente, tuttavia, di acquisire prova positiva per nessuno dei duplici omicidi della serie, che trova la sua concatenazione proprio nel suo uso ripetuto, a carico di chi si voglia tra i più, talora in alternativa, imputati.
E ciò conferma nel convincimento di prosciogliere tutti, senza soverchi problemi.

10.2 – LA CALUNNIA DI ADA PIERINI

Il rinvio a giudizio di Ada Pierini, s’impone per più ragioni.
L’indicazione data dall’imputata al p.m., relativamente al luogo di ritrovamento della pistola, da lei attribuita a Salvatore Vinci, è risultata chiaramente di fantasia. Sotto il pavimento della camera da letto non era celato alcunché. Appare difficile supporre che potesse esservi una scatola con la pistola, alla luce dell’esperienza fatta.
La Pierini versava le sue dichiarazioni in un momento delle indagini del p.m., durante il quale sono apparse evidentemente attendibili, per quanto via via emergeva a carico dell’accusato.
L’imputata è pienamente confessa, sin dal momento della prima contestazione. E, ferma ogni altra indicazione o accusa versata contro il Vinci, ha rinnegato solo quanto riportato in epigrafe, asserendo, poi da ultimo al g.i., di averlo detto in un momento di particolare condizione psicologica, per il peso dell’inquisizione.
Ma questo aspetto non la scrimina, né rende innocuo il fatto. Alle dichiarazioni incriminate, la Pierini è giunta attraverso un crescendo in contesto credibile, peraltro in parte indirettamente riscontrato da vicende analoghe attestate dalla stessa Rosina Massa (moglie del Vinci).
Si aggiunga che, nonostante la precisa circoscrizione del fatto, la sua menzogna conserva anche all’esito dell’istruttoria un quoziente elevato di ambiguità. Basti pensare alla vicenda dello straccio (di cui si è detto nel capo precedente) nella borsa, che denuncia di per sé un rapporto dell’imputato con arma da fuoco.
L’istruttoria non è riuscita ad eliminarla, anche se nulla, a stregua delle emergenze, dimostra l’implicazione della Pierini nel corpo di reato (lo stesso Vinci che le attribuisce la borsa in cui era contenuto, esclude che sullo straccio possano esservi state, oltre a macchie di sangue, tracce di polvere da sparo).
L’imputata deve comunque essere prosciolta dal reato di falsa testimonianza, perché estinto per intervenuta amnistia.

