5 Marzo 1998, 64° udienza, processo, Compagni di Merende Mario Vanni,  Giancarlo Lotti e  Giovanni Faggi per i reati relativi ai duplici delitti del MdF e Alberto Corsi per favoreggiamento.

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Avvocato Nino Filastò, Pubblico Ministero Paolo Canessa, Mario Vanni

Presidente: Allora, Nicla, diamo atto c’è Vanni col suo difensore, i due difensori. L’avvocato Mazzeo mi sostituisce anche Bagattini per Faggi. Fenies, Zanobini per Corsi. E Bertini per Lotti. Lotti c’è stamattina? No. 

(voce non udibile)

Presidente: Non c’è. E l’avvocato Voena per le parti civili, mi rappresenta anche le altre parti mancanti. Allora…

P.M.: Presidente, chiedo scusa. Un attimo solo. Volevo ottemperare a quella richiesta, che la Corte aveva fatto giorni fa, di depositare gli originali delle agende del 1981 sequestrate al Faggi.

Presidente: Sì.

P.M.: Il verbale di perquisizione e sequestro dovrebbe essere già in atti, dal quale risulta un particolare in più. Cioè, che le agende relative al 1981 sequestrate al Faggi sono due, in realtà, non una sola. E c’è quella di cui si parla un po’ nel 1’annotazione della Polizia Giudiziaria, e della quale vi ha riferito in udienza il dirigente della Squadra Mobile dottor Giuttari, che è questa, è l’agenda marrone.

Presidente: Si.

P.M.: Che, risulta dal verbale di sequestro, fu reperita nella scrivania nella stanza adibita a studio nella abitazione del Faggi. È quella nella quale c’è l’annotazione famosa, alle date 21 e 22 del mese di ottobre dell’81, relativo alla gita a Celano Fucino, di cui fra l’altro ha parlato il teste Felli e che è stata oggetto di discussione da parte della difesa a dimostrazione del fatto che se era a Celano Fucino, il Faggi sostanzialmente aveva un alibi per quel giorno. Un esame del verbale di sequestro ha consentito, tuttavia, di identificare che era stata sequestrata una seconda agenda al Faggi, la quale era, diciamo, conservata nella cantina, nel garage del Faggi. L’esame che è stato fatto successivamente, cioè in questo giorni, proprio su impulso della Corte, ha consentito di verificare un elemento che non era stato apprezzato a sufficienza, in un primo momento. Cioè, in questa seconda agenda, sempre del 19 81, che fra l’altro risulta essere l’agenda vera perché è piena di indicazioni – mentre l’altra che lui aveva nella sua scrivania, in fondo contiene pochissime annotazioni per quei giorni – dicevo, questa agenda vera mostra che la situazione obiettiva è diversa. Perché in questa seconda, che io dico vera, comunque poi la Corte apprezzerà – essendo documento è già sequestrato – la gita al Fucino viene diciamo spostata, o comunque collocata in date diverse, nel 4 e 5 novembre. Cioè, l’indicazione è identica, però è in date diverse. E corrisponde sostanzialmente a quella testimonianza in aula del Felli, il quale diceva di ricordare che la venuta del Faggi a casa sua corrispondeva alla fine di ottobre, primi di novembre di quell’anno, che era l’epoca della raccolta delle patate. Quindi direi, il dato obiettivo che risulta dai documenti ‘ sequestrati al Faggi, porta questa diversificazione di annotazioni, sulle quali poi in replica, ovviamente, il P.M. cercherà di fare le sue valutazioni, dal momento che è un elemento che è stato ancora meglio sviluppato a seguito della richiesta della Corte. Io mi sono premurato comunque di fare delle copie integrali di queste agende, che ho messo a disposizione già ovviamente dei difensori di Faggi, ne ho altre due o tre copie nel caso interessi a qualcuno degli altri difensori. Sono a disposizione. Per dovere, credo che sia opportuno che la Corte esamini anche — e per questo faccio la produzione – un’altra agenda: quella del ’79, sempre sequestrata a Faggi e che era nel – come risulta dal verbale di sequestro – nel garage. Perché l’agenda del ‘7 9? Perché, come il teste Felli riferì in aula, le gite a Celano nel Fucino da parte del Faggi, le visite al Felli non sarebbero state una sola ma due. Il Felli colloca la seconda visita in epoca antecedente. Mi sembra di ricordare – ho riguardato il verbale – che dice negli anni ’80-’81. Per la verità c’è, nell’agenda del ’79, un’annotazione alle date del 23—24 ottobre del 19 7 9 di una gita a Celano nei giorni per l’appunto 23-24 ottobre. C’è una caratteristica: che questa annotazione è fatta esclusivamente a lapis, mentre tutta l’agenda, che contiene per la verità pochissime annotazioni, è scritta a penna. Anche questo sarà oggetto di esame da parte del P.M. in sede di replica. Anche di questa agenda io ho provveduto a fare copia, consegnandola ai difensori del Faggi. Se qualcuno ha interesse, degli altri difensori, io ne ho copia anche per loro. Deposito anche – per mero scrupolo, ma dovrebbe esserci già in atti, perché atto irripetibile – il verbale di sequestro di queste agende. Mi riservo poi in replica di spiegare il punto di vista del P.M.

Presidente: Va bene. Voglio solamente precisare che l’impulso della Corte era solamente relativo all’acquisizione dell’agenda ’81 che non avevamo. Quindi, non sapevo dell’esistenza di questa seconda agenda.

P.M.: Sì, Presidente. Ecco, diciamo per non perfetto esame delle carte, non l’avevamo verificato a sufficienza, né la Polizia Giudiziaria, né il P.M. Però il dato obiettivo è che nel verbale di sequestro risulta chiaramente che furono sequestrate due agende dell’81 e credo sia mio dovere darle tutte e due; oltre che dovere è un elemento processuale molto importante, che cambia sicuramente quanto meno la discussione sulla posizione del Faggi. Perché qui c’è un alibi fallito. Ma questo è un elemento diverso, di cui i difensori di Faggi sono già a conoscenza. Essendoci anche l’altra annotazione sulla agenda del ’79, ho ritenuto opportuno, per mio dovere, fornire alla Corte anche questo elemento obiettivo che risulta comunque da quel verbale di sequestro…

Presidente: Va bene.

P.M.: …atto irripetibile, di cui la Corte doveva essere già messa…

Presidente: Va bene.

P.M.: …non solo al corrente, ma a disposizione.

Presidente: Va bene. Un’altra precisazione. La necessità di questa agenda era in relazione a quanto affermò la parte civile, rappresentata dall’avvocato Voena, perché adduceva a un’annotazione proprio il giorno del delitto: 23 ottobre del ’81.

P.M.: Esatto. Per correttezza, l’avvocato Voena… Ho fatto copie anche per lui e gli ho già depositato copie, di modo che, siccome ha concluso e ha diritto di replica, se crede, se ha qualcosa da dire, le carte sono a sua disposizione. 

Presidente: Certo.

P.M.: Tutti gli altri difensori che ne avessero bisogno, io ne ho copia. Ho interesse.

Presidente: Bene. Allora, possiamo iniziare. Avvocato Filastò, la parola a lei. Grazie.

Avv. Nino Filastò: Grazie, Presidente. Signor Presidente, Signori della Corte: buongiorno, prima di tutto.

Presidente: Buongiorno.

Avv. Nino Filastò: In questo processo, signori, si respira un’aria piuttosto viziata. Il processo è annoiato da un odore sgradevolissimo di saponetta da basso costo, da toilette, se mi capite. Accanto ai delitti, atroci, terribili, di cui si dovrebbe occupare questo processo, accosta questa sessualità “meschina”, per usare un aggettivo che non è mio ma che è di Gabriella Ghiribelli: “mignotta sì, ma meschina no”. Meschina, povera, triste. E questo odore fastidioso permane, a sproposito, come vedremo. Suggestivamente a sproposito in questo processo. E quindi consentitemi, prima di tutto, di aprire la finestra, fare entrare un po’ d’aria più pura, comunicandovi una specie di atteggiamento, che è di questo difensore quando, una volta ogni tanto, i ritmi sono lenti. Lavorini, strage di Petriano, Italicus, 904. Gli capita a questo difensore di entrare dentro a uno di questi mastodontici processi di cui si nutrono a volte le nostre aule giudiziarie, con queste carte che non finiscono più, con questi armadi di carte.xE mentre lavoro, studio – sono abituato a studiarli i processi, mi hanno insegnato così – mi capita, come dire, di provare una specie di affetto per i Giudici che poi mi ascolteranno. Non voi, non personalmente voi. Un Giudice ideale – che mi auguro non metafisico, però – e son confortato in questo atteggiamento mentale dalla memoria di un grande giurista, umanista, grande scrittore anche, Piero Calamandrei. Il quale, su questo Giudice, ha scritto un bellissimo libro che si chiama “L’elogio dei Giudici”. E questo Giudice ideale, vedano, rispetto al quale io provo questo sentimento di affezione, è un Giudice terzo, prima di tutto; e siccome la parola è significativa, però bisogna, dal significante, passare all’autentico significato. Terzo che significa? Significa non burocratico, prima di tutto. Significa separato, discinto da qualsiasi bureau, da qualsiasi ufficio, inteso come struttura, come istituzione. Significa non solo capace di ascoltare le ragioni delle parti, ma anche di esser libero – libero, davvero libero – da tutte le suggestioni, che tanto più ci sono, esistono, son nell’aria, insieme a quell’odoretto che dicevo prima, a quella piccola puzza di cui facevo riferimento prima, c’è poi questo clamore intorno a questo caso, che è dato da anni e anni e che riempie le cronache dei giornali, non solo, ma le conversazioni, le analisi, i discorsi, le opinioni. Chiunque di voi, prima, prima di diventar Giudici di questo processo, ha avuto la sua idea sul Pacciani, è inutile nasconderlo. Innocente o colpevole? Eh, come si fa? È difficile esser terzi da questo punto di vista, esser terzi anche nei confronti di Pietro Pacciani, defunto, è difficile; ma necessario, Signori, indispensabile per voi. Giudice terzo e instancabile, scrupoloso fino alla pignoleria. E fra poco vedremo fino a che punto ce n’è bisogno di questo sguardo attento, profondo, che guardi le carte – perché si tratta anche di guardare le carte – le legga, ma le legga bene, non come qualcuno, qui, le ha lette; sbagliando, incorrendo in un infortunio grave, prendendo poi spunto per dare lezioncine di deontologia agli altri da questo errore. E anche, se volete, immaginativo, quando occorre. Di quella immaginazione galileiana, sapete: “Se taluno ha una cosa da trovare, ha da far lavorar la fantasia e giocar di invenzione e indovinare.” Lo disse Galileo Galilei questo. C’è bisogno anche talvolta di far quel salto, quella che un filosofo americano, pragmatista, chiama “abduction”, abduzione; fondata, certo, fondata su dati obiettivi, seri. E poi, dove non si può arrivare, ecco, sì, anche questa. E mai preconcettuale, mai. Tabula rasa fino alla decisione finale, ma non soltanto sul tema principale; no: su ogni singolo argomento, su ogni singola questione, scevro da preconcetti e mai indifferente. Sopra Vicchio, o Ponte a Vicchio, sopra quella via Sagginalese, un po’ più in là, un po’ più su, su quei monti, che sono le propaggini dell’Appennino, c’è Barbiana, l’ho visto passando, la freccia: Barbiana. Io ci andavo, lo conoscevo don Milani. Un uomo straordinario. Don Milani sulla lavagna ai suoi ragazzi, quando cominciava la scuola, il primo giorno scrive: “I care it”, mi riguarda. Non c’è niente che non vi riguardi in questo processo. – Qualcuno vi ha detto – voi sapete, c’è stata anche un po’ di polemica – ma noi abbiamo questi delitti, il convento passa questo. L’accusa ha circoscritto la materia entro questi binari e qui dovete restare. No, no, no. “I care”, vi riguarda. Vi riguarda il ’68, vi riguarda il ’74, vi riguarda l’81 di giugno. Eccome se vi riguarda. E non solo questo, ho fatto ora qui l’esempio più cospicuo. Ci sono altre cose che vi riguardano in questo orrendo processo, orribile, il pasticcio più perverso nel quale mi sia mai imbattuto in 35 anni di carriera. E infine consapevole e contemporaneamente perfettamente responsabile del suo potere. È questo che più che altro mi affascina del vostro lavoro in questo momento: questa vostra potestà, quasi divina. Nessuno, nessuna cosa al di sopra di voi: né l’opinione pubblica, cosiddetta; né la stampa, più o meno forcaiola su questo fatto, su questi fatti; né gli apparati burocratici; né l’ansia di chi vuole trovare il colpevole, anche legittima, dei parenti delle vittime. Tanto al di sopra da essere terribilmente solo, ciascuno di voi; solo. Con se stesso con la sua coscienza, anche quando giudica in collettivo: solo. Certo, certo. Ed è a questo mio affezionato Giudice che parlo, rispettandolo profondamente. E vi dico che in questo processo siamo in pochi ad amarlo, questo Giudice, e in pochissimi a rispettarlo, ahimè. Rispettarlo nel senso di, prima di tutto, evitare con mezzi – non voglio usare aggettivi – con mezzi discutibili, di captare la suggestione sua, di tirarlo da una parte con le suggestioni, con i sottopensieri, con i misteri, con le indagini che si devono fare – dottor Giuttari, vero? – e che sono in corso e che non si sa ancora a che punto sono arrivate. Con il dire: beh, aspettate e vedrete, per ora noi si indaga sui maghi, sui misteri, sui filtri, sul dottore. Eh, ma non disturbate il manovratore per ora: segreto istruttorio, chi vivrà vedrà. Questo è un processo a uno; uno? Accidenti, uno. Poi ci sarà l’altro, eh, poi vedremo, eh. Abbiate fiducia, aspettate vedrete. E questa cos’è? Questa cos’è se non un’inammissibile suggestione. E guardate non è che io vi sto inventando le cose, perché c’è nella prerequisitoria del dottor Giuttari, c’è proprio un punto preciso, dice: ‘ma questa storia?’ ‘Questa storia, abbiate pazienza, noi stiamo indagando, dobbiamo vedere, segreto istruttorio. Salvo poi leggere sui giornali notizie filtrate, non si sa bene come, informazioni, leggere le cose più assurde, le cose più assurde, cose più ripugnanti dal punto di vista intellettuale. L’ipotesi del disseppellimento della bara del mago Indovino, Salvatore Indovino – che poi chi l’ha detto che era un mago? Ma insomma, lasciamo perdere – per vedere se per caso la pistola era andata a finire nella bara. Non lo so da chi venissero le informazioni. Forse se lo sono inventati di sana pianta i giornalisti, può darsi benissimo, non lo so. Ma voi capite, questo clima suggestivo, che si è dovuti arrivare qui, in questo processo, no, dove si discute le cose serie che sappiamo. Si è dovuti arrivare qui, si è dovuto sentire – mi dispiace, non c ‘ è stamattina perché non mi piace parlare delle persone quando non ci sono – l’avvocato Colao, nella sua requisitoria finale, parlarvi dei feticci messi da Pacciani a seccare sulla porta della sua casa. Ma voi sapete che questa storia dei feticci messi a seccare ha formato oggetto di una indagine, eh, sono state interrogate delle persone. Come i pomodori, come i fichi nel Sud, vero? Si fa. Come le sorbe. Perché anche le sorbe si mettono a maturare al sole. Le sorbe. Mi toccherà parlare anche di sorbe in questo processo. Di questo Giudice che dicevo, scevro, ho l’impressione che il Pubblico Ministero ne avrebbe fatto volentieri a meno, se la legge glielo avesse consentito. Che significa questo, Avv. Nino Filastò: che in un giudizio abbreviato il Giudice non c’è? Sì che c’è, certo che c’è; e può essere anche che quel Giudice sia quel Giudice ideale che dicevo. Certo è che quel Giudice è dimezzato, almeno, eh. Le prove non si svolgono davanti a lui, non si dipanano sotto i suoi occhi, non vengono raccolte direttamente dalle sue orecchie. Sono prove che appartengono allo scritto, addirittura in una forma, prevista dal nostro Codice, che è persino, come dire, meno garantista – però è un termine sbagliato, che io non amo per tante ragioni – del vecchio processo, quello che si svolgeva appunto su delle prove già raccolte da Magistrati e sulle quali i Giudici del dibattimento avevano lo scopo soltanto di effettuare un controllo. Almeno loro un controllo lo facevano: i testimoni li risentivano. Nel giudizio abbreviato tutto questo non avviene. E così, se la legge glielo avesse consentito, così i ha detto il Pubblico Ministero, avrebbe voluto – questo Pubblico Ministero – risolvere il caso sotto il profilo della posizione dell’imputato Giancarlo Lotti, vale a dire 3/4 del processo, come vedremo. Ne resta 1/4, vero, fra l’altro. Una volta risolto quel problema, c’è quell’altro quarto del processo che riguarda la chiamata di correo di cui mi toccherà di occuparmi, ve l’anticipo subito. Sono stato fino a ieri l’altro, sono stato ad angustiarmi: ‘gliene parlo di questa cosa qui, o no? Gliela faccio questa ipotesi alternativa, o no?’ Scusate il termine volgare. ‘Parlo ai Giudici di questo?’ Poi alla fine ho deciso di sì, per dovere il professionale, contro la mia profonda convinzione, in qualche modo forzando quella che io ritengo essere una componente fondamentale della mia vita, vale a dire l’onestà intellettuale. Cosa che mi ha sempre fatto un sacco di nemici, creato un sacco di problemi e di grane, fra parentesi. Anche perché io qui sono chiamato da Mario, figlio di Mario…

