“O verrà assolto o morirà”
FIRENZE – “Ho la sensazione che quest’ uomo possa finire la sua vita qui, se la sentenza sarà quella sollecitata dall’ accusa. Pacciani è un uomo morto. E’ spacciato. Ha la pressione minima a 120, la massima a 190. Per lui il processo non si può fare due volte. O è assolto o per lui è la morte”. Pietro Fioravanti è il primo dei due difensori di Pietro Pacciani a prendere la parola nell’ aula bunker di Firenze per difendere l’ anziano contadino dall’ accusa di essere l’ autore dei sedici delitti del mostro di Firenze. E sin dalle prime battute preme forte il tasto dell’ errore giudiziario, un tasto delicatissimo in un processo indiziario come è questo per i delitti del mostro. “Io sono l’ avvocato e l’ amico di Pietro Pacciani”, dichiara. “Io amo quest’ uomo così sprovveduto. Non difendo il mostro di Firenze ma un uomo disperato nella cui innocenza credo fermamente. Nei suoi occhi leggo la speranza, nel suo cuore la certezza. E ai genitori delle vittime chiedo: permettetemi di versare una lacrima sulle sedici bare”. Accanto a lui Pacciani ascolta in silenzio, la testa china. “Ho lavorato tanto nella vita – pensando al sacrificio che ho provato – speriamo questa lotta sia finita – forse era meglio se non ero nato”. E’ l’ ultima strofa di una poesia di Pacciani. Fioravanti legge queste parole scritte in carcere dal presunto assassino. “Questo è Paccianino, questo è il fringuello, come lo chiamava il padre”. E lui, Pacciani, scoppia in lacrime. “Se voi condannate quest’ uomo – incalza Fioravanti – io penso che sarà commessa una enorme ingiustizia, un enorme errore giudiziario. Voi giudici non dovete essere né tranquilli, né sicuri, né certi. Ricordate San Luca: ‘ Se un cieco guida un altro cieco, tutti e due finiscono nella fossa’ “. E per rafforzare il concetto ricorda la celebre storia del Fornareto di Venezia, ingiustamente condannato nel XVI secolo, e rievoca l’ ultimo processo fascista celebrato a Firenze nel 1943: “Erano processati quattro avversari del regime. Durante la requisitoria, prima ancora della sentenza, davanti alla porta dell’ aula erano state portate quattro bare”. “Altri tempi per nostra fortuna”, commenta. Dopo un incipit così appassionato, l’ avvocato si immerge nell’ impresa più complessa. Lo scopo è chiaro sin dall’ inizio. La difesa intende dimostrare che è stato costruito un “mostro in provetta” e si propone di minare uno dopo l’ altro gli indizi raccolti contro Pacciani. Fioravanti si è incaricato della ricostruzione storica dei delitti del mostro. Oggi l’ altro difensore, Rosario Bevacqua, affronterà i nodi tecnici più dolenti: la cartuccia trovata nell’ orto di Pacciani, il blocco da disegno che si trovava in casa sua e che, secondo l’ accusa, apparteneva a uno dei giovani tedeschi uccisi nell’ 83 dal mostro. Ma è nella storia stessa dell’ inchiesta sui delitti del mostro – sostiene Fioravanti – che si annidano gli errori e le incongruenze che hanno portato sul banco degli imputati Pietro Pacciani. L’ errore-chiave – secondo l’ avvocato – è stato quello di abbandonare la pista sarda. Il primo delitto commesso con la Beretta calibro 22 che poi firmerà tutti gli omicidi del mostro non fu un omicidio a sfondo sadico-sessuale. Fu un’ esecuzione decisa da un tribunale di famiglia. Barbara Locci, uccisa a Lastra a Signa il 21 agosto del 1968 con il suo amante Antonio Lo Bianco, era una donna che amava l’ amore e che tradiva il marito. Era sarda e sardo era suo marito, Stefano Mele. Fu la famiglia a condannarla a morte, fu il marito a provvedere (o a partecipare) all’ esecuzione. E’ la tesi che è costata 14 anni di carcere a Stefano Mele. E’ la tesi che la procura di Firenze oggi contesta frontalmente. E’ la tesi che ieri la difesa di Pacciani ha riproposto con forza, arrivando a sostenere che i delitti del mostro sono opera di una setta di vendicatori maturata all’ interno del gruppo dei sardi: quando uno di loro finiva in carcere, gli altri provvedevano a compiere un nuovo delitto per scagionarlo. La pista sarda – ha sostenuto Fioravanti – era fondata su indizi ben più corposi di quelli che oggi gravano su Pacciani. Ma è una pista che finì in una sentenza di archiviazione amaramente firmata nel 1989 dal giudice istruttore Mario Rotella, che aveva buttato sangue per cavare dal mistero del 1968 le prove per i successivi delitti del mostro. Gli avvocati di Pacciani ribattono: bisogna guardare ancora là, e là Pacciani non c’ è. Quando la pista sarda fu abbandonata, il contadino di Mercatale sembrò la via più facile. Tante le suggestioni: il vecchio delitto del ‘ 51, le violenze alle figlie, quella sua fama di guardone, le bugie da contadino cocciuto. Ma la prova della sua colpevolezza non è stata raccolta.
di FRANCA SELVATICI
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/10/25/verra-assolto-morira.html