Il 19 Marzo 1996 la Procura Generale di Firenze depositò il ricorso in Cassazione sull’assoluzione di Pietro Pacciani avvenuta il 13 febbraio 1996 sulla base del rifiuto di ammettere i testimoni alfa, beta, gamma e delta. Vedi Compagni di Sangue pag. 217

Questa la sentenza: 12 12 1996 Pacciani Cassazione

Questa la trascrizione:

REPUBBLICA ITALIANA
NEL NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE UDIENZA PUBBLICA DEL 12.12.1996

Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Sacchetti Francesco – Presidente
Dott. Gemelli Torquato – Consigliere
Marchese Antonio
Vancheri Angelo
Canzio Giovanni

ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto dal P.G. presso la Corte di Appello di Firenze

C/

Pacciani Pietro nato il 7.1.1925;

e dalle parti civili: Rontini Marzia, Rontini Renzo, Kristensen Winnie, Frosali Pierina, Mainardi Adriana, Mainardi Laura, Meyer Elfride, Sorensen Rusch Waltraud, Nencini Rina, Meyer George, Cambi Cinzia, Cardini Iolanda;

avverso la sentenza del 13.2.1996 della Corte di Assise di Appello di Firenze.

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso, udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dott. Torquato Gemelli.

Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Iannelli che ha concluso per il rigetto del ricorso del P.G. e dei ricorsi di Cardini, Rontini Renzo e Marzia, Kristensen, Cambi, Meyer,

Rusch; inammissibilità dei ricorsi di Frosali, Mainardi Adriana e Laura.

– SVOLGIMENTO DEL PROCESSO –

Tra l’agosto del 1968 ed il settembre 1985 si verificarono in Toscana otto duplici omicidi concernenti quasi
sempre coppie che si erano appartate in intimità in zone di campagna.
Vennero uccisi:
– Barbara Locci e Antonio Lo Bianco la notte fra il 21 e il 22.8.1968 in località Castelletti di Signa;
– Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini il 15.9.1974 in località Fontanine di Rabatta di Borgo San Lorenzo;
– Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio il 7.6.1981 in località Mosciano di Scandicci;
– Stefano Baldi e Susanna Cambi la notte fra il 22 ed il 23.10.1981 in località Bartoline di Calenzano;
– Antonella Migliorini e Paolo Mainardi la notte tra il 19 e il 20.6.1982 in località Baccaiano di
Montespertoli;
– Horst Wilhelm Meyer e Jeus Uwe Rusch, cittadini tedeschi, il 10.9.1983 in località Galluzzo del Comune di
Scandicci; [N.d.R.: il Galluzzo è in realtà comune di Firenze]
– Claudio Stefanacci e Pia Gilda Rontini la notte fra il 29 ed il 30.7.1984 in località Boschetta nel Comune di
Vicchio di Mugello;
– Jean Kraveichvili e Nadine Mauriot, cittadini francesi, la notte del 9.9.1985 nella zona boscosa adiacente
alla via degli Scopeti, tratto di strada che collega la via Cassia con l’abitato di San Casciano.
In tutti i delitti fu usata una pistola Beretta semiautomatica cal. 22 marca Winchester tipo «Long Rifle» e
due delle vittime (la Pettini e il Kraveichvili) furono finite a colpi di coltello.
Subirono l’escissione del pube, prodotta con arnese a punta e monotagliente con lama molto affilata, la De
Nuccio, la Cambi, la Rontini e la Mauriot e queste due ultime anche quella dei seni sinistri; ed un