Mario Vanni: Eh, sì.

Avv. Nino Filastò: … a difenderlo. Ma prima ce n’era un altro.

Mario Vanni: Eh?

Avv. Nino Filastò: Prima ce n’era un altro di avvocati, no?

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Il quale aveva la sua idea, che io rispetto, che io devo rispettare. Ma, insomma, non anticipiamo. Basti dire che non è stato facile per me affrontare questo processo e questa discussione. Molto complicato, davvero. Come è molto complicato questo processo, rispetto al quale, con tutti i problemi dei quali vi ha parlato ieri l’avvocato Mazzeo che riguardano proprio Lotti, Pucci, si poteva fare a meno del dibattimento. Giudizio abbreviato: c’era l’incidente probatorio, quell’incidente probatorio, vero. E io non ripeto nulla di quel che ho detto, ma ve lo ricordate, è tutto verbalizzato. E ho detto determinate cose su quell’incidente probatorio. Non ne tolgo nemmeno una virgola. Qualcuno si è risentito, ho sentito il capo degli uffici dei Gip ha fatto addirittura una presa di posizione sul giornale: ‘l’avvocato Filastò si permette…’. L’avvocato Filastò, quando parla qui dentro, vero, nei limiti ovviamente della correttezza, della veridicità, della critica sacrosanta, dice quello che vuole. E non lo smonta nessuno. Nemmeno le più o meno larvate, chiamiamole, minacce del Pubblico Ministero. Quando dice: ‘eh, questa cosa stava… qui ci sono solo delle insinuazioni, qualcuno se ne prenderà la responsabilità…’, ma si capisce. Eh, perbacco! Fate, procedete, dite. Cascate male, da questo punto di vista; purtroppo è una cosa di famiglia, che devo fare? Meno male che c’è la legge. Meno male che c’è la legge che dice: no, guarda, si tratta di un processo di questa… no, bisogna farlo il dibattimento. E non funziona mica sempre, Presidente. Sa che, tempo fa, dovevo discutere in Corte di Appello un processo di omicidio risolto col rito abbreviato, a Pisa. Per dire, vero? Va bene. Vi ha già accennato il mio collega a questo richiamo costante, insistito, del Pubblico Ministero alla tranquillità dei Giudici. Tranquillità, tranquillo. I sinonimi sono: calma, quiete, pace, sicurezza, certezza, fiducia, cautela. Così leggo nel dizionario dei sinonimi di Gabbrielli. D’accordo, d’accordo, d’accordo. Anche io desidero che i Giudici arrivino alla loro decisione con calma e con quiete intellettuale. Ma che, soprattutto, questa calma, questa quiete intellettuale, questi Giudici la provino dopo la decisione. Quella quiete che si ha quando si è consapevoli di avere lavorato, sofferto, dubitato, approfondito. E, solo dopo, si raggiunge questa consapevolezza di aver preso l’unica decisione possibile. Non prima. No, come ha l’aria di ritenere il Pubblico Ministero, parlando di prove tranquille, di fatti I in contrapposizione con i dubbi, con le critiche. Non è che a questa tranquillità i Giudici possono arrivare senza sforzo – come vi ha detto – in un processo di questo genere. Tranquillamente, fino a dichiarare quasi inutile il dibattimento, o inutile del tutto il dibattimento, per quanto riguarda la posizione di Lotti. Se voi lo seguiste su questa strada, il Pubblico Ministero, voi non raggiungereste la tranquillità nel senso di quiete intellettuale, bensì raggiungereste qualche cosa che non è sinonimo di tranquillità. E’ cosa diversa. Non è sinonimo di quiete, è una cosa diversa. E’ l’acquietamento, è l’acquiescenza; che a sua volta la parola acquiescenza ha altri sinonimi. E i sinonimi sono: conformazione, rassegnazione. A che cosa? A quel che vi ha detto così bene il collega, citando Robespierre: alla forma, al nome delle cose. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, dice Umberto Eco. La forma, il nome; confessione, testimonianza oculare. Certo, è più facile arrivare all’adattamento, alla disposizione, alla acquiescenza, che alla autentica tranquillità. In questo processo si arriva alla tranquillità col lavoro duro. E ve lo consiglio, di farlo, caldamente ve lo consiglio; lo consiglio a quel Giudice leale, almeno, che dicevo prima. Perché l’acquietamento o l’acquiescenza, attenzione Giudici, perché dura poco, dura. Poi non fa dormire la notte, si trasforma in tormento. Quando ciascuno di voi tornerà al suo lavoro, vedrà le persone che vede tutti i giorni, parlerà in casa, in famiglia non di quello che avete deciso, perché è vietato dalla legge, ma dentro continuerà a restargli questa spina. Quindi, fatelo; e, guardate, non è facile. Ve lo dico sinceramente. Io sono diventato matto. Io è settimane che non fo altro. Non vi accontentate dei ricordi, del dibattimento, delle impressioni. No. D’altra parte io so che il Presidente ha questo scrupolo. Mi conforta, questo, sono sereno da i questo punto di vista. Per fortuna, ora, questo sistema della trascrizione, così bene fatto da quel signor Tinnirello là, che è bravissimo, ha organizzato questa cosa come non avviene mai in nessun altro Tribunale d’Italia, eh. Voi avete questa fortuna, di avere una struttura di questo genere, che è la migliore. Io giro poco, ho visto. La migliore. Voi avete queste trascrizioni e potete… è duro, è lungo, ma l’avete già fatto sicuramente, avete già cominciato a farlo, ma rifatelo. Non c’è quasi limite. Naturalmente son ben importanti, perché voi vi rimetterete a rileggere tutta quella mattinata di udienza che alibiamo perso tutti qua, insieme, per sapere se Butini Graziano è finocchio oppure no. Di quello ne potete fare a meno, ne potete fare, vero? Non è finocchio: basta, fine del discorso. Però che c’è bisogno di andare a sentire, a rivedere tutto quello che, dice, ma lo toccavano, non toccavano, sotto i glutei, non i glutei? Insomma, accidenti. Una mattinata umiliante, umiliante. E non la sola, eh. Ce ne sono state altre. Ora, in questo richiamo insistito del Pubblico Ministero alla tranquillità io ci ho visto una specie di invito a diffidare – sarò un po’ paranoico, ma far questo mestiere lo si diventa un pochino; non paranoico: paranoide, meglio – un invito a diffidare, come dire: attenzione, non fatevi contagiare dal turbamento che cercherà..- Non lo ha detto lui, eh, lo dico io, questo, lo invento, immagino. Un anatema rivolto a voi, di questo tipo: attenzione, non fatevi contagiare dal turbamento che cercherà di provocarvi la difesa. Tranquillità. Contrario: turbamento. Il processo era fatto, addirittura fin da prima che interveniste voi. Non c’era che da fare un mediocre controllo: otto mesi, insomma… Lo avete fatto, è stato fatto, la confessione è confermata, la chiamata di correo c’è; chiamata di correo che, sembrerebbe, almeno a sentire il Pubblico Ministero, sembrerebbe quasi la stessa cosa della confessione. Non è vero niente, vero. Sono due cose completamente diverse, eh. Da analizzare l’una e l’altra, i documenti distinti, anche. Il testimone oculare ha confermato. “Alibi inoppugnabili”, vi ha detto. Questo è testuale – aperte virgolette -: “Alibi inoppugnabili” – chiuse virgolette – non ve ne sono stati presentati. — Si ricorda, Vanni, la prima volta che ci siamo visti in carcere?

Mario Vanni: Si.

Avv. Nino Filastò: Icché gli chiesi? Gli chiesi: Vanni, ma lei è in grado di dirmi in dove l’era in quei giorni? Lei che fece? Che mi disse?

Mario Vanni: Io un me ne rammento.