10.3 – LA CALUNNIA DI STEFANO MELE

Il reato è circoscritto alle dichiarazioni rese da Stefano Mele, per le quali è stata esercitata azione penale (nel 1985), ed il rinvio a giudizio si dispone per quelle che rispondano a due requisiti: sono apparse prima attendibili e poi dimostrate infondate.
I due requisiti, all’esito dell’istruttoria, sussistono solo nel caso delle accuse versate nei confronti di Francesco Vinci.
Nel caso di Cutrona, pur essendo stata esercitata azione penale, esse sono apparse inattendibili appena rese, per il modo stesso e le circostanze in cui erano versate, e perciò ritenute inidonee a far sorgere un processo a carico dell’incolpato (v. r. 6.1).
Mele ha, a suo tempo, ritrattato, confessando il reato di calunnia (rispett. 16-17 gennaio 1988 — v. r. 5.8 e int. cit. del 30.5.85).
È stato sottoposto a perizia psichiatrica. Nel corso dell’esame (uno dei periti era il medesimo del 1969) ha ripreso le accuse contro F. Vinci.
La perizia, minuziosa e puntuale, conclude per diagnosi di oligofrenia a livello d’imbecillità, con rilevanti implicazioni di psicopatia della personalità caratteriale, che comporta seminfermità.
Pur senza dubitare delle ragioni tecniche che sono a base della diagnosi, la ripresa delle accuse contro il Vinci, alla luce degli atti del processo (v. in particolare r. capo II, 4.3, 5.9 e 6.1), mostra essenzialmente una disfunzione dell’affettività, più che dell’intelletto.
In se stessi, i valori posti in discussione dalle dichiarazioni di Mele sono enormi, vistocché egli è sempre stato, fin dal 27 luglio 1982, consapevole delle loro implicazioni, non solo sul passato, ma sul futuro (si guardi la raccomandazione del g.i. in quella data). Ma ciò non sembra averlo mai impressionato più che tanto.
Lo si è anche reso edotto, e con garanzia scritta, circa il fatto che egli non poteva essere implicato in alcuna maniera nei fatti omicidiari, vuoi per il giudicato intorno al primo, che per palese estraneità materiale dagli altri (cfr. r. 4.9).
Per questa ragione, si è sbloccato nel settembre 1982, da una posizione che, pur essendo già di accusa nei confronti del Vinci, non era attendibile, in quanto scevra da una sua diretta implicazione.
Ma prima di accusare il Vinci quale correo, si è voluto sincerare che suo figlio non lo contraddicesse intorno a quanto stava per dire. Ottenuta la certezza che non ne sarebbe stato contraddetto, lo ha incolpato (v. r. capo IV, in part. 4.9 – 4.10 – 4.11).
Tal cosa lascia perplessi intorno alla sua ritenuta parziale incapacità di valutazioni. Sotto questo aspetto, appaiono del tutto irrilevanti alcuni parametri adottati in perizia, quali il livello culturale, l’origine, etc., salvo voler estendere il concetto di oligofrenia la arghi strati della popolazione civile del paese.
Il Mele è incapace di astrazioni, e poco versato in concatenazioni logiche di una certa complessità, come tutti coloro che hanno avuto una scolarità assai modesta e particolari limitazioni nell’acquisizione delle strutture logiche del linguaggio. Ma la sua stessa ostinazione nelle posizioni assunte, invero abbandonata di fronte all’evidenza, non è apparsa minimamente un fenomeno isolato, a fronte della sua cultura sociale.
Lo stesso Francesco Vinci, all’evidenza più abile, pronto e giudicato capace, ha tenuto ferma una posizione insostenibile e che, sostanzialmente, lo esponeva maggiormente all’accusa (ha tenuto fermo di non aver mai detenuto all’epoca dei fatti un’arma, attribuitagli dai suoi stessi familiari e che, trovata pochi anni dopo in suo possesso, gli era costata una condanna definitiva. Quella condanna era una prova a suo favore, trattandosi di un’arma sicuramente diversa da quella ricercata per i duplici omicidi (v. r. 5.6).
Stefano Mele si è mostrato anche maggiormente agile sul piano delle valutazioni di suo fratello Giovanni, che ha sostenuto, sino all’assurdo, una tesi dimostrata infondata sin nei più minuti particolari in sede di contestazioni e persino, in aperto confronto, da colui (Mucciarini) in cui favore la versava (v. r. 7.5).
Ciò lascia intendere che la disfunzione non è nelle capacità intellettive del Mele (più che degli altri menzionati, ed hanno la stessa origine e pressocché la stessa esperienza umana, fuori del crimine), pur nella mancata fruizione, da parte sua, degli strumenti-chiave del linguaggio colto (inteso come struttura logica e rappresentativa della cultura dominante e del costume ufficiale).