frammento di tessuto mammario della stessa Mauriot fu inviato in busta anonima, spedita da S. Piero a
Sieve il 10.9.1985, alla Dott.ssa Della Monica, Sostituto Procuratore della Repubblica di Firenze.
Furono indagate e poi prosciolte numerose persone. Una perizia criminologica accertò che era stato
eseguito con modalità diverse dagli altri solo il duplice omicidio Lo Bianco-Locci; e, tranne che per
quest’ultimo, concluse che l’autore fosse stato lo stesso individuo, che aveva operato per soddisfare
l’impulso erotico in maniera abnorme, un soggetto psicopatico a sfondo sessuale.
Le indagini subirono un impulso nel 1989: gli investigatori selezionarono una serie di individui portatori di
caratteristiche omologhe a quelle dell’ «identikit» tracciato dai criminologi e fra costoro fu preso in
considerazione Pietro Pacciani, soggetto dotato di notevole forza fisica, irascibile e violento, che già il
19.9.1985 aveva subito una perquisizione domiciliare, a seguito di una denuncia anonima, ed era stato
condannato per maltrattamenti in famiglia e per violenza carnale continuata in danno delle figlie minori
Rosanna e Graziella, nonché per omicidio volontario in persona di Severino Bonini, sorpreso l’11.4.1951
nell’atto di avere rapporti amorosi con la sua fidanzata dell’epoca, Miranda Bugli, con la quale si era poi
congiunto carnalmente vicino al cadavere; aveva avuto disponibilità di armi da fuoco, corte e lunghe, si era
ripetutamente spostato per lavorare in luoghi risultati non lontani dalle zone in cui erano stati perpetrati gli
omicidi.
L’11.6.1990 fu notificata al Pacciani un’ informazione di garanzia, cui seguirono perquisizioni nelle abitazioni
e sui veicoli in sua disponibilità, con sequestro di documenti e di oggetti vari, tra cui un assegno
pubblicitario recante la dicitura «coppia FI F73759» e una busta contenente appunti, da lui redatti, relativi
all’omicidio dei due francesi ed alla festa dell’Unità tenutasi in Cerbaia l’8.9.1985 – la presenza del suddetto
a tale evenienza sarà poi presentata come alibi – .
A partire dal 27.4.1992 – il Pacciani fu scarcerato per fine pena il 6.12.1991 – furono eseguite altre
perquisizioni ed il 29 successivo in uno dei paletti di cemento piantati nell’orto adiacente all’abitazione del
suddetto, sita nella via Sonnino di Mercatale, fu rinvenuta dalla polizia giudiziaria una cartuccia cal. 22
«Long Rifle» con proiettile di piombo, sporca di terra, risultata attraverso una perizia chimica interrata da
non più di cinque anni a causa del grado di corrosione dell’ottone del bossolo e recante impressa sul
fondello la lettera «H», segno risultato apposto su tutti i bossoli repertati nei vari omicidi; mentre altra
perquisizione eseguita in diversa abitazione dello stesso consentì di sequestrare vari pezzi di stoffa del tutto
uguale a quella in cui era stata avvolta un’asta portamolla, parte di pistola Beretta, fatta pervenire agli
inquirenti; e in quella successiva del 2.6.1992, nella casa di via Sonnino, furono sequestrati, fra l’altro, un
blocco da disegno ed un portasapone ritenuti oggetti ch’erano potuti appartenere al Meyer.