Avv. Nino Filastò: E che vuoi, che mi doveva dire? Mi guardò con l’aria… Mamma mia, non avrò mica sbagliato a chiamare questo avvocato? Ho trovato uno un po’ scemo, ho trovato? Si doveva portare gli alibi inoppugnabili risalenti a quanti anni prima? 17? 12. 12, per l’ultimo; poi ci sono quelli di prima, no? Questo signor Faggi, che un alibi inoppugnabile sembra l’abbia portato, addirittura documentale, è un fortunato. Però è una persona che fa un certo mestiere, si prende gli appunti, ha trovato l’appuntino, è risalito. Vanni, lei prende gli appunti, Vanni, di quello che fa?

Mario Vanni: Eh?

Avv. Nino Filastò: Quando lei faceva le gite facendo il postino, si appuntava le gite lei?

Mario Vanni: No…

Avv. Nino Filastò: No. No, eh?

Mario Vanni: (voce non udibile)

Avv. Nino Filastò: Eh, mi pare anche a me. Quindi, gli alibi non sono stati presentati; Vanni, l’alibi non ce l’ha. E quindi perché sbattervi a lavorare inutilmente? Niente turbamenti, niente – aperte virgolette -: “Civilissima arte del dubitare” – chiuse le virgolette -. È una frase di Bertrand Russell. Ecco, io non nego – anzi, perché dovrei negarlo? Anzi, sono orgoglioso di questo – che a volte il difensore, il quale, come voi sapete, parte sempre svantaggiato, per tante ragioni, storiche, eccetera, questo. Non è mica in America dove… Quello che non ho sofferto – e dico proprio sofferto nel senso di anche annoiato, insomma -per tentare di fare, di ottenere la copia di una sentenza passata in giudicato. Perbacco, a voi la porterò… l’ho portata oggi, mi toccherà darvela oggi, tardiva, Presidente. Ma insomma, mi pare non essere il solo a fare produzioni tardive, però. Per l’archivio il ’69 non è più in Tribunale, si trova alla Fortezza. E alla Fortezza ci va un ometto solamente di mercoledì. Siamo cosi, eh, vero dottor Canessa? Vero?

P.M.: Per tutti è mercoledì.

Avv. Nino Filastò: Per tutti è il mercoledì.

P.M.: Anche per il P.M. è lo stesso.

Avv. Nino Filastò: Ma anche il P.M.

P.M.: Non ha un canale privilegiato.

Avv. Nino Filastò: Esattamente.

P.M.: Anche la Corte, se lo volesse.

Avv. Nino Filastò: Lo so. Però, altri canali privilegiati, però, il P.M. ce li ha, diciamo la verità.

P.M.: No…

Avv. Nino Filastò: I Carabinieri, poliziotti, tutta questa gente qua… Il P.M. questi canali ce li ha. Buoni o cattivi che siano, però ce li ha. Quindi, svantaggiato per tante cose… Quindi, molto spesso, il difensore tenta di percorrere proprio questa strada, cioè a dire quella di sostituire il turbamento, indurre i Giudici ad esercitare quella civilissima arte del dubitare di cui parla Bertrand Russell. Proprio quel turbamento rispetto alla tranquillità; il dubbio rispetto alla certezza. A parte che io personalmente non ritengo esportabile nelle nostre latitudini non solo italiane, ma direi europee – per tante ragioni storiche che qui sarebbe assolutamente assurdo nemmeno affrontare inizialmente – quella teoria, o l’idea del ragionevole dubbio del diritto anglosassone, degli americani che tante volte si vede nei film americani alla televisione; non la considero esportabile da noi. Perché da noi il principio cardine casomai, da questo punto di vista qui, sta in quella espressione latina che dice “in dubio prò reo”. Che è tutto un programma, eh. Basta pensarci un momentino, è tutto un programma.

P.M.: Reo.

Avv. Nino Filastò: Reo, e beh. “In dubio prò reo”. È bellissimo, no? È un po’ come la storia che tutti… – scusate, eh, un momento la regressione – che ammazzare una donna, non è un reato, nel nostro Codice penale. Lo sapevate questo? Perché l’articolo 575 dice: “Chiunque cagiona la morte di un uomo…” Bah, insomma, per dire. Questi retaggi antichi che noi abbiamo nella nostra prassi giudiziaria, nel nostro modo anche di pensare, sono incredibili. Me ne sto occupando in questo periodo di tempo, perché mi affascina, anche perché ho avuto il piacere di conoscere un grande storico del diritto. Lo conoscevo già prima, aveva fatto addirittura l’esame: Italo Mereu. E siamo entrati un po’ in amicizia, ogni tanto ci incontriamo, parliamo. E mi si apre un mondo. Va bene, comunque… A parte questa diffidenza, il mio impegno qui è diverso. Sono convinto che, lavorandoci sopra, seriamente, esaminando, analizzando e applicando la legge, alla fine il Giudice del processo contro Mario Vanni è in grado di raggiungere la convinzione tranquilla della innocenza di Mario Vanni. Ed è questo il lavoro che intendo fare ora. Non intendo turbarvi, non intendo mettervi dei dubbi. Intendo sistemarmi al vostro fianco, rimboccarmi le maniche e lavorare tranquillamente con voi. E se, Presidente, in quello che dico, nelle citazioni che faccio, nelle indicazioni di carte che vi do, Ella, o chiunque altro, nota una forzatura, qualcosa che non torna, qualcosa che non corrisponde, accetto l’interruzione. Dai Giudici l’accetto, dagli altri no. Potrei essermi sbagliato, potrei aver letto male. E sarà un lavoro complesso, Presidente, Signori Giudici, e non breve. Mi dispiace. Anche lì, questione di scelta. Avrei potuto discutere questo processo con tre battute, davvero. Anzi, due. Beh, insomma, a Scopeti, a Vicchio, seguendo la strada del Pubblico Ministero, eh, inseguendo i suoi dati processuali, c’è la prova che Vanni non c’era. Basta. C’era Lotti? Boh, fatti suoi, insomma. Ha confessato, e beh, paghi, eh! Frigo, per Vicchio; Caini e l’altro testimone, sempre per Vicchio; i due coniugi, testimoni perfetti, che vanno a trovare gli amici Ruffo – in questo momento, perché questo sta anticipando – per Scopeti; Lorenzo Nesi, per Scopeti. Conosce quest’uomo da 40 anni e non lo vede sulla pretesa macchina di Pacciani. Ma che altro volete? Quanto ci ho messo, 10 minuti? Il resto è tutto ciarpame, eh. Ma poi ho detto: no, non è nel mio stile, non si fa, non va bene. E soprattutto non mi piaceva. Non mi piaceva, non mi divertiva a me discutere così il processo. E continua a non divertirmi. Quando lo affronterò, sotto questa angolazione -ci sarò costretto, tirato per i capelli, li ho abbastanza lunghini – eh, lo farò proprio con molta, molta, molta riluttanza. Dopo avervi tre-quattro volte, compresa questa volta che credo sia già la seconda, avvertito: non ci credo affatto. No, questa è una cosa proprio che fa l’avvocato, un tecnico, colui il quale, a un certo punto, è stato chiamato da un poveraccio che rischia : l’ergastolo e che gli ha detto: mi difenda, avvocato, con tutti gli strumenti che lei conosce e con tutti gli argomenti che lei conosce, affrontando tutto quello che c’è da affrontare nel processo. Altrimenti, no, io proprio, questa cosa, fare il cane addosso a qualcuno, alla parte civile, a Lotti, non ci tengo proprio. Non mi piace, mi disgusta. Un individuo sporco, un individuo meschino, un individuo bugiardo, un individuo che non vale niente. Un… però è un uomo. È un uomo come tutti, insomma. Quindi, un lavoro fatto di molte citazioni e di carte. Quelle che sono ora, perché ora siamo alle carte; di moltissime letture, perché a me mi hanno insegnato a discutere i processi così, non con gli aggettivi qualificativi; con l’analisi. Ed è una analisi che va fatta ora. Attenzione, altra cosa, altro avvertimento, poi ho finito con questo pistolotto. Mi immagino che ne avrete un pochino piena l’anima, eh. Ma scusatemi, scusatemi. Va fatta ora questa analisi, dopo l’immediatezza del dibattimento. Nessuno di voi ha… Vedano, il nostro è un sistema perverso, in queste cose. Sapete, da noi un processo può anche non finire mai. Tempo fa ero a discutere una causa in Cassazione, c’era il collega di Palermo – in questo momento non mi ricordo – il quale stava discutendo dopo 25 anni una causa di omicidio che era arrivata al VII Grado, al VI Grado di giudizio. E c’è anche questo, come dire, sentimento. Io credo, non lo so, non l’ho mai fatto questo lavoro che state facendo voi ora, ma mi immagino che ci possa essere anche, come dire, una sorta di liberatoria. Uno dice, va be’, se ho sbagliato io, poi tanto c’è 1’Appello, dopo tanto c’è la Cassazione, poi si vedrà. No, no, no, no. Ora, ora, ora è il momento giusto. Ora, ora, ora che voi avete ancora nelle orecchie le deposizioni dei testimoni; ora che voi avete visto le persone, che avete toccato con mano, almeno parzialmente. Veramente avreste potuto far di più, eh. Lo dico subito, eh, Signori. No, tanto lo faccio a tutti, anche a voi, scusate. Io, sui posti, ci sarei stato, eh. Almeno quei sopralluoghi li avrei fatti. Comunque, il dibattimento è dibattimento. La speranza di trovare una Corte, un Presidente, un Giudice a latere, della, non solo integrità -perché l’integrità ce l’hanno tutti – ma della intelligenza dell’acume, della cultura, perché per fare un processo di questo genere, ci vuole anche quella, del dottor Ferri e del dottor Carvisiglia, non è una cosa che si trovava sempre. Quindi, applicatevi, scusate. Ne vale la pena. Voglio dire, non fosse altro che per una cosa. È un caso di una complicazione inaudita. Ma scusate, avevate mai, prima di ora, prima di questo caso, avevate mai sentito parlare di un giudice, il quale si dimette per scrivere un libro, per paragonare una certa inchiesta alla “Storia della colonna infame” di Manzoni? È quello che è avvenuto, no? Il dottor Ferri. La comprensione in anticipo. Per scrivere questo splendido libretto, bellissimo, pieno di indicazioni, pieno di umanità, pieno di cultura, ben scritto. Bellissima prosa, quella del dottor Ferri, fra l’altro. Per dire questo: ma come, io mi devo ritrovare alla fine della mia carriera a un processo in cui i meccanismi, le strutture ideologiche, le strutture di ricerca sono le stesse analizzate e criticate dal Manzoni in occasione del processo agli untori? Ma insomma, un po’ straordinaria come cosa è, vero? Potete non essere assolutamente d’accordo né con l’iniziativa, né col Giudice, né con le sue idee, però è il segno, il sintomo di qualcosa di straordinario che c’è in questo processo; e questo voi lo dovete avere, eh. Lo dovete avvertire. Benissimo. Io sapete perché dico questo? Perché, come ho ripetuto prima, certe vostre ordinanze mi hanno lasciato perplesso; le appellerò tutte, una per una, nel caso, eh, nella dannata ipotesi… Io spero di non doverlo fare, Vanni. Mamma mia, speriamo di no. Beh, insomma, voglio dire, sui posti bisognava andarci, abbiate pazienza. Per quelle cose che vi ha detto il collega Mazzeo, che le ha constatate insieme a me, perché io prima che lui incominciasse a discutere i giorni precedenti, dico: Antonio, si va a fare un giro? Io c’ero già stato, avevo visto i posti, eccetera. L’ho portato a fare tutto il giro… ‘guarda, vedi, qui siamo sulla strada, vedi come siamo? Qua, lo stesso. Qui, che ti dice questo? Siete sempre in tempo, però, eh. Individualmente lo potete fare. Anzi, sono anche belle gite. Per modo di dire, insomma. Posti proprio… L’unico posto veramente squallido è Travalle. Travalle è squallido, perché è un posto di estrema periferia, insomma; questa campagna piatta, le montagne sopra, ma piatta, inurbata, queste costruzioni, casette intorno, tutte casette intorno; questo torrente vicino che si chiama Marina, come sempre, eh, c’è un torrente dappertutto. Torrente un pochino… un po’ nascosto, un pochino… Ma sempre, anche lì, terreno scoperto, chiaro, leggibile, anche di lontano. Gli altri posti sono posti, voglio dire, tu vai a San Casciano, San Casciano è un paese delizioso. Ha queste bellissime mura; di per sé è il classico paese toscano, poi di vecchio stile, dove si mangia benissimo, fra parentesi. Perbacco, nella trattoria Da Nello si mangia ottimamente. Non parliamo di Vicchio. A Vicchio c’è, si capisce, la Casa del Prosciutto, dal punto di vista gastronomico, voglio dire. Se ci andaste, prenotate prima; bisogna prenotare almeno due settimane prima, perché è sempre pieno. Vorrei sapere come ha fatto Lotti ad andare a mangiare là, di tonfo, eh. Però, se non trovate posto lì alla Casa del Prosciutto, potete andare un po’ più su. Anzi, più su, per una strada piuttosto impervia, sterrata, alla Casa di Caccia. Perché è un posto di cacciatori, Vicchio. E lì, alla Casa di Caccia, dove fanno la lepre dolceforte splendida, ecco, lì, fra l’altro è dominata un po’ la zona… c’ha un panorama vertiginoso, bellissimo. Insomma, poi dopo, perché no? Suggerimento, vedremo se è il caso. Va bene. Scusatemi la digressione. Bene. Allora, il nostro è un processo grave, complicato, estenuante; e c’è chi ha tentato di definirlo con ‘una espressione e l’espressione è: “metabolismo lento”. Queste due parole insieme costituiscono una definizione. Il copy-right appartiene ad una parte civile; il Pubblico Ministero se n’è innamorato e secondo lui questa espressione definisce questa indagine. Beh, sul “lento” sono d’accordo. Accidenti al lento! Dal primo delitto, 1968, sono passati – siccome era di agosto – pochi mesi meno di trent’anni. Credo che questo non sia mai accaduto; accetto smentite. Ma credo che un’inchiesta che procede -sia pure per tappe e per vari processi – per trent’anni, al mondo non sia mai successo. Ed ancora sento dire: ‘non sarebbe finita.’ Pacciani è stato perquisito dopo morto, voi sapete, no? Si è visto alla televisione, i Signori andavano via con le mascherine sul viso, perché dentro era una situazione indescrivibile dal punto di vista igienico, dell’odore e tutto il resto. Pacciani solo, questo vecchio. Hanno portato via, ho visto, un sacco di sacchi con della roba dentro, quello che hanno trovato. Ma, a parte questa perquisizione postuma fatta a Pacciani, c’è sempre il misterioso medico acquirente dei feticci. Tramonta il mago, risorge il medico. Il quale medico è, in realtà, una specie di cometa che percorre il cosmo di questa inchiesta. Ogni tanto qualche medico appare; uno pare si sia suicidato… Dunque, “metabolismo”. Però, quello che proprio non condivido è la parola, è il sostantivo. Sull’aggettivo ci siamo, ma sul sostantivo no. “Metabolismo”. Il termine io sono andato a cercarlo sul Battaglia, Il Grande Dizionario della Lingua Italiana che cita Panzini. E Panzini dice: “È un termine di fisiologia. Indica l’insieme delle trasformazioni che i tessuti organici viventi subiscono per effetto della nutrizione. E si intende tanto il processo di assimilazione, anabolismo, come il processo di distruzione, catabolismo.” Bisogna stare attenti alle metafore. Io lo so, perché faccio anche un altro mestiere oltre che l’avvocato. La metafora è un strumento difficile da usare. Troppe metafore stuccano, e poi trovarla bene, azzeccata, è difficilissimo. E qui, in questo caso, mi sembra particolarmente infelice e ambigua, perché la parola significa una cosa che è quella che evidentemente intende il collega della parte civile, suscitando l’immediato consenso del Pubblico Ministero, è la sua esatta antitesi. La sua esatta antitesi. Se si voleva, con questa parola “metabolismo”, intendere che l’indagine aveva anaboliticamente – cioè a dire mediante il processo che si chiama anabolismo, di assimilazione – assimilato dei fatti, persone, imputati, eccetera fino a raggiungere la verità, non è vero nulla. Almeno fino al 1991 è falso. Per almeno ben 23 anni, fin tanto che non spunta Pacciani, che poi è tutto da vedere, insomma, mettiamola così. Sto parlando dal punto di vista del Pubblico Ministero che usa questa espressione e utilizzo questa metafora e questa espressione del Pubblico Ministero per rendere il mio discorso più gradevole – intendiamoci – e condurvi a fare una certa critica di questo mastodontico impianto processuale che avete sotto gli occhi. Per 23 anni l’indagine è stata catabolica, cioè a dire non ha assimilato nulla, non ha prodotto nulla: ha distrutto. Ha distrutto se stessa e ha distrutto delle persone. E vediamo se è vero. 1968. 1968. L’indagine provoca un errore giudiziario spedendo, questo non l’ho mica detto solo io, l’ha detto anche questo rappresentante della Pubblica Accusa, dottor Canessa, nella sua introduzione – come si chiama? Relazione Preliminare – nella sua Relazione Preliminare al processo Pacciani e poi, anche, persino nella requisitoria finale, quando ha chiesto la condanna di Pacciani. Che c’entra Stefano Mele? E’ stato Pacciani. Quattordici anni di galera comminati a Stefano Mele, di cui dodici interamente scontati. E oggi? Oggi, in questa indagine che riguarda gli amici o “compagni di merende”, a che vi serve? In che modo voi potete assimilare lo Stefano Mele? Addirittura vi si chiede di non assimilare nemmeno — il fatto. Vi si chiede di espellerlo dalla vostra cognizione. Quindi, quella indagine a quell’epoca distrusse se stessa e ha distrutto un uomo. Perché questo poveraccio per quanto fosse – è un termine brutto “poveraccio” – questo uomo, questo ometto, questo individuo meschino, anche lui, con delle caratteristiche che lo fanno assomigliare a Giancarlo Lotti in un modo impressionante, salvo quelle fisiche perché quello è un ometto piccino, questo è massiccio, 9 0 chili e rotti. A che vi serve tutta quella… il catabolismo di quello spezzone di questa inchiesta infinita che comincia allora. A che vi serve? A niente. Vi servirebbero delle cose, delle cose ci sarebbero, ma non sono quelle che vengono esaminate. E state tranquilli: non ve ne parlerò. Ne ho una voglia pazza, però non lo farò. Sto facendo l’avvocato, difensore di Vanni io, qui. 1981, giugno. Fionda in galera Enzo Spalletti per quattro mesi. Lo mettono dentro non come “mostro”, ma in quanto falso testimone. E certamente, eh; hanno anche ragione. Lui va al bar, dice: ‘ho ; visto i corpi’. E poi, dopo, gli chiedono: ‘chi te lo ha detto?’ “L’ho letto sul giornale.” Sul giornale no, perché su il giornale c’è il giorno dopo. Non si è mai saputo cosa abbia visto questo Enzo Spalletti, eh. Mai, mai, mai, mai più, mai più, mai più. Nessuno glielo ha più chiesto, nemmeno al processo Pacciani, nemmeno chiamato al processo Pacciani. Non si dice qui, dove non si parla nemmeno di un delitto avvenuto quattro mesi prima rispetto a quello che è del capo d’imputazione, con le identiche modalità, la stessa arma, le stesse identiche modalità, le stesse escissioni, la stessa scelta di tempo, di luogo, tutto; c’è tutto. Eppure, questo no. Di questo non se ne parla. E Perché non se ne parla? Sarà che non collima con gli “amici di merende”, il 1981? Sarà che è meglio tenerlo lontano, Enzo Spalletti? Ad un tratto abbia a dir qualcosa, finalmente, di quel che ha visto? Come il suo amico Fosco Fabbri? Che lui un poliziotto lo aveva incontrato, eh, e lo aveva minacciato con una pistola. Fosco Fabbri, l’amico di Spalletti. Fate conto che non vi ho detto niente, non ho detto niente. Mi capiterà ancora. Mi capiterà ancora, e voi mi scuserete, di uscir dal seminato. Mi capiterà. Mi sono imposto di non farlo, ma come si fa? Comunque, non in questa indagine. Spalletti che viene scarcerato dal “mostro”, quattro mesi dopo -guardate gli intervalli, le cadenze – è il termine più breve. E non ne poteva più, Spalletti, di stare dentro e voleva parlare, beh. Quindi, non solo: Spalletti non ci serve, l’indagine su lui e sull’episodio del duplice omicidio di Scandicci – Carmela Di Nuccio e Giovanni Foggi – è espunta; è espulsa da questo processo che vede non solo la eliminazione d’ufficio del serial-killer della provincia di Firenze, ma anche l’abolizione d’ufficio di ben tre duplici omicidi. E qui, scusate, una riflessione. E ora che è morto Pacciani, che quei tre precedenti gli erano stati addebitati, come la mettiamo? Quelle vittime di quei tre precedenti duplici omicidi? E il risarcimento? E il diritto dei familiari di Stefania Pettini – pronuncio questi nomi qui, ora, perché ce ne siam tutti dimenticati di questi nomi: di Stefania Pettini, di Pasquale Gentilcore, di Carmela Di Nuccio, di Giovanni Foggi, di Antonio Lo Bianco, di Barbara Locci – di far sapere la verità, ai loro parenti? Vorranno sapere la verità, vorranno sapere chi li ha uccisi. Ora, con questo stralcio, rispetto al quale io mi sono doluto all’inizio del mio impegno professionale in difesa di Mario Vanni, voi vedete se avevo un po’ ragione. Non se ne dovrebbe parlar più, ora, di loro. Nemmeno di quella splendida ragazza botticelliana che era la Carmela Di Nuccio. 1982. Francesco Vinci. Come entra nel “metabolismo lento”, nella simulazione di questa indagine, Francesco Vinci? Beh, a proposito di Francesco Vinci in questa indagine avrò delle cose da dire al momento opportuno. Ora vi dico che se c’è un soggetto di questa lentissima ed estenuante indagine, distrutto, è Francesco Vinci. Distrutto due volte. Distrutto, catabolizzato, in senso metaforico, come indagato dall’indagine stessa e dai delitti | successivi; quando viene scarcerato e prosciolto. Distrutto, catabolizzato in senso reale, non metaforico, cioè ucciso, da chi? E Perché? Voi, qui, assistete subito ad un fenomeno importante, un sintomo significativo grave di questa indagine, sugli “amici di merende”. Confessione, no? Testimonianza oculare. Benissimo, i nodi si sdipanano tutti. Trovato il bandolo della matassa, tutto torna a posto. Allora, voi – voi, non io; anche io, eh, anche io, ma per altri versanti, tutt’altri versanti – dico che l’omicidio di Francesco Vinci ha a che fare con i delitti del “mostro”. Lo dico, sì, anch’io. Certo che lo dico. Ma io lo dico dal punto di vista di chi ha letto le carte del processo del 1968; e ha trovato che Francesco Vinci, un giorno – al dibattimento, interrogato, Presidente Coniglio – Francesco Vinci va, riferisce quello che aveva già riferito in istruttoria: di aver fatto un certo incontro alle Cascine del Riccio di Signa, in cui c’era una certa persona che minacciava Barbara Locci. E Francesco Vinci, quindi, qualcosa sapeva, forse, di una certa persona. E Francesco Vinci muore, in quel modo. Bene, non sarà come dico io. Non sarà questa la ragione dell’uccisione di Francesco Vinci. E allora qual è? Qual è? Da chi e Perché? Il signor Lotti, il quale ce lo presenta e ce lo fa apparire a San Casciano, così – con la barba, senza la barba, non lo riconosce – ci spiega che rapporto c’è, che relazione c’è? L’accusa. Il Pubblico Ministero nella sua replica lo farà, forse. Per ora, no. Qual è la relazione? In che modo viene metabolizzato, nel senso di anabolizzato, il Francesco Vinci, in questa indagine? A che scopo? Con riferimento a quale linea di indagine, a quale linea di pensiero, a quale ricerca? Perché più che trovate le cose vanno cercate e bisogna sapere cosa cercare. Ucciso dagli “amici di merende” perché non parlasse? Di che? Vedremo – mi toccherà farlo a me – quando ne parlerò più approfonditamente, vedremo quella che, insomma, a furia di arrovellarmi, sono arrivato a definire un’ipotesi del Pubblico Ministero – dell’accusa, diciamo meglio dell’inchiesta, dell’indagine: il Pubblico Ministero, il dottor Giuttari. Sono le pagine, sono le pseudoindicazioni, sono gli accenni di indicazioni, sono i conati sono più ambigui meno affidabili, di questo processo, tutto quello che riguarda e che ruota intorno a Francesco Vinci. 1984, gennaio 19 84. Due giorni prima che scatti il mandato di cattura a danno del secondo Mele, Giovanni Mele, e di Mucciarini, il misterioso omicidio di una coppia venuta da Lucca – due giorni prima, due giorni prima – con un’altra calibro 22, non quella un’altra. L’azione è perfettamente identica. Mele e Mucciarini, la pista è quella del clan dei sardi, sono simmetrici alla coppia Pacciani-Vanni. Presentano delle analogie impressionanti. È l’antecoppia. Sono anche loro frequentatori di prostitute. C’è persino la lettera – per dire la simmetria; questo è un processo che presenta degli aspetti di analogia impressionanti, sembra che qualcuno si sia divertito a scrivere un romanzacelo – c’è persino la lettera che uno scrive a quell’altro per dirgli: guarda, regolati. Stava diventando il cardine dell’accusa, questo biglietto. Poi arriva il delitto dell’84: fine anche della coppia Mele e Mucciarini. Chiuso con il clan dei sardi; sembrerebbe, almeno. Ma poi compare nell’interregno Salvatore Vinci, ancora partecipe del clan. Viene messo in carcere e processato per il suicidio della moglie. Si riesuma questo suicidio, si dice che è un omicidio, vien processato là in Sardegna per questo omicidio; viene assolto. Viene indagato come “mostro”, anche lui e viene prosciolto dall’accusa per l’omicidio della moglie e prosciolto anche come “mostro”. E poi, scompare questo signore; non si è saputo più nulla di lui. Si arriva al 1989, quando, dice, il computer partorisce Pacciani. Dice. E io so che non è vero. E se sarà necessario, tirato per i capelli perché implica delle cose un po’ sgradevoli, lo dimostrerò. Che Pacciani è stato sospettato come “mostro”, al momento di entrare in galera come violentatore delle figlie. Il sospetto c’era di già su di lui. Mi assumo la responsabilità di quello che dico, perché c’era la trasmissione televisiva che documenta questo fatto, alla quale io partecipai. Dove ci fu una fase finale, ci fu uno che telefonò e disse: ‘senta, signor Augias, a me mi risulta che il “mostro” è già dentro.’ Beh, sai com’è, investigatori presenti dice: ‘ma un momento, dentro il “mostro”? No. C’è uno che è dentro per altri motivi’. E chi era? Si era alla fine dell’87, non poteva essere altro che Pacciani. Morte di Pacciani: dissoluzione, distruzione dell’accusa nei confronti di Pacciani da parte di una Corte di Assise d’Appello, con una sentenza che è un capolavoro; ed infine, poi, la distruzione di Pacciani è completa perché è morto. Morto. Morte naturale, per carità Presidente, mi fa fare una pausa?