Leggendo gli atti ci si avvede che il giudice (e il perito, che Mele assimila al giudice, e, in effetti, utilizza gli atti del giudice) che li compie, ha difficoltà oggettive e soggettive nel colloquio con Mele.
Prende le mosse del discorso da astrazioni e da principi che non hanno per lui significato (si guardino le ammonizioni di dire la verità, nel 1968, e dal 27.8.82 in poi, per ragioni di indiscutibile valore morale, ed ogni volta l’asseverazione di Mele di attenervisi) fuori di una immediata aderenza alla realtà e perciò ad un suo concreto interesse (ed è probabilmente anche in questa mancata sintonia in momenti-chiave, per esempio 27.7.82, 6.9.82, 16.1.84, la ragione del fallimento delle indagini dal 1968 ad oggi).
Mele, viceversa, è sempre apparso capace di rapida intuizione, e di efficace simulazione di atteggiamenti emotivi, al momento, convincenti.
Per esempio, nel verbale del primo interrogatorio, del 16.6.1983 — vol 5./B, fasc. III, c. 94 e ss. reso al giudice (quello che scrive) che aveva sostituita il precedente delegato per le indagini, si legge:
«a domanda del p.m. [risponde]: È vero che quando fui interrogato da lei e dalla signora [6-7 settembre 1982] io non dissi che il Vinci, dopo aver portato mio figlio nella casa di quella famiglia, mi aveva ripreso per la strada ed accompagnato fino al paese. Avevo paura, avevo paura perché non sono mai stato creduto e non ho fiducia nella legge. Ma già quando accusava il Vinci durante il processo, ed ora, dico la verità. L’ufficio dà atto che il test improvvisamente scoppia a piangere e, dopo aver porto la nano al p.m., dichiara: la guardo negli occhi e le stringo la mano forte, e dico la verità. Fu Francesco Vinci a sparare. Glielo giuro su mia madre che non ho conosciuta, perché moriva quando avevo dieci mesi».
In quel momento Vinci era già detenuto da diversi mesi per le sue accuse, reiterate al precedente g.i., e Mele era apparso in difficoltà alla contestazione di talune difformità da parte del nuovo.
Più complesso appare, al termine di una lunga istruttoria, il tema della sua capacità di volere, che è maggiormente legato ai problemi dell’affettività.
Sotto questo aspetto, si è inteso che egli ha una rilevantissima attitudine a secondare le altrui tendenze, fors’anche per paura.
Tanto può averlo reso effettivamente, e per convenienza, una volta assassino e, inquisito, reo confesso e calunniatore.
Anzi la scelta d’incolpare falsamente, nel caso di Francesco Vinci, gli appare l’unico modo di riscattare una condiscendenza forzata, prima del delitto nei suoi confronti e, dopo di esso, nei confronti di chi l’inquisisce (magistrato, perito o carabiniere che sia), alla quale non avrebbe mai voluto adattarsi. Ciò è oggi evidente alla lettura (cfr. 5.8) di quella sua dichiarazione del 15 gennaio 1984, che il Vinci è estraneo al fatto, ma che se sarà costretto a confronto, continuerà ad accusarlo (e il suo profondo rancore per l’accusato che è costretto a discolpare — cfr.: anche 6.1 — ha radici inestirpabili).
Vedendoselo di fronte, quell’ultima volta si rendeva conto di non poterlo soverchiare (nel precedente confronto gli aveva tenuto testa, perché convinto che gli si credesse) e ritrattava, definitivamente, accusando in maniera inattendibile, in sua vece, l’altrettanto innocente Cutrona.
In questa luce, del problema dovrà farsi carico il Tribunale di Firenze.
P . Q . M .
— I —
sulle richieste parzialmente difformi del p.m.; visti gli artt. 254 D.L.. 28.7.1989 n. 271, 378 CPP (R.D. 19.10.1930 n. 1399 e succ. mod.), 425 nuovo CPP (DPR 22.9.1988 n. 447), 1 e ss. DPR 16.12.1986/85; dichiara non doversi procedere
a) contro Vinci Francesco in ordine a tutti i reati a lui ascritti, ad eccezione del delitto di maltrattamenti, per non aver commesso il fatto e a quest’ultimo, perché il fatto non costituisce reato;
b) contro Mele Giovanni, Mucciarini Piero, Chiaramonti Marcello, Vinci Salvatore per non aver commesso il fatto, in ordine a tutti i reati loro ascritti;
c) contro Mele Stefano, relativamente all’imputazione di calunnia a carico di Cutrona Carmelo, perché il fatto non costituisce reato;
d) contro Pierini Ada, per il delitto di falsa testimonianza, perché estinto per intervenuta amnistia;