Rinviato a giudizio per rispondere degli omicidi in questione e dei reati connessi, in sede dibattimentale due

testi (Nesi e Longo) riferirono notizie che, per luoghi e tempi, legavano il Pacciani agli omicidi Kraveichvili-
Mauriot.

La Corte d’Assise di Firenze ritenne gli elementi acquisiti validi, tranne che per gli omicidi Locci-Lo Bianco,
per affermare la responsabilità dell’imputato e lo condannò alla pena dell’ergastolo, con l’isolamento
diurno per tre anni: detti giudici tracciarono precise connotazioni dell’omicida e le intravidero nel Pacciani
in quanto compiutamente rispondenti alla sua «personalità» d’individuo sessualmente depravato e quindi
gli indizi esposti furono ritenuti gravi, precisi e concordanti.
Avverso la sentenza, emessa in data 1.11.1994, proposero appello il P.M. ( per l’assoluzione in relazione agli
omicidi Locci-Lo Bianco ) e i difensori dell’imputato.
Il giudice di appello respinse le richieste di rinnovazione del dibattimento, in particolare quelle relative ad
un’ulteriore perizia balistica e ad una perizia sul trincetto ( uno dei due ) sequestrato al Pacciani. Sul primo
punto la Corte d’Assise d’Appello di Firenze dubitò fortemente sulla genuinità della prova con riferimento
alla cartuccia inesplosa rinvenuta nell’orto del suddetto e comunque concluse che mancava la prova
dell’avvenuto incameramento nella pistola adoperata per compiere gli omicidi, a seguito del confronto
eseguito, tra detta munizione ed i bossoli repertati, ad opera dei periti, che, pur riscontrando una buona
corrispondenza reciproca fra le rispettive microstrie più profonde e la lettera «H» impressa sui fondelli, che
presentava caratteristiche morfologiche generali coincidenti ma altresì qualche differenza su quella della
cartuccia inesplosa, non furono in grado di concludere per un giudizio di identità, stanti il mancato
reperimento dell’arma in questione, la disomogeneità dei dati comparati e l’ovvia mancanza d’impronte, in
particolare lasciate dal percussore, sulla munizione rinvenuta.
Sicché ritenne detto giudice superfluo e inconcludente ogni ulteriore accertamento tecnico fra le impronte
di spallamento ( serie di microstrie lasciate dalla massa culatta-otturatore sul margine laterale del cerchio
del fondello della cartuccia, che vengono impresse al momento del caricamento e prima che questa si
alloggi nella camera di scoppio ).
Quanto all’accertamento tecnico sull’arma bianca, la Corte territoriale lo ritenne inutile, essendo
compatibili le soluzioni di continuo, peraltro di eziologia incerta, riscontrate sulla Rontini e sulla Mauriot (
nella zona dei seni sinistri ) e sul Kraveichvili ( sul piano osseo del radio del braccio ferito ), con una vasta
gamma di coltelli.
Nel merito, i giudici di appello criticarono la motivazione della Corte di Assise, partita dalla considerazione
di una sorta di «tipo di autore», ed evidenziarono come le specifiche caratteristiche di questo non si
attagliano, comunque, al Pacciani, autore in passato di un omicidio d’impeto per gelosia, di violenze
sessuali incestuose, solito ad abbandonarsi a depravazioni ed a perversioni che, pur se lo hanno condotto
ad appagarsi nell’osservare l’attività amorosa delle coppie, come anche l’annotazione del numero di targa è
palese conferma, nulla hanno a che fare con modelli sado-feticistici rivelati dall’autore dei crimini, che
uccide e fa scempio del corpo della donna.
Svalutate le testimonianze di Nesi, Bevilacqua e Iacovacci ( con riferimento al duplice omicidio dei giovani
francesi ), ritenuto non falso ma solo incerto l’alibi per la sera dell’8.9.1985, svalutata altresì la
testimonianza del Longo e, in relazione all’omicidio del Meyer, ritenuti non univoci gli indizi costituiti dal
possesso dell’album da disegno e del portasapone, la Corte di secondo grado si soffermò, ritenendolo
punto cardine per la potenziale valenza dimostrativa avvolgente i vari fatti criminosi, sul ritrovamento della
cartuccia nell’orto del Pacciani, contestandone la sicura appartenenza a questo, dubitando della genuinità
della prova e comunque ponendo in rilievo la mancata dimostrazione che la munizione fosse stata
incamerata nell’arma usata dall’efferato omicida.
Ritenuta pressoché nulla la valenza indiziaria dell’asta guidamolla di recupero fatta pervenire da un
anonimo agli investigatori, avvolta con pezzi di stoffa staccati da un lenzuolo rinvenuto nel garage
dell’abitazione del Pacciani, non trattandosi di una parte di pistola riconducibile solo al tipo d’arma usata
dall’assassino e potendosi fare le più svariate ipotesi su come terze persone potessero essere venute in
possesso del tessuto, i giudici conclusero che gli indizi emersi non avessero i requisiti richiesti dal secondo
comma dell’articolo 192 c.p.p. e riformarono la sentenza di primo grado assolvendo l’imputato, dopo aver
ritenuto di non accogliere la richiesta, avanzata dal P.G. in sede di discussione, d’interromperla per
acquisire una prova sopravvenuta.