Presidente: Bene.

Avv. Nino Filastò: Grazie.

Presidente: Bene, un quarto d’ora.

Avv. Nino Filastò: Grazie. 

Presidente: Prego, avvocato Filastò.

Avv. Nino Filastò: Grazie, Presidente. Mentre preparavo questa discussione, Signori, ho avuto diverse perplessità. Una ve l’ho già accennata prima, ci ritornerò, e un’altra riguardava l’ordine degli argomenti che avrei affrontato; ordine che è importante da un punto di vista logico, costruttivo. Il processo è complicatissimo. Si trattava per me di scegliere, tra l’altro, fra tanti aspetti che riguardano questa causa. E via via che studiavo – ho riletto tutte le carte, tutto il dibattimento – il pensiero tornava sempre a lui, a Mario Vanni. Tentavo di definirlo con una parola e non mi riusciva. Poi voi sapete che cosa è accaduto: si è sentito male, dopo che aveva ottenuto gli arresti domiciliari; è caduto; l’hanno portato…

Mario Vanni: Due o tre volte in casa, sì.

Avv. Nino Filastò: …l’hanno portato all’ospedale…

Mario Vanni: E rimasi senza parlare.

Avv. Nino Filastò: …e rimase senza parlare. E io lo andai a trovare all’ospedale di Ponte a Niccheri.

Mario Vanni: Sì. ..

Avv. Nino Filastò: Eh, ora… Lui balbettava, appunto, non riusciva ad articolare. Ricordo che stava cercando, vero Mario?

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: …stava cercando di tagliuzzare un pezzo di pollo.. . 

Mario Vanni: Si, sì.

Avv. Nino Filastò: …e non gli riusciva, infatti lo tagliai io. Ecco, allora mi venne in mente il termine: “paziente”. Paziente secondo il significato comune della parola, cioè a dire di persona dotata di pazienza. E ci vuol pazienza, Mario. Signor Mario, ci vuol pazienza. Ma in un modo o in un altro ce la faremo.

Mario Vanni: Grazie.

Avv. Nino Filastò: Starei per dire: “no pasarán”, solo che lei è dalla parte di “arriba España”, vero?

Mario Vanni: Uhm.

Avv. Nino Filastò: Eh? Che strana circostanza essermi trovato a difendere col cuore, proprio, facendolo volentieri, onorato di farlo, questo signore che si proclama cristiano e… fascista!

Mario Vanni: Fascista.

Avv. Nino Filastò: Paziente, quindi; anche, però, nel senso medico del termine come ammalato, bisognoso di cure. E così allora mi sono sentito io, esaltandomi: contemporaneamente medico più che avvocato. Medico chiamato al capezzale, davvero avvocato, “advocatus”, chiamato. Chiamato al soccorso da una persona colpita da un male. E questo male è un processo assurdo, estenuante, tormentoso. Quel processo che, come ho detto prima, ha provocato questo evento straordinario di un Giudice, di un Presidente che dice: un momento, scrivo un libro paragonandolo alla ’’Storia della Colonna Infame” di Manzoni. E quindi, ho deciso, affrontando il vivo del processo, di cominciare da lui, perché il primo dovere di un medico è di occuparsi del suo paziente. Dicevo, prima, che questo caso giudiziario presenta delle singolari analogie, e ho detto anche che una è autentica: Lotti assomiglia a Stefano Mele; del processo successivo al delitto del 1968, confesso anche Mele. Confesso non solo, ma anche chiamante in correità, anche lui. Chiama in correità Francesco Vinci, chiama Salvatore Vinci, un certo Carmelo Cutrona, e poi, di nuovo, Francesco Vinci, e poi, di nuovo, l’altro Mele, Mucciarini. Anche lui, Stefano Mele, un deficit intellettivo grave, a livello di grave oligofrenia. Perizia, in quel processo, sulla sua capacità di intendere e di volere, perizia che si conclude affermativamente: capacità di intendere e di volere grandemente scemata; vizio parziale di mente. Ma qui la simmetria, l’analogia, si arresta, e qui la bilancia pende a danno di Lotti. Niente perizia. Perizia ammirata, no? Avente ad oggetto la sua capacità di intendere e di volere o meno: non l’ha chiesta neppure il suo difensore. Dice il collega, un collega della parte civile, che non si devono criticare i giovani colleghi. Un giovane collega è il difensore di Giancarlo Lotti, il quale si è risentito, a un certo punto, per alcuni miei interventi nei suoi riguardi, riservandosi – mi è parso, non so bene se ho capito bene – lamentele in qualche sede, non lo so. Aspetto, come si dice, impavido. Nel caso avrò da dire qualcosa sul perché e sul percome di certe interruzioni da parte mia e prese di posizione, fra cui questa. Metta in conto anche questa il giovane collega. Perché? Qual è il motivo difensivo per cui non solo il difensore di Lotti non ha chiesto la perizia psichiatrica ai fini di valutare la capacità di intendere e di volere del suo difeso? Il quale sarebbe il succube, no? Sarebbe il dominato, no? Sarebbe il passivo, no? Sarebbe l’omosessuale plagiato, no? E come mai questo difensore si accontenta di una consulenza proveniente dall’ufficio del Pubblico Ministero che non solo non riguarda il quesito specifico sulla capacità di intendere e di volere, ma sul punto, sulla passività dice esattamente l’opposto? Lo vedremo. Ne dovremo parlare. A quale logica difensiva corrisponde l’opposizione all’istanza di perizia sul Lotti, fatta da questo difensore, da me? Questo giovane collega è il terzo difensore di Lotti, i primi due se ne sono andati, e sbatacchiando la porta, anche. Parlavo ieri l’altro con un altro giovane collega che, per l’appunto, abita vicino a dove io ho lo studio, Borgo Santa Croce. L’ho incontrato, si chiama Neri Pinucci, è stato il primo difensore di ufficio di Lotti, gli ho chiesto: ‘senti Neri, ma mi par di ricordare a me, me lo ricordo bene io oppure no…’. Ci incontrammo perché io seguivo questo caso, per altre ragioni, poi magari ne parlerò e… non per andare ogni giorno a portare un “mostro” all’ufficio del Pubblico Ministero, eh, non era questo lo scopo del mio interessamento, poi si parlerà anche di questa mia, come dire, ossessione investigativa? Ossessione collaborativa? Non so. Beh, acqua passata, diciamo. Gli ho detto, dico: ‘senti ma…’ – lo incontrai -‘mi sembra… lo difendi te?’ ‘Si’. Dico: ‘Senti, ma, almeno dai giornali, a me mi pare che ne racconti di balle questo tale, eh’. ‘Ah’, dice ‘io chiedo la perizia psichiatrica’, disse subito Neri Pinucci. Tre giorni dopo leggo che l’aveva abbandonato. Un successivo, l’avvocato Falciani, se n’è andato anche lui. Ha abbandonato anche lui. Siccome probabilmente qualcuno vi dirà: ‘eh, questo interrogatorio… Di che si lamenta l’avvocato Filastò? Qui c’era il difensore’. C’era il difensore, sì. Come dice Robespierre, la forma e la sostanza? 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: “Voi vi aggrappate alle forme”.

Avv. Nino Filastò: Vi aggrappate alle forme. Beh, fine dell’inciso. Un’altra simmetria dovrebbe essere quella riguardante Pacciani, da un lato, e Vanni da quell’altro. Ma questa analogia è falsa. In che senso l’analogia, che lascia in qualche modo a immaginare che i simili si incontrano, ammesso che Pacciani fosse quello che viene dipinto, ma parliamo del Pacciani… parliamo dell’immagine del Pacciani. Parliamo di quello che è venuto fuori, come un personaggio, su tutti i giornali, alla televisione, dovunque, parliamone perché… come fosse… come se lui fosse questo – non lo era, eh, ma, insomma – come se lui fosse questo, in fondo si vive in un mondo in cui l’immagine, il significante, assume la veste e l’importanza del significato; lasciamo perdere il discorso filosofico epistemologico. Ma insomma, l’aria è questa, non importa aver letto Umberto Eco per rendersene conto che le cose stanno un po’ così. Ma qui però questa simmetria, questa analogia non c’è affatto. La simmetria è uno specchio deformante, che riflette due immagini artefatte. È deformata, la simmetria; voluta a tutti i costi. L’immagine di Vanni speculare, in qualche modo, di Pacciani risulta falsa. Di là la violenza alle figlie; di qua, dalla parte di Vanni, la moglie succube che Vanni butta dalle scale quando era incinta. Ha mai buttato la moglie dalle scale lei, incinta?

Mario Vanni: No, son bugie.

Avv. Nino Filastò: Son bugie, dice il signor Mario.

Mario Vanni: Eh, lo credo.

Avv. Nino Filastò: Eh, lo credo. Vibratori da tutte e due le parti; perché i vibratori, si sa, sono un sintomo sicuro di perversione. Prostitute. Certo. Sperduto compresa. Tuttavia la demonizzazione è riuscita fino alla tomba. Episodio di inciviltà da far rabbrividire. Passavo con la macchina, leggevo con la coda dell’occhio la civetta della Nazione, c’era: ‘i cittadini di San Casciano…’. Che vogliono i cittadini di…? La macchina passava e poi io prendo il taxi, non uso la macchina. Passava la macchina… Ma che vogliono? Alla fine ho fermato ho comprato il giornale. Non lo volevano sepolto accanto ai loro cari, nello stesso cimitero, lo volevano sepolto fuori delle mura del paese, come avveniva nel ‘500- ‘ 600 per gli attori, per i falliti, per le persone vergognose. È stato sepolto nudo, avvolto in un lenzuolo, perché nessuno gli ha dato un vestito. “Veramente” – diceva Bertold Brecht – “io vivo in tempi oscuri.” E accidenti se sono oscuri! Ma con Vanni il tentativo non è riuscito. ‘Lo zio Mario è amico di tutti’, dice Maria Grazia Pucci; non Maria Grazia Vanni, Maria Grazia Pucci lo dice. Però, vedano, è come se lo pseudodemonio Pacciani che, come dicevo prima, è improprio definire “pseudo”, perché è l’immagine che conta, è come se riverberasse la sua luce nera, carica di effetti massmediatici nei confronti di Vanni. E quindi una preghiera, prima di tutto, a quel Giudice terzo, sereno e scevro che dicevo prima: non fate che questo riverbero falso offuschi la vostra vista. “Presunzione di innocenza” non è un’espressione astratta. Significa, prima di tutto, questo, nel concreto. Non solo, che anche Pacciani è da presumersi innocente e oggi più che mai, che è morto. Ma che la sua immagine, quale essa sia, non può riverberarsi sul Vanni. E significa che, nel tentare di farvi un’idea sull’uomo Mario Vanni, voi dovete allontanare l’immagine dell’uomo col coltellaccio – collodiana vero? – che si avvicina alle vittime al seguito di Pacciani che ha sparato; perché l’uomo viene prima. Ci sono i suoi almeno cinquant’anni precedenti. E se volete tentare un’equiparazione seria fra la persona di Mario Vanni e quei delitti, una comparazione reale, suffragata da dati seri, cospicui, fra l’uomo in sé e l’immagine dell’uomo col coltellaccio collodiana – dico collodiana perché il collega ieri vi ha citato Pinocchio… 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Capitolo XI, perbacco.