visto l’art. 374 CPP

ordina

previo stralcio degli atti relativi, il rinvio di Pierini Ada e Mele Stefano al giudizio del Tribunale di Firenze, perché rispondano ciascuno del residuo reato di calunnia loro rispettivamente ascritto;

— II —

sulle conformi richieste del p.m.,
visto l’art. 74 CPP,
decreta
l’impromovibilità dell’azione penale, relativamente alla notizia di sfruttamento della prostituzione a carico di Salvatore Vinci

Firenze 13 dicembre 1989
il giudice istruttore
Mario Rotella

Depositato il 13 dicembre 1989
IL FUNZIONARIO DI CANCELLERIA
(Dr. Sandro Pettinato)

Indice
P R E M E S S A
I – LA SERIE OMICIDIARIA
II – LIMITI DELL’ISTRUTTORIA FORMALE
III – RAPPORTI CON IL PRECEDENTE GIUDICATO
CAPO I
—1968 —
1.1 – LA SCOPERTA DEL DUPLICE OMICIDIO
1.2 – INDAGINI SUL LUOGO E ACCERTAMENTI PERITALI
1.3 – ANALISI DEL COMPORTAMENTO DI NATALINO
1.4 – LE DISTANZE
1.5 – GLI UCCISI E I PRIMI SOSPETTATI
CAPO II
— 1968: STEFANO MELE —
2.1 – EVOLUZIONE DELLE DICHIARAZIONI DI MELE
2.2 – AGEVOLAZIONE DI UN INQUINAMENTO
2.3 – TERZA FASE DI MELE: UN’IMPROBABILE PROMESSA
2.4 – LA CONFESSIONE
2.5 – CHIAMATA IN CORREITÀ E RITRATTAZIONE
2.6 – ALIBI PRECOSTITUITO E DUPLICE INQUINAMENTO DI NATALINO
2.7 – L’ARMA DEL DELITTO SECONDO MELE
2.8 – ARMA E CHIAMATE IN CORREITÀ DI MELE
2.9 – LO SCOPO DEI MUTAMENTI DI VERSIONE
CAPO III
— 1968: NATALINO —
3.1 – DICHIARAZIONI DI NATALINO ED INQUINAMENTI
3.2 – L’ACCOMPAGNATORE
3.3 – ADEGUAMENTO SUBITANEO DI STEFANO MELE
3.4 – INATTENDEBILITÀ DELLA NUOVA VERSIONE DI MELE
3.5 – RAGIONI DELL’ADEGUAMENTO DI MELE
3.6 – POSSIBILI CAUSE DELLA MENZOGNA DI NATALINO
3.7 – «SALVATORE TRA LE CANNE»
3.8 – LIMITI DI ATTENDIBILITÀ DI NATALINO
3.9 – PRIMO ESAME
3.10 – SECONDO ESAME: DIFFICOLTÀ INIZIALI
3.11 – SECONDO ESAME: SEGUE
3.12 – SECONDO ESAME: SEGUE
3.13 – TERZO ESAME
3.14 – LA VERITÀ DI NATALINO
CAPO IV
— 1982 —
4.1 – RIPRESA DELLE INDAGINI
4.2 – LE PROSPETTIVE
4.3 – ESCUSSIONE DI STEFANO MELE DEL 27 LUGLIO 1982
4.4 – ANALISI DEL RACCONTO DI STEFANO MELE AL G.I.
4.5 – LE INDAGINI DEL P.M. (arresto di F. Vinci per maltrattamenti)
4.6 – I FAMILIARI DI MELE (16 agosto 1982)
4.7 – SEGUE (dal 17 agosto in poi)
4.8 – PARENTI ED AMICI DI FRANCESCO VINCI
4.9 – ESCUSSIONE DI MELE DEL 6 SETTEMBRE 82
4.10 – LE DICHIARAZIONI DEL 7 SETTEMBRE 1982
4.11 – ANALISI DELLE DICHIARAZIONI
CAPO V
— FRANCESCO VINCI —
5.1 – VERIFICHE DELL’ACCUSA DI MELE
5.2 – ISTRUZIONE FORMALE
5.3 – MANDATO DI CATTURA
5.4 – NUOVI ACCERTAMENTI PERITALI
5.5 – IL DUPLICE OMICIDIO DEL SETTEMBRE 1983
5.6 – LA VERIFICA A CARICO DI F. VINCI
5.7 – ANALISI DI IPOTESI ALTERNATIVE
5.8 – RITRATTAZIONE DI MELE E CONFRONTO
CAPO VI
— 1984 —
6.1 – LE ACCUSE CONTRO CUTRONA
6.2 – RAGIONI DI SOSPETTO
6.3 – ESCUSSIONE DI GIOVANNI MELE
6.4 – DUE TESTIMONIANZE INTORNO A G. MELE
6.7 – LE PERQUISIZIONI
6.8 – IL FOGLIETTO
6.9 – ‘ZIO PIETO’
6.10 – INTERPRETAZIONE AUTENTICA
6.11 – ALTRE DELUCIDAZIONI CIRCA IL FOGLIETTO
6.12 – LE NUOVE ACCUSE DI STEFANO MELE
CAPO VII
— G. MELE E P. MUCCIARINI —
7.1 – DELITTI DAL 1974 AL 1983 (com. giudiz.)
7.2 – 1968: GLI ALIBI
7.3 – IL MOVENTE
7.4 – IL BIGLIETTO E GL’IMPUTATI
7.5 – SEGUE: LA LETTURA DI P. MUCCIARINI
7.6 – MEZZI DI ESECUZIONE: MARCELLO CHIARAMONTI
7.7 – LE DICHIARAZIONI DI STEFANO MELE
CAPO VIII
— 1985 —
8.1 – LA PAGINA TRALASCIATA
8.2 – AMBIGUITÀ
8.3 – CAUSA DELL’AMBIGUITÀ
8.4 – LE NUOVE ACCUSE DI MELE
8.5 – L’ALIBI DI SALVATORE VINCI NEL 1968
CAPO IX
— SALVATORE VINCI —
9.1 – LO STRACCIO
9.2 – SUA PROVENIENZA
9.3 – LE TRACCE DI SANGUE
9.4 – LA POLVERE DA SPARO
9.5 – ALIBI, PERQUISIZIONI, ED ALTRO
9.6 – CONCLUSIONI
CAPO X
— LE DECISIONI —
10.1 – PROSCIOGLIMENTI
10.2 – LA CALUNNIA DI ADA PIERINI
10.3 – LA CALUNNIA DI STEFANO MELE

13 Dicembre 1989 Chiusura definitiva della pista sarda, Sentenza Rotella

2 pensieri su “13 Dicembre 1989 Chiusura definitiva della pista sarda, Sentenza Rotella

  • 2 Ottobre 2024 alle 10:49
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    Sempre nella cronologia degli eventi, alla voce “2 febbraio 1987” risulta che i Carabinieri vanno alla Casa del Popolo di Vaiano per informarsi se la sera del 21 agosto 1968 c’era stata un’esibizione di pattinaggio.
    Ma dalla sentenza Rotella qui sopra risulta che la rappresentazione di pattinaggio fu a Prato, non a Vaiano…

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    • 3 Ottobre 2024 alle 07:54
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      Vaiano è nella provincia di Prato.

      Rispondi

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