Più specificatamente il P.G., informato dell’arresto di Mario Vanni a seguito di ordinanza custodiale
eseguita il giorno precedente ( 12.2.1996 ) in relazione al duplice omicidio ( e reati connessi ) eseguito «in
concorso con Pacciani Pietro» in danno della Mauriot e del Kraveichvili, aveva chiesto acquisirsi copia del
provvedimento cautelare, emesso dal G.I.P. del Tribunale di Firenze e dal quale emergeva l’esistenza di
testimonianze dirette sull’episodio criminoso, ed aveva sollecitato nel contempo l’assunzione delle stesse
quali prove sopravvenute alla sentenza di primo grado e assolutamente necessarie per la ricerca della
verità.
E proprio su quest’ultimo punto s’incentra il ricorso del P.G. avverso la sentenza di appello emessa in data
13.2.1996: deduce il ricorrente l’inosservanza del terzo comma dell’articolo 125 c.p.p. e la mancanza e
manifesta illogicità della motivazione, per non avere la Corte argomentato in alcun modo sull’acquisizione
prodromica della suindicata ordinanza cautelare in base al contenuto della quale si sarebbe dovuto stabilire
se ricorressero i presupposti per accogliere o meno la richiesta d’interruzione della discussione per
acquisire, in un processo esclusivamente indiziario, una prova diretta costituita dall’essere emerso che testi
oculari avevano assistito alla perpetrazione dell’omicidio dei due francesi. Né spostava alcunché la disposta
segretazione del nome dei testi ( due oculari e due di supporto ), atteso che trattavasi di persone
esattamente individuate e la desegretazione sarebbe intervenuta entro qualche giorno.
Hanno proposto ricorso, altresì, la parti civili Marzia Rontini, Renzo Rontini e Winnie Kristensen, Pierina
Frosali, Adriana e Laura Mainardi, Elfride Meyer, Waltraud Sorensen Rusch, Rina Nencini, Iolanda Cardini,
George Meyer e Cinzia Cambi; e tutte deducono censure analoghe a quelle presentate dal P.G. ricorrente:
essendo fine primario del processo penale la ricerca della verità, in presenza di prove sopravvenute e
offerte al vaglio del giudice, l’acquisizione delle stesse non è eludibile rifugiandosi nell’astrattezza della
metodologia processuale, essendo un obbligo civile oltre che morale. Deducono inoltre – tranne il Rontini,
la Cardini e il Kristensen – la violazione dell’articolo 192 comma 2 c.p.p., non avendo il giudice di appello
valutato unitariamente il materiale indiziario.
Inoltre, la Rontini deduce la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione per l’operata svalutazione degli
indizi costituiti dal possesso da parte del Pacciani del blocco da disegno «Skizzen-Brunnen» e del
portasapone con scritta «Deis», anche di fronte alle giustificazioni inattendibili dello stesso imputato; e
censura la prospettazione di frode processuale in relazione al ritrovamento della cartuccia e la
svalorizzazione della buona identità affermata dai periti nel confronto fra le microstrie sulla stessa
riscontrate e quelle esistenti sui bossoli repertati.
Il difensore delle parti civili Frosali-Mainardi incentra le sue doglianze soprattutto sull’omessa rinnovazione
del dibattimento per l’espletamento di una perizia tecnica sul trincetto più grande sequestrato al Pacciani,
per accertare se tale arnese possa essere stato l’arma usata per l’escissione dei seni della Rontini e della
Mauriot e per il ferimento del radio all’altezza del polso del braccio destro del Kraveichvili: la
conformazione di detto trincetto si palesa del tutto compatibile con le lesioni accertate dai periti settori,
con riferimento ai segni anomali rilevati lungo i bordi delle zone escisse e in relazione alla conformazione
della ferità riportata dal giovane francese, con perfetta corrispondenza fra la misura della punta dell’arnese
repertato con l’angolo di 139 gradi – punta manomessa con la mola – e la ferita a stampo impressa al polso
destro della vittima.
Censura, poi, l’omesso accoglimento della richiesta di perizia balistica per interpretare definitivamente la
natura delle impronte trovate sulla cartuccia del Pacciani e così stabilire se siano derivate dalla sua
introduzione nella pistola omicida.
Deduce, ancora, il vizio di motivazione della sentenza nello stabilire se l’alibi del Pacciani sia stato falso o
mendace ovvero fallito, sia in base alle dichiarazioni del teste Fantoni, sia a causa delle modifiche apportate
dallo stesso imputato con le sue dichiarazioni succedutesi nel corso degli anni.
Tutti i ricorrenti chiedono annullarsi la sentenza impugnata.
Con memoria difensiva presentata il 2.12.1996 l’avvocato Puliti ( per la P.C. Marzia Rontini ) ha allegato tre
sentenze di questa Corte in materia di misure cautelari personali relative al citato Vanni, deducendo che il
contenuto delle decisioni conferma che le testimonianze di coloro che hanno indicato nel Pacciani il correo
del suddetto indagato e che non sono state ammesse dalla Corte di Assise di Appello nel presente
procedimento sono state poste a fondamento dei gravi indizi di colpevolezza a carico del medesimo Vanni.