Avv. Nino Filastò: Le due figure vanno tenute distinte. Prima l’uomo, la sua analisi fredda, oggettiva, separata dal contesto dei delitti, e poi, va be’, se… se… Come ha fatto il Pubblico Ministero affidando una consulenza tecnica al professor Fornari e al professor Lagazzi? Ha detto: ‘guardate un po’ l’uomo, poi ditemi se per caso questa sintomatologia sessual-patologica può avere un ruolo…’. Il quesito era questo, no? Un giorno, un domani, il dottor Canessa mi spiegherà perché questo quesito che valeva per Lotti non può valere per Vanni. Me lo spiegherà, poi se ne parlerà dopo di questo. Per aiutarmi con la letteratura. Citazione da un libro che viene citato spessissimo dagli avvocati, specialmente quelli che non l’hanno letto; per me rappresenta invece una specie di Bibbia, è il “livre de chevet”, si tratta de “Il Processo” di Kafka, che è un romanzo, avvocato Curandai, lei che usa il termine “romanzo” in senso spregiativo, (voce non udibile) Un c’è? Peccato. (al microfono) Lo usa in senso denigratorio. Dice: “l’avvocato Filastò farà il romanzo”, come dire, lui fa il romantico. “Fa il romanzo”. Sintomo chiaro di, insomma, sinceramente, cultura mediocre questo, eh. Usare in senso denigratorio il termine “romanzo” è un sintomo abbastanza chiaro di cultura mediocre, scusate. Va bene. Allora, Kafka, siamo alle prime pagine, il signor K, una mattina, qualcuno doveva averlo calunniato, perché una mattina si sveglia e trova questi due signori che sono due poliziotti, sono venuti ad arrestarlo, arrestarlo tipo arresti domiciliari, e K dice: ‘ma ci deve essere stato un errore’ – un po’ come Vanni – dice: ‘io non ho fatto nulla’, K dice che c’è un errore e gli risponde il poliziotto, diciamo così, quello di maggior grado: “Non si può sbagliare” – risponde il poliziotto -“le nostre Autorità, per quanto le conosco, e conosco solo i gradi più bassi, non cercano la colpa nella gente, ma, come è detto nella Legge, vengono attirate dalla colpa e devono inviare noi guardie. Questa è la Legge. Dov’è l’errore?” È stupendo. Precognitivo Franz Kafka. Pare una sintesi del processo Pacciani. L’Autorità attirata su Pacciani dal computer, almeno nella ipotesi, nella tesi ufficiale. Il computer che espone le colpe originarie del povero Pietro: l’uccisione del Bonini, la violenza alle figlie. E la colpa di Mario Vanni originaria dov’è? Eppure ci deve essere, non c’è versi. Una persona che partecipa a quei delitti per undici anni, a quei delitti – o per diciassette, vero, se si sposta il termine iniziale almeno al ’74 – qualche segno preventivo l’avrà pur dato nei suoi vissuti anteriori, no? E allora vediamoli, vediamola la colpa originaria di Mario Vanni, il quale ha settant’anni. Sentii dire, una volta: “spesi male”. All’epoca era un anno più giovane, questo processo non era nemmeno cominciato, stava per cominciare. “Spesi male”. Spesi male perché? Beh, se si deve dire che, insomma, tutta la sua vita quello che ha fatto, prima operaio, manovale edile, poi il procaccia, poi il postino, non è una carriera brillante, questo è sicuro. Non si deve dire che ha fatto un matrimonio infelice? Anche questo è vero; una bambina gli è morta. Che alza un po’ il gomito, sì, sì…

Mario Vanni: Sì, sì.

Avv. Nino Filastò: …un pochino il vino, eh?

Mario Vanni: Sì, sì.

Avv. Nino Filastò: Non è che gli dispiaccia a lei?

Mario Vanni: Sì, sì.

Avv. Nino Filastò: Nell’87 smette e va in pensione perché gli gira il capo, dopo aver fatto il postino e il procaccia, tutto per 34 anni?

Mario Vanni: Sì, 34.

Avv. Nino Filastò: 34. Cinquanta chilometri al giorno, prima in bicicletta o sempre in motorino?

Mario Vanni: No, con il motorino.

Avv. Nino Filastò: Col motorino. Acqua, freddo…

Mario Vanni: Eh, sempre.

Avv. Nino Filastò: Certo, sempre. E su di lui si addensano ombre, suggestioni, enfatizzazioni al limite del falso. Preconcetti gravissimi. E liberiamoci subito dalla prima e più grave enfatizzazione vicina a quel limite di falso che dicevo. Ecco qua. Requisitoria orale della parte civile avvocato Curandai, pagina 58, udienza 25/02/98: “Il Vanni che ci viene a dire: ‘sono un uomo mite e buono’, ma poi’ – veramente non l’ha detto solo lui, l’hanno detto anche dei testimoni, la sorella: ‘sì, Mario? L’è bono come il pane’ – “ma poi sappiamo che è stato incarcerato per aver gettato la moglie giù perle scale, incinta.” È vero Vanni?

Mario Vanni: Un’è vero nulla.

Avv. Nino Filastò: Un’è vero nulla. E infatti non è vero nulla. Perché il processino c’è stato; perché il processo per maltrattamenti in famiglia Mario Vanni l’ha subito, nel lontano 1964, 19 marzo 1964. Voi l’avete, è stato allegato dal Pubblico Ministero, il processo, non la sentenza. La sentenza di assoluzione eccola qui. È passata in giudicato, ve la do, ora. Tardiva? Sì, sì. Tardiva perché Dio sa che non l’avrei mai creduto che qualcuno in questo procedimento di questa serietà, di questa importanza, se ne venisse fuori con queste storie, del Mario Vanni che butta la moglie giù dalle… Ma quante volte l’avete sentito dire, anche dal Pubblico Ministero, mi pare, vero? I maltrattamenti alla moglie, dai quali deriva la condizione di spastica della povera Nunziatina, la figlia di Vanni. Allora, il comandate Anelito (?) Niccolaì dice che fra questi coniugi c’è burrasca: “La notte fra il 9 e il 10 dicembre ’63, lo scrivente trovò la donna piangente presso la famiglia Zecchi, abitante sulle stesse scale di casa,” – la famiglia Zecchi abita sulle stesse scale di casa, e la moglie era dalla famiglia Zecchi; sarà per questo che qualcuno si è inventato la donna buttata giù dalle scale? No, non è nemmeno per questo – “dove si era rifugiata per esimersi dalle percosse. Successivamente, specialmente in questi ultimi giorni, i fatti si sono aggravati, tanto che tre giorni fa il signor Mazzini Mario, rivolgeva a chi scrive la seguente domanda: ‘ma quando si finisce, sulle mie scale?'” – Punto interrogativo. Il collega disattento, che non legge le carte per bene, si vede che deve aver letto “finisce sulle scale”. Taci. E ha sbattuto la moglie di Vanni giù quelle scale. Capito? E invece è il vicino di casa. Quello che stava accanto a lei, siccome un facevate altro che litigare, lei e la su’ moglie, a un certo punto dice: “Ma quando si finisce, sulle mie scale?” La moglie è entrata nel nono mese di gravidanza, ha dovuto trascorrere la notte sul divano perché il marito non la voleva a letto.” Poi vedremo perché. “Per i motivi suesposti, allo scopo di evitare ulteriori sofferenze alla donna, che sia pure con qualche piccola colpa dovuta forse al suo imperfetto stato di salute” – dice il comandante della Stazione, Anelito (?) Niccolai – “io chiedo” – perché all’epoca funzionava così – “il mandato di cattura nei confronti di Vanni”. Lo pigliano e lo portano in galera, la prima volta. Quanto ci rimase Vanni?

Mario Vanni: Una decina…

Avv. Nino Filastò: Una decina di giorni, meno male. Interrogatorio di Mario Vanni, reso ai Carabinieri, sì, alla Legione Territoriale dei Carabinieri di San Casciano Val di Pesa: “Immediatamente dopo il ritorno dal viaggio di nozze” – dice Mario – “fra me e mia moglie di manifestò una forte incompatibilità di carattere.” Figuriamoci se lui dice “incompatibilità di carattere”, ma insomma, voleva dire tutt’altra cosa, ma poi venne fuori cosa voleva dire. “Peraltro la donna è poco dedita al lavoro e non si applica nelle faccende domestiche.” Verissimo, lo sappiamo, ce l’ha detto un testimone qui: che è lui che fa le faccende in casa e da mangiare. “A nulla sono valsi i richiami che più volte le ho fatto, anzi, reagiva offendendo me e mia madre” Perché? Perché questi due stanno in casa insieme alla mamma di Vanni. Vero?

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Che poi è morta.

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Ma stavano insieme. E questo non facilita le cose, ovviamente. I dissapori si acuiscono, quando in casa c’è anche la suocera. “In questi ultimi giorni è divenuta insopportabile, per cui talvolta sono stato costretto a cercare di emendarla dandole qualche schiaffo.” E lo ammette lui di avergli rifilato un paio di ceffoni, o quattro anche. “Non è vero che minacciai di colpirla con un coltello”, dice. E poi chiarisce: “È notorio che il suo stato psichico è anormale.” Dice Mario Vanni. “Per questo motivo, circa un mese addietro, avevo preso accordo con medico curante, dottor Zerini Ferdinando, per sottoporla a una visita specialistica” – nove mesi dopo siamo, a nove mesi dal matrimonio – “ma tanto lei che i suoi familiari si rifiutarono. “ E poi dice: “Sono disposto a qualsiasi sacrificio pur di tornare a essere solo con mia madre.” Poi c’è il mandato di cattura, lo mettono dentro. La Landozzi viene interrogata il 9 di dicembre e dice: “Mio marito m’ha percosso.” Percosso come? Perché poi, vedete, il processo: c’è i maltrattamenti, ma non c’è mica le lesioni; il Presidente si rammenta. Anche se fossero state lesioni a querela di parte, la connessione, all’epoca, con il reato perseguibile di ufficio portava anche quella contestazione. Lesioni non ce n’è. Non c’è nessuna lesione. “Purtroppo è andata sempre di male in peggio. Mi percuote, mi ha cacciata fuori di casa. Mi sono dovuta ricoverare, come vede, presso la famiglia Zecchi, perché lui mi ha minacciato con un coltello. Tutti sulle mie scale possono testimoniare quali e quanti maltrattamenti continui io subisca…”, eccetera. Va bene. Si arriva al giorno 17 del mese di settembre. Il processo è fissato per il giorno 6 ottobre 1964. E il giorno 6 ottobre 1964 si fa il processo. Che tempi felici, Presidente, ma che bei tempi, eh. Nel ’64, il rapporto dei Carabinieri è del marzo del ’64, il giorno 6 ottobre ’64 si fa il processo; e si fa il processo subito e c’è subito la sentenza. Voglio dire, pensate a quel che sta succedendo ora al Tribunale di Firenze, sembra di sognare, sembra. Si fa il processo. Però qui siamo un po’ prima, siamo a settembre, siamo a meno di un mese dopo. Il carabiniere chiama – il Niccolai – chiama il Vanni e lo interroga e gli dice: “Si può sapere perché sua moglie, che è uscita da poco dalla maternità, si trova fuori casa?” Il 30 aprile ’64 era nata la bambina, quella spastica, chiamata Maria Annunziata. “Sa dirmi chi e perché sua moglie venne ricoverata a Villa Speranza?” Che è una specie di clinica, non so cos’era Villa Speranza.

Mario Vanni: Come?

Avv. Nino Filastò: Va be’, Vanni, sua moglie venne ricoverata a Villa Speranza dopo il parto, non tornò a casa.

Mario Vanni: No.

Avv. Nino Filastò: “Tale ricovero” – dice Vanni – “avvenne su mia richiesta, per evitare che mia moglie, Landozzi Luisa, tornasse in casa mia prima della celebrazione del processo a mio carico fissato per il 6 ottobre 1964.” Guardate guest’uomo com’è rispettoso anche della legge. Lui sa che, a un certo punto, c’è del malanimo fra, insomma: ‘a un tratto, voglio dire, mi hai mandato anche sotto processo, mi riprendesse cinque minuti…. Meglio che stia lontano’. Paga. E la tiene alla larga da casa. “In merito al ricovero tengo a fare presente che ora mia moglie si trova presso la Pia Casa di Lavoro in via Malcontenti di Firenze, per il cui soggiorno ho pagato circa mille lire al giorno, come posso dimostrare da documenti in mio possesso.” “Poiché risulta a questo Comando” – dice il Comando dei Carabinieri – “che sua moglie vuole tornare a casa e che lei non ce la vuole, si invita a precisarne i motivi.” Risponde lui: “Non intendo riprendere in casa mia la Landozzi Maria, mia moglie, perché non è normale.” Domanda: “E se, ciò nonostante,” – gli chiede il carabiniere – “sua moglie tornasse ugualmente a casa, cosa intenderebbe fare lei?” Risposta di Mario Vanni: “Lei è padrona di tornare quando come vuole. Ma è certo che io non le consentirò mai di avvicinarsi a me, sebbene sia disposto a non molestarla ed a procurarle il necessario per vivere.” Ma in che consistevano… E, va be’, cosi dice lui e così fa. Per 30 anni almeno, 34…

Mario Vanni: 34.

Avv. Nino Filastò: …mai più niente. In casa la moglie, lui c’ha da fare, fa le faccende, la tira su di terra quando ha le crisi epilettiche, la cura, fa venire il medico quando è necessario, si attacca al muro della cucina – gli ho detto di portarmelo – la foto della bambina, morta dopo cinque anni, la va a trovare al cimitero, la Nunziatina morta, e né Carabinieri, né vicini di casa, né nessuno sentono più parlare di questi coniugi. Non gli fa mancare nulla alla Landozzi.

Mario Vanni: No.

Avv. Nino Filastò: E fra i due c’è un rapporto umano. Sono stato in questa casa fra di loro, li ho visti insieme. Oddio, l’è un po’ uggiosa la su’ moglie, Vanni.

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Diciamo la verità. Non fa che parlare in continuazione, affabulatrice. Però, insomma, meglio lì che in un ospedale psichiatrico, vero Vanni?

Mario Vanni: Eh.

Avv. Nino Filastò: Eh?

Mario Vanni: Sì, la dice bene.

Avv. Nino Filastò: Meglio lì, vero?

Mario Vanni: Eh.

Avv. Nino Filastò: Eh, va be’. E la sentenza. La sentenza chiarisce. Perché vengono sentiti anche dei testimoni. E chiarisce qual è il motivo del dissente dissapore, diciamo così. Siamo nei mesi immediatamente successivi al viaggio di nozze. Durante il viaggio di nozze avete concepito questa bambina, che nasce nove mesi dopo.

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Da quel momento questa donna: la saracinesca. Non lo fa mica apposta? Poera donna, è malata, l’è di fori. È di fuori come un terrazzo, per usare un’espressione volgare. È epilettica, non gli va. E lui che ne sa?

Mario Vanni: Io un ne sapevo nulla.

Avv. Nino Filastò: O bravo Mario. Lei non ne sapeva nulla.

Mario Vanni: Nulla. Rimasi così, ingannato.

Avv. Nino Filastò: È rimasto ingannato, è rimasto. E c’è rimasto male, poveruomo, perché l’ha presa come disprezzo nei suoi riguardi, come rifiuto. È per questo che reagisce e lo dice al dibattimento del processo, riportato nella sentenza. “La Landozzi non soltanto opponeva costantemente il rifiuto” – a che cosa? Al coito, ovviamente –“ma spesso reagiva con parole e atteggiamenti che egli credeva ingiuriosi, fino a che la discussione degenerava e più spesso in violenze verbali e materiali e il Vanni ammetteva anche di aver trasceso talvolta nella eccitazione del momento.” E si capisce. Insomma, si capisce… Voglio dire, non siamo mica negli alti quartieri, siamo in una casetta di San Casciano Val di Pesa, questo fa il postino, questa donna… E siamo tornati da due giorni dal viaggio di nozze. E insomma, lui quanti anni aveva? 34 anni. E perbacco! E insomma, e lui vuole, desidera, e questa: no. “Tali affermazioni dell’imputato” – dice il Tribunale, Presidente Caccavaie, Bagnoli Luigi Giudice, Menna Alessandro altro Giudice – “hanno trovato riscontro nelle deposizioni dei testi Maggini Mario e Sodini Roberto”, che erano due vicini di casa mi immagino, no?

Mario Vanni: Sì. . .

Avv. Nino Filastò: “Del resto anche il maresciallo” – il denunciante – “ha ricordato come il Vanni si fosse lamentato con lui del comportamento della moglie…”, eccetera, eccetera. E così via. E l’assolvono con la motivazione che, per insufficienza di prove; motivazione che si accentra sul dolo ma non solo. Perché a un certo punto dice: “Come minimo, l’elemento psicologico si sostanzia…”, eccetera. Però, rileggendola, si vede che l’elemento di mancanza di prova riguarda in particolare tutta, tutta, tutta la situazione. E questo cos’è diventato in questo processo? Il lancio dalle scale della moglie, al punto da provocare quella situazione per cui la bambina nasce spastica. Ma come mai non è venuto stamani?

(voce non udibile)

Avv. Nino Filastò: Peccato, peccato. Non solo non c’è il lancio dalle scale, ma non c’è nemmeno nessuna lesione. E questo lancio dalle scale, probabilmente, è un’invenzione nata dalla lettura, così, non diligente della carta processuale in cui si dice: “Quando si finisce, sulle mie scale?” Uno legge rapidamente, il giovane avvocato c’ha questa sua sicurezza di tratto, legge: “finisce sulle scale”, eccola là, l’ha buttata giù dalle scale. E il Pubblico Ministero poi viene qui e dice anche lui che la bambina, probabilmente, è nata in quel modo per via dei maltrattamenti e delle lesioni. E poi mi pare anche lui ne ha parlato di questo lancio dalle scale. Io non sono riuscito a ritrovarlo e tutto, però ne ha parlato anche lui, mi pare. Però ha parlato di una cosa peggiore lui, qui. Addirittura peggiore. Tanto che a me è venuto in mente quel detto popolare toscano che dice: “se unn’avete altri moccoli, andate al letto a i’ buio”. Ma che si nota allora, qui? Che cosa si ricava? Perché siamo a metabolizzare, no, un po’. Allora, che si metabolizza da questa storia? Che qualcosa, da qualche parte, quest’uomo deve trovarla, no? Se la moglie è cosi, malata, al punto da rifiutare quello che una volta veniva chiamato il “debito coniugale”, oggi le cose sono cambiate, per fortuna, non se ne parla più in questi termini. Ma insomma, il buonomo… Dove la va Vanni?

Mario Vanni: Eh.

Avv. Nino Filastò: Andava da qualche prostituta.

Mario Vanni: Uhm.

Avv. Nino Filastò: La burrasca c’è stata, certo, di fronte al rifiuto, di fronte al fatto che un uomo, a distanza di pochi giorni dal viaggio di nozze, si accorge di non aver più quella donna che pensava di avere; sia pure sbagliando, certo, perché, come dice il Rus…: “pigliare a schiaffi la moglie è da villani, una vigliaccheria che fa vergogna”. Poi aggiunge: “Se vedi l’amico quanto è carogna, credi, te le leva dalle mano. E manco a farlo a posta c’è carogna proprio nel momento che … strano e allora glielo appiccico come…” eccetera. E saltano i nervi a Mario Vanni, certo. Dice: ‘ma come? Siamo sposati mica da mesi e mesi’. Eh, insomma. Poi dopo capisce che è il malanno, dopo capisce che è la malattia, dopo capisce che non c’entra la Maria Landozzi, poverina, ma c’entra l’epilessia, c’entra il suo stato e tutto il resto, e allora dice: ‘la ripiglio in casa. Non ne voglio sapere perché…’ E da quel momento niente. E siccome è anche religioso, vero? Cristiano, vero?

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Fascista e cristiano… Anzi, cristiano e fascista. Come disse al dottor Vigna? Con Vigna vi eravate intesi. Poi lo vedremo. Cristiano e fascista; cattolico, praticante, va a messa tutte le domeniche. Per lui il vincolo del matrimonio, è il vincolo del matrimonio. Non va a cercare separazioni, divorzio, eccetera. Niente. Pazienta. Il paziente pazienta. 35 anni paziente. Anche perché, insomma, anche lui non è che sia poi proprio quel… beh, insomma. Attacca al muro della cucina questa fotografia, che lui si intenerisce sempre a guardarla. Grazie Mario, mi è servita così, per ispirazione.

Mario Vanni: Posso prenderla?

Avv. Nino Filastò: Certo. E poi tira avanti così, da povero, da umile, da persona ipodotata; sopporta la moglie. E siccome è un uomo normale, e siccome la Luisa non è disponibile, come ci hanno detto anche testimoni in questo processo – non c’è solamente questa sentenza, che io pregherei di prendere, se la volete, eccola qua; comunque chiedo di produrla, Presidente, chiedo di produrla – siccome è un uomo normale, la Luisa non è disponibile, per questo non per vizio – capite? Non per vizio – ogni tanto frequenta prostitute. “Quelle vecchie fiorentine”, dice la Ghiribelli. Perché, da uomo com’è, umile, per bene, cerca queste signore, come dire, quelle vecchie fiorentine. Quelle di strada, insomma, che hanno quest’aria familiare. Oqni tanto va. Per forza, che deve fare? Poi beve, ovviamente, alza il gomito. I poveri del secolo scorso dicevano: “Il vino è vitto e il vino è anche consolazione. Levateci anche il vino…”! E va be’: 35 anni senza una menda. Dopo questo processo, che si chiude con questa assoluzione, nato, secondo me, da una enfatizzazione eccessiva di questo carabiniere. Nei paesi, beh, comunque, 35 anni: nulla. Il Pubblico Ministero, che penso che l’abbia cercata, voglio dire, non è riuscito a trovare una persona che parlasse veramente male di Mario Vanni, in questo processo. Non un gesto di violenza, dopo quegli schiaffi alla Luisa. Non un furtarello. Non guardone. Ma quale guardone? Testimone Ricci: “Mah!” – Udienza, 8 luglio 1997, pagina 11, fascicolo 20 – “Guardoni?” Poi gli chiedono: “Facevano i guardoni?” Dice: “Guardoni? Mah, di questi affari qui, di guardoni… una chiacchieratina tira l’altra.” Va in giro a fare le merende, perché questa è la sua colpa originaria – addirittura ha inventato un’espressione “amici di merende” insieme al vecchio postino Dori.

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Quello che è morto. Insieme al Simonetti, un ex maresciallo dei Carabinieri. Ma c’è una circostanza che mi sembra il caso di additare, interessante. È riferita dal teste Ricci ed è indicativa dei rapporti che ci sono stati, abbastanza superficiali, tra Pacciani a Vanni. Il teste Ricci racconta della sua partecipazione, insieme a Pacciani e a Mario Vanni, a una dì queste feste di paese. Che poi queste merende, in massima parte, sono quelle che si fanno durante queste feste paesane: la sagra del tortellone con le patate del Mugello, la sagra dell’uva, la sagra dei fichi col prosciutto. Insomma, basta… sapete come stanno, com’è questo ambiente, questo circondario, questa campagna toscana che conserva queste cose. Per fortuna. Era, infatti, la festa dell’Impruneta, la festa dell’uva all’Impruneta. Classica festa, proprio, ci sono andato anch’io: lì si fanno i carri con tutta l’uva. E Pacciani, a modo suo – suo solito, vero, perché Pacciani un fissato è, è indiscutibile, infastidiva qualche donna; passava qualche donna e gli faceva il commento salace. Le solite “paccianate” del Pacciani. Riferisce il teste Ricci: “E Vanni disse che qualche volta ci si trova a qualche complicazione”. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Il “mostro di Firenze” disse, capito?

Avv. Nino Filastò: ‘Guarda di farla finita, perché a volte ci si trova a qualche complicazione, si trova qualche fidanzato che ci tira un par di picchi in testa, insomma, è meglio smetterla, eh!’. Persona per bene, posata… lo scavezzacollo, il rompiscatole di Pacciani, allora dice: ‘senti, guarda, finiscila perché sennò qualche volta ci si trova a qualche complicazione’. Gli disse così, Mario, vero? Mah, un se lo ricorda Mario. Ha sentito questo…

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Ancora la teste Mazzei. Avevo detto che c’erano anche testimonianze che, per dire di questi rapporti fra marito e moglie, a pagina 63, udienza 8 luglio ’97, teste Mazzei: “La moglie non ne voleva sapere.” Tant’è vero che aggiunge poi, la teste Mazzei, a domanda se gli consta se lui andava con qualche prostituta, all’udienza dell’8 luglio ’97, fascicolo 20, pagina 64: “Vanni da qualcuno l’andava senz’altro, perché se la moglie non era mai…” Il teste Mazzei, udienza 8 – l’ho chiamato “la teste” fino a ora, invece è un teste – all’udienza dell’8 luglio del ’97, sempre, fascicolo 20, pagina 69: “In questi posti dove andavano a far le merende…” – eccetera – “pagava Vanni sempre. E per questo non ci voleva Pacciani”. Non perché avesse paura – questo lo dico io, non lo dice il teste – ma perché, insomma, Pacciani, prima di tirargli fuori una lira… dica la verità, Vanni.

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Ci voleva gli argani.

Mario Vanni: Gl’è un usuraio.

Avv. Nino Filastò: L’era un usuraio, l’era; vero, Vanni?

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: E qui però si introduce un altro aspetto, da parte prima di alcuni testi, poi vedremo da parte di alcuni più seri, addentellati di carattere scientifico. Si inserisce un altro aspetto della personalità di Vanni che riguarda la sua… eh, insomma, il suo non essere particolarmente brillante di testa. Che non è solo alcoolismo. Il teste Vanni Paolo, all’udienza del 14 luglio del ‘ 97, a un certo punto se ne esce con questa frase: “È sempre…” A lui gli chiedono: “Ma come veniva Vanni da lei, a trovare lei?” Perché questo testimone ha una trattoria che si chiama “Il Tranvai”, in piazza Tasso.

Mario Vanni: Piazza Tasso.

Avv. Nino Filastò: Che fra l’altro è una trattoria molto nota, molto conosciuta.

Mario Vanni: Sì, come no.

Avv. Nino Filastò: Classica trattoria toscana, fiorentine, di quelle… però si mangia bene. Le solite cose: la ribollita, la pappa col pomodoro. Insomma, tutte cose che si fanno qui in Toscana. “È sempre venuto da solo con l’autobus, quando riusciva a prenderlo.” “P.M.: Che vuol dire?” “Vanni: Perché alle volte non sapeva né gli orari, né. . . Va bene, trovava qualcuno che lo portava, veniva con qualcuno. “

Mario Vanni: Quando andavo dal mi’ nipote, sì.

Avv. Nino Filastò: Andava dal nipote, quando riusciva a pigliare l’autobus c’andava. Sennò ce lo accompagnava qualcuno. Il più delle volte ce l’accompagnava qualcuno?

Mario Vanni: Uhm.

Avv. Nino Filastò: Eh.

Mario Vanni: Andavo con la Sita.

Avv. Nino Filastò: Con la Sita. Quando riusciva a prenderla, dice suo nipote. Poi Vanni parla dell’abitudine di alzare il gomito. Vanni e Lotti si vedevano? Dice: “Sì, a pranzo, a cena no. Perché la sera l’erano bell’e pieni tutti e non era più il caso. I’ mi’ zio, il più dei giorni” – udienza 14 luglio ’97, fascicolo 24, pagina 6 – “il più dei giorni, la sera alle sei, era bell’e a letto, perché era bell’e…”, puntini di sospensione. Aggiungo io: “briaco”. Ancora, a questa stessa udienza, fascicolo 24, pagina 37, dopo un intervento estemporaneo dell’imputato Vanni che dice: “Non ne posso più”. Eh? Si ricorda Vanni?

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Senz’altro se lo ricorda. A un certo punto lei dice: “Non ne posso più”. Vanni Paolo, il teste Vanni Paolo, dice: “In nessuna cosa riusciva a spiegarsi chiaro.” Dello zio. Ecco, un quadro, certo, non molto approfondito. Una perizia avrebbe, in qualche modo, chiarito meglio le cose. Allora, Ricci lo abbiamo visto; Mazzei lo abbiamo visto.

Avv. Nino Filastò: Ghiribelli, che dice di male di Mario Vanni? Ghiribelli è la prostituta con cui lui dovrebbe manifestarla questa perversione. Non è vero nulla. Non mi ricordo se ci è andato una volta, o mai, con la Ghiribelli.

Mario Vanni: Mai.

Avv. Nino Filastò: Mai. Con la Filippa Nicoletti ci è andato una volta sola, lui. E poi più, perché? Si faceva pagar troppo, vero Vanni?

Mario Vanni: Sì, troppo.

Avv. Nino Filastò: L’Alessandra Bartalesi, dell’Alessandra Bartalesì ne parleremo a parte. Perché è un testimone importante e perché dice alcune cose; perché è uno degli esempi più sgradevoli di questo processo, di forzatura della prova. Perché, insomma, strumentalizzare questa ragazzina, questa poverina, questa brava ragazza, questa buona ragazza, tanto perbene e così generosa come lei, è stato un episodio sgradevole, ne parleremo a parte. Come parleremo a parte della Sperduto, un teste – anticipo fin da ora – totalmente e assolutamente inattendibile, oltre il limite della incapacità di testimoniare. L’avete vista qui. E se, come dice il Pubblico Ministero, Vanni dorme con un occhio solo – e non è vero nulla, perché dormiva tutto il tempo con tutti e due e molto profondamente – la Sperduto piange senza lacrime. Te non c’eri. Anche lì: ‘Uhm… mi tenevan qua…’, poi fa finta di piangere. Ha pianto. Però… Tanto da non esser messa – tanto inattendibile, incapace, teste indecente da portare in un dibattimento, scusate – tanto da non essere nella lista del Pubblico Ministero. Una svista. Macché svista! Poi c’è il Nesi Lorenzo, il quale, a parte le sue impressioni soggettive: “Il Vanni sbiancò.” Qui poi, a parte questo, è una cosa che ne parleremo a parte. Che abbiamo due testimoni che sembrano inventati, insomma. E anche loro simmetrici. Il Nesi Lorenzo, per gli Scopeti. E la Frigo, per Vicchio. Sembrano… Anche loro verbosi: parlano, parlano, discutono, raccontano, dicono. Impressioni soggettive: ‘io ebbi l’impressione’, ‘io ebbi la percezione’, ‘io ritenni’. E nessuno – fra l’altro io non c’ero – ma nessuno disse: scusi, guardi che lei queste cose, lei, non le può dire. Le impressioni, lei, le racconti al bar, non nell’aula della Corte di Assise di Firenze. Invece, il Nesi ne parla di impressioni. Ma perché? Perché glielo chiede il P.M.: ‘ma lei, ha avuto l’impressione che…’. Don Poli. Don Poli parla della religiosità di Vanni: alla Messa tutte le domeniche. Pucci: “Tutti amici del Vanni, a Monte”. Pagina 4, udienza 4 ottobre ’97, Pucci Maria Grazia. Ma mi sembra, a questo punto, diventa importante, significativo, ai fini della presentazione, prospettazione dell’uomo. Poi farete voi, dopo si faranno, le valutazioni perequative. Si prenderà il Vanni da una parte, dall’altra parte i delitti e si dirà: come ci stanno? Eh? Come legano? Quale punto di contatto ci può essere? Ma prima di questo, prima di addentrarci sull’aspetto – sì, no, no – clinico-neurologico, che non è attuale, è pregresso. Attenzione! Eh, scusate, ma quella vostra ordinanza non ha bene esaminato, perché “il torsolo”, cosiddetto… Scusi, eh, Vanni. Abbia pazienza.

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: …ipodotato – cioè, torsolo, vuol dire duro, no? – è cerebropatico; da una perizia che riscontra questo attraverso una indagine tecnica. Vale a dire una indagine oggettiva, la TAC. “Il soggetto…” Dunque: “Episodi di assenza in soggetto con atrofia cortico corticale diffusa della sostanza bianca periventricolare.” Pagina 2 della relazione Barontini e Maurri, Leoncini e tutti gli altri. A pagina 5: “Piccolo esito lacunare a livello del putamena (?) sinistra. Diffusa ipodensità della sostanza bianca di entrambi gli emisferi, quale espressione di leocoencefalopatia multifocale su base vascolare cronica.” Significato? Tocco. I consulenti tecnici, dottoressa Niccheri Gineprari e il dottor Massimo Sottili, specialista in neurochirurgia, fanno una diagnosi di “deterioramento mentale”. Mettetelo a fianco con il Vanni che non riesce a prendere l’autobus per venire a Firenze, col fatto che si spiega male. Con l’impossibilità di tirargli fuori qualche cosa, a proposito di questa famosa lettera, no? Poi ne parleremo, che lui va in giro a far vedere a tutti. A far vedere, ne parla con tutti. Tutto il mondo ne parla di questa lettera, perché è l’elemento indiziario più serio, questo. Sulla lettera la cosa più seria da dire è questa: ne parla con tutti. E però, quando qualcuno gli dice: ‘ma icché c’era scritto?’ ‘Mah…’, un si spiega, un si sa spiegare. Poi si fa cascare in terra, va a finire all’ospedale, si fa l’analisi. E viene fuori, addirittura, il segno clinico, sicurissimo. Dottor Jekyll e Mister Hyde; da una parte “torsolo”, ipodotato, un po’ aggravato, questo, anche dall’alcool che usa. E poi, tutto a un tratto, nelle notti questo “torsolo” si scatena nell’istinto omicida, perverso; si accompagna con un gruppo di altri assatanati, brandendo il coltellaccio da cucina e facendo quelle cose che voi avete negli atti, vero, con quelle escissioni di quella esattezza, di quella precisione, di quella freddezza, che voi avete negli atti. È un po’ improbabile. Mettiamola almeno così: un po’ improbabile. Perché devo dire così, io: un po’ improbabile? È assurdo, non esiste. Ma siccome lo dicono Lotti e Pucci, e siccome il Pubblico Ministero dice che è un perverso, è un perverso. Su quello non ci piove. Vanni, Mario Vanni è un perverso. Ed ecco la seconda deformazione grave dopo quella della moglie buttata dalle scale: la perversione di Mario Vanni. Collegata alla prima, ovviamente, no? Perché, eh, tu butti la moglie incinta dalle scale, sei un perverso, sei un perverso, anche per altre cose, però, eh. Della moglie dalle scale spero di essermene liberato; vediamo di queste altre cose. In che consiste? Nel fatto che frequenta le prostitute e che si porta dietro, qualche volta, un vibratore. Ma lo sa il Pubblico Ministero cos’è in sessuologia la perversione? L’accusa, non solo il Pubblico Ministero, anche quegli avvocati di parte civile che si sono prodotti in questo sfoggio di scarsa cultura — scusate, eh — scarsa cultura in un campo abbastanza difficile. Ma lo sanno cos’è la perversione? Io credo che il Pubblico Ministero questo libro lo abbia letto. Per gli altri che non lo avessero letto, al limite basta la copertina. “Perversione: la forma erotica dell’odio”. Bellissima immagine di questo Robert Stoller che ha scritto questo libro: “Perversione: la forma erotica dell’odio”, sottotitolo. Che il dottor Perugini, professionista serio, l’ho detto quando è venuto a… Ho avuto il piacere di, il pomeriggio, dopo, ho avuto una telefonata, il dottor Perugini: ‘avvocato, mi venga a trovare a Roma, gli faccio vedere come funziona questo. Ho notato che lei, il caso, lo ha approfondito’. Persona squisita. Non sono per niente d’accordo con lui, con le sue indagini, con le sue conclusioni. Il processo Vanni… Il processo Pacciani, l’ho discusso in un’altra maniera, non come sto discutendo questo. Questo lo sto discutendo con la bava alla bocca, un po’ con una sorda irritazione. Quello no. Che significa? Significa, detto in termini molto semplificati, semplicistici se volete, significa –“La forma erotica dell’odio” – significa che il perverso prova ostilità, non aggressività, ostilità – c’è la distinzione fra ostilità e aggressività in questo libro – prova ostilità nei confronti dell’oggetto della sua pulsione sessuale e prova la soddisfazione amorosa facendogli male. In un modo più o meno grave, perché al limite della perversione, l’ultimo limite della perversione, ci sono i delitti che voi avete in questo, nel fascicolo, nei fascicoli della prova generica. Voi vedete, no? Poi vedete, l’ostilità, l’avversione, la cattiveria nei confronti della donna, non solo attraverso le escissioni, non solo attraverso la uccisione, ma anche attraverso la esibizione, che è la cosa più terribile di quest’uomo. Quando, dopo averla uccisa, quella… così rovinata, la sistema in quella positura, in vista: il massimo del disprezzo, il massimo dell’odio. Ecco, alla fine si trova questo. Ma poi ci sono dei comportamenti intermedi, ovviamente. C’è, per esempio, che va a prostitute non perché necessitato ad andarci, ma perché riesce ad avere un rapporto per lui soddisfacente… Voi capite, voglio dire, vi ho dato l’indicazione del termine più estremo, che è quello che avete lì negli atti, quello dei delitti. Ora vi dico quello più attenuato: l’uomo che va a prostitute, che trova soddisfazione solamente con la prostituta. Perché? Perché la prostituta è degradata; e perché, attraverso il rapporto con la prostituta, trova il rapporto degradato che lo soddisfa. Lui la paga, la donna è oggettivizzata, reificata al massimo. Questo gli dà la soddisfazione, così. Anche questo può essere materia di perversione, in grado di un comportamento intermedio, certamente