Il difensore dell’imputato, Avvocato Marazzita, con memoria depositata il 7.12.1996, ha dedotto
l’inammissibilità del primo motivo del ricorso del P.G. sostenendo che non si è trattato di mancata
valutazione di prova legittimamente acquisita ma di omessa acquisizione di «prova» richiesta da una delle
parti, ipotesi non sindacabile in sede di legittimità, come si evince anche «a contrario» dalla censurabilità ex
articolo 606 lettera d) c.p.p. della mancata assunzione di «controprova» decisiva.
Inoltre, sostiene che l’interruzione della decisione presuppone non la sola prospettazione di prove
acquisibili attraverso ulteriori attività d’indagine, ma l’esistenza di prove già ben determinate, sicché
correttamente è stata respinta la richiesta formulata dal P.G. in sede di discussione: l’articolo 523 comma
sesto c.p.p. fa riferimento a «nuove prove» non all’attività prodromica all’acquisizione di esse. In ogni caso,
la violazione o l’erronea interpretazione di detta norma non sono sindacabili in sede di legittimità ai sensi
dell’articolo 606 lettera c) c.p.p., che prevede l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità,
inutizzabilità, inammissibilità e decadenza; né ai sensi dell’articolo 606 lettera e) c.p.p. per pretesa illogicità
della motivazione, spettando solo al giudice del merito stabilire se si siano verificate le condizioni per
interrompere la discussione.

– MOTIVI DELLA DECISIONE –

La responsabilità del Pacciani fu affermata dal giudice di primo grado e negata dal giudice di appello sulla
base di un complesso di indizi ritenuti dalla Corte di Assise sufficienti ai fini della pronuncia di condanna e
svalutati invece dal giudice di appello.
Il ricorso del P.G. s’incentra sulla violazione di legge e sulla mancanza di motivazione in cui la Corte d’Assise
d’Appello sarebbe incorsa nel negare l’assunzione di nuove prove dirette sopravvenute nel corso della
discussione, la cui rilevanza avrebbe i requisiti di assoluta necessità ai fini del giudizio ricostruttivo e
valutativo dei fatti, avendo ad oggetto la testimonianza di chi avrebbe assistito «de visu» al duplice
omicidio Mauriot-Kraveichvili.
Si tratta di questione preliminare ed assorbente rispetto alle doglianze prospettate dalle parti civili, le quali
– a loro volta – censurano anche l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione per ciò che concerne il
giudizio valutativo degli indizi, singolarmente e nel loro complesso, essendo evidente che la valenza
probatoria degli indizi debba correlarsi all’esito della prova diretta.
La sostanziale tendenza alla verità assoluta quale principio posto a base del processo inquisitorio, in
contrapposto alla verità relativa, raggiungibile nel processo penale quale utile schema euristico che
connota il rito accusatorio puro, in cui il giudice mantiene la funzione di arbitro imparziale che assicura
l’osservanza delle regole senza un contributo officioso alla ricerca della prova, cede il passo nell’attuale
ordinamento, in particolare dopo i ripetuti, significativi interventi del giudice delle leggi, alla concezione
dinamica di un moderno processo accusatorio integrato che contempera il fine primario della ricerca della
verità, il più possibile reale, con la funzione del giudice non limitata a mera tecnica di risoluzione dei
conflitti dei diritti contrapposti dell’accusa e della difesa, ma che si estende all’intervento officioso in
materia probatoria, in deroga al principio dispositivo della prova esclusivo di parte. Funzione che s’inserisce
nel metodo dialogico di formazione della prova adottato dal legislatore quale scelta primaria di conoscenza
dei fatti e ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto possibile pieno accertamento, scaturente dal
confronto dialettico delle parti cui si affianca l’intervento, residuale ma riequilibratore, del giudice teso ad
integrare ed eventualmente a supplire alle carenze, per far coincidere il più possibile l’orizzonte del
dimostrabile con quello della verità al fine di evitare assoluzioni o condanne ingiuste.
L’esistenza del potere d’intervento del giudice teso a fornire concreti elementi di giudizio è corroborato,
oltre che dal contenuto dell’articolo 6 comma 3 lettera d) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo ( ratificata con la legge n.848/55 ), da una lettura logico-sistematica delle norme che lo
prevedono e dalle interpretazioni date dalla Corte Costituzionale ( Sez. Un. Sentenze n. 17/92 e 22/95 ) in
particolare al contenuto dell’articolo 507 c.p.p. e dell’articolo 603 c.p.p., norma quest’ultima speculare alla
prima e disciplinante il giudizio di appello con la creazione di un raccordo fra sistema di tipo accusatorio e
sviluppo del processo anche in tale grado, con poteri d’impulso integrativi e finanche suppletivi da parte del
giudice dell’impugnazione tesi alla ricerca della verità sostanziale il meno imperfetta possibile, scevra da

ostentati crismi di assolutezza e però non ridotta a verità formale che potrebbe conseguire ad un processo
di stretto stampo accusatorio, il quale rischierebbe di tradursi in indiretta disponibilità della regiudicanda in
capo alle parti, in special modo in conseguenza della loro inerzia, contraria ai principi di legalità e di
obbligatorietà dell’azione penale e che finirebbe con lo snaturare la funzione della giurisdizione penale.
In una scala i cui estremi vanno dalla non conoscenza alla verità assoluta, il vigente codice di procedura
penale si colloca ad un livello che ne proietta le regole probatorie verso la ricerca della verità processuale,
attraverso un impegno persistente e critico che conduce a coglierla come risultato il più possibile
corrispondente a quello voluto dal diritto sostanziale ma raggiunto esclusivamente nel processo e dal
processo, con modi e forme talmente essenziali da essere escluse, se inutilizzabili, prove che pur
potrebbero risultare decisive. Tutto in vista di una «decisione giusta», indipendentemente dalla condotta
processuale delle parti: finanche se è stato scelto il rito abbreviato, quindi con decisione allo stato degli atti
e con rinuncia all’esercizio del diritto alla prova, è consentito al giudice di appello di ammettere di ufficio (
articolo 603 comma 3 c.p.p. ), eventualmente sollecitato, prove ritenute indispensabili, ( Cass. Sez. Un.
sentenza n. 22/95).
In tale quadro di ricerca della verità si inserisce il principio cardine del diritto alla prova: ricerca e diritto che
si coniugano, mentre fa da cornice l’intervento residuale officioso del giudice in vista di una condanna o di
un’assoluzione giuste.
Il regime della raccolta delle prove, in attuazione della direttiva n.3 dell’articolo 2 della legge delega (
n.81/87 ) per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale che enuncia la facoltà delle parti di
indicare elementi di prova «in ogni stato e grado del procedimento», è congegnato nel vigente rito sì da
esplicarsi nel giudizio di primo grado col riconoscimento del «diritto alla prova» ( artt. 190 e 190 bis c.p.p. –
con le connesse facoltà prodromiche della difesa ex articolo 38 delle Norme di Attuazione – ) inserito in uno
schema variegato: l’incidente probatorio ( articoli 392 e segg. e 551 e segg. ), l’assunzione di prove, non
rinviabili, nella fase degli atti preliminari al dibattimento ( art. 467 ), la citazione di testimoni, periti e
consulenti ( art.468 ), la richiesta di acquisizione di prove non potute indicare tempestivamente ( art. 493
comma 3: prima ipotesi di «novum» inserita nella fase degli atti introduttivi al dibattimento ), i
provvedimenti del giudice in ordine alla prova ( art. 495 ), e le regole di assunzione ( articoli 496 e segg. e
567 e segg. ), l’introduzione di un potere parallelo officioso del giudice ( articoli 506, 507, 508 c.p.p. e 151
N. di attuazione ), il regime delle contestazioni ( artt. 500 e 503 ) e quello delle letture ( artt. 511 e segg.
c.p.p. ).
Fin qui la «fisiologia» del regime probatorio, cui si affiancano situazioni eccezionali che riespandono il
diritto alla prova ( articolo 519 c.p.p. a seguito delle pronunce di incostituzionalità con le sentenze n.241/92
e 50/95 C. Costituzionale ), quali la modifica dell’imputazione ( articolo 516 ), la contestazione di un reato
concorrente o di una circostanza aggravante ( art. 517 ) o di un fatto nuovo ( art. 518 ) risultanti dal
dibattimento; e che culminano con la previsione contenuta nel sesto comma dell’articolo 523 c.p.p. che,
superando i principi dell’immediatezza e della concentrazione che connotano la fase della discussione, ne
consente l’interruzione per l’assunzione di «nuove prove» in caso di «assoluta necessità».
Il regime dell’assunzione della prova in sede di gravame si pone invece nell’alveo di situazioni che non
costituiscono la norma, connotandosi di eccezionalità con la previsione dell’eventuale rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale in appello secondo il disposto dell’articolo 603 c.p.p., a seguito della richiesta
contenuta nei motivi ( co. 1 ), per la sopravvivenza o la scoperta dopo il giudizio di primo grado di «prove
nuove» nei limiti previsti dal primo comma dell’articolo 495 cit. ( co. 2 ) o ex officio se il giudice lo ritiene
«assolutamente necessario» ( co. 3 ); fino a raggiungere una marcata eccezionalità nel caso in cui la
discussione in appello può essere interrotta in forza del richiamo operato dal quarto comma dell’articolo
602 a tutte le disposizioni dell’articolo 523 c.p.p.
Il principio che si trae dal sistema normativo dell’assunzione probatoria è la previsione di uno snodo
progressivo simmetrico inverso: l’esperibilità di nuove indagini probatorie diminuisce via via col procedere
dell’accertamento verso la decisione. Man mano si delinea più precisa la regiudicanda attraverso la ricerca
e la scelta degli elementi considerati necessari per la migliore ricostruzione del fatto, vieppiù la necessità
della raccolta del materiale probatorio si assottiglia a causa dello sganciamento progressivo dalle variabili
del mondo esterno in rapporto alla valutazione della maggiore potenzialità persuasiva raggiunta,
conducente il più vicino possibile all’accertamento della verità reale secondo le regole del rito.

Ma il diritto al «processo giusto» non sottrae al giudice il potere-dovere di valutare preventivamente
l’ammissibilità e la conferenza delle prove richieste: la sua funzione di escludere già inizialmente quelle
vietate dalla legge, manifestamente superflue o irrilevanti ( art. 190 comma 1 c.p.p. ) o di revocare in corso
di assunzione le prove ammesse che risultassero superflue o di ammetterne altre già escluse ( art. 495 co. 4
c.p.p. ) si restringe, ma diventa più penetrante con l’approssimarsi della decisione, fino ad una valutazione
di decisività della prova ( «assoluta necessità» ), secondo il disposto degli artt. 507 e 523 co. 6, cui è
speculare in grado di appello il disposto degli artt. 603 co. 2 e 602 co. 4 c.p.p., con l’ovvia conseguenza
rispetto alla premessa ( maggiore acquisizione di conoscenza che si coniuga con la maggiore probabilità di
poter decidere allo stato degli atti ) che la valutazione estrema prefigurata nell’ultima norma ( 602 co. 4 )
debba essere operata in maniera assai incisiva e rigorosa nella fase della discussione del processo di appello
rispetto alle valutazioni da operarsi ( già rigorosamente ) nell’omologa fase di primo grado, dove è più
naturale che il fatto da accertarsi possa non essere stato ancora traslato compiutamente dal mondo
esterno alla conoscenza del giudice, come invece, di regola, è già avvenuto alla soglia della decisione finale
del merito.
Diritto alla prova, quindi, misurato secondo ciascun grado e fase del processo, con l’ulteriore conseguenza
che all’approssimarsi della fase terminale della conoscenza della regiudicanda anche l’intervento officioso
s’innesta nell’ambito dell’«assoluta necessità» dell’acquisizione probatoria; e in tal senso l’ultimo comma
dell’articolo 523, richiamato dall’ultimo comma dell’articolo 602 c.p.p., si coniuga oltre che col secondo
anche col terzo comma dell’articolo 603 c.p.p.
Il risultato di tutto ciò è l’affermazione del principio che il giudice di appello, il quale già prima della fase
finale del grado ha il potere-dovere ( arg. ex art. 603 c.p.p. ) di valutare l’assoluta necessità di assumere il
«novum», è tenuto ai sensi dell’articolo 602 co. 4 c.p.p., norma di chiusura definitiva del sistema
probatorio, ad interrompere la discussione se la nuova prova per la sua conferenza e decisività, attraverso
la deliberazione del mezzo di ricerca teso ad indurla, si presenti apprezzabile per il suo valore dimostrativo
«determinante», a sostegno di un’ipotesi ricostruttiva completa dei fatti, il maggior grado possibile vicina
alla verità reale in vista del giudizio finale di merito.
La presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, presidiata dal secondo comma
dell’articolo 27 della Costituzione, ha il suo referente processuale nel principio «in dubio pro reo», regola di
giudizio che passa attraverso il filtro del materiale probatorio raccolto, evitando il rischio della «prova
mancata» per l’inerzia delle parti o per lacune o deficienze riscontrabili nel processo. L’interesse
preminente dello Stato di punire il colpevole e di assolvere l’innocente impone che la condanna o
l’assoluzione non conseguano a carenze probatorie colmabili: così il diritto al prova per un «novum»
connotato dalla decisività riemerge tanto ai fini di una giusta assoluzione, quanto al fine di ottenere una
giusta pronuncia di condanna. E del suo potere discrezionale di valutare l’esistenza, l’utilità e la decisività
della nuova prova – «quaestio facti» di esclusiva competenza del giudice del merito – anche il giudice di
appello deve dare congrua ragione in vista dell’assoluta necessità di interrompere la discussione per
acquisirla.
Per altro verso, la decisione del giudice di appello che comporti riforma della sentenza di condanna di
primo grado impone la dimostrazione di non correttezza o della incompletezza o dell’illogicità delle
argomentazioni contenute in quest’ultima in ordine alla valutazione delle prove, con penetrante e coerente
analisi critica seguita da adeguata e convincente motivazione che, sovrapponendosi a quella del primo
giudice senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi
di prova diversi o diversamente valutati, anche alla luce dell’acquisizione di un «novum» , cui è speculare
l’obbligo automatico dello stesso giudice, sollecitato dalla parte interessata, di ammettere la prova
contraria, salvo che ne risulti la superfluità.
Alla stregua dei principi enunciati è evidente la violazione di legge in cui è incorsa la Corte d’Assise
d’Appello di Firenze con riferimento al disposto degli articoli 602 co. 4, 523 co. 6, 128 ( norma di
collegamento ), e 234 c.p.p., avendo omesso di prendere nella debita considerazione, per eventualmente
ammetterla, la nuova prova così come prospettata dal P.G. nel corso della discussione ed in conseguenza di
motivare congruamente sulla concludenza e decisività della relativa assunzione, anche alla luce della
esclusiva indiziarietà del materiale probatorio fino a quel momento acquisito, poiché è corollario del diritto
alla prova il privilegio normativamente accordato ( arg. ex art. 192 co. 2 c.p.p. ) alla prova diretta rispetto a
quella indiziaria. Sussiste l’obbligo del giudice di acquisire la documentazione prospettata dalle parti anche

nella fase della discussione, per l’esame prodromico dell’esistenza di un «fumus» della pertinenza e
dell’utilità di un «novum» e per stabilirne nel contempo la decisività: non è di scarso rilievo che nel vigente
sistema processuale penale sia prevista l’interruzione della discussione per l’assunzione di nuove prove in
caso di «assoluta necessità», mentre l’articolo 469 del previgente codice di rito nel regolare l’istituto in
questione prevedeva l’interruzione solo in caso di assoluta ed «evidente» necessità. L’aggettivo «evidente»
che non figura nella formulazione del citato comma dell’articolo 523 c.p.p. vigente non è senza significato:
conferma l’obbligo del giudice di procedere ad un esame preliminare del mezzo di prova offerto, per
apprezzare la pertinenza, l’utilità e la decisività della prova nuova, onde assumerla per la decisione giusta.
Sotto il profilo strettamente processuale, poi, è erronea l’affermazione della Corte di merito, secondo cui
non si era in presenza di richiesta inquadrabile nello schema previsto dell’articolo 523 co. 6 c.p.p., non
essendo stata articolata la nuova prova mediante l’indicazione nominativa dei testi per la disposta
segretazione e non essendo stati indicati fatti specifici oggetto del relativo esame.
Come esattamente rileva il P.G. nei motivi di ricorso, i testi dei quali era stata richiesta l’assunzione erano
persone ben individuate e la desegretazione dei relativi nomi sarebbe intervenuta entro qualche giorno,
sicché ne sarebbe stata possibile l’audizione sospendendo il dibattimento per breve tempo a norma
dell’articolo 603 co. 6 c.p.p. se la Corte, esaminato il documento del quale era stata chiesta l’acquisizione,
avesse ritenuto l’assoluta necessità di procedere all’assunzione della nuova prova.
Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di
Assise di Appello di Firenze che, uniformandosi ai principi su enunciati, dovrà valutare la rilevanza e la
decisività della prova dedotta in appello dal P.G. e, all’esito dell’eventuale acquisizione, rivalutare tutti gli
elementi probatori al lume delle nuove risultanze.

– P.Q.M. –
Letto l’art. 623 c.p.p.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Corte di Assise di Appello di Firenze per nuovo
giudizio.
Roma 12.12.1996

IL PRESIDENTE
( dott. Francesco SACCHETTI )

IL CONSIGLIERE ESTENSORE
( dott. Torquato GEMELLI )

19 Marzo 1996 Ricorso in Cassazione sull’assoluzione di Pietro Pacciani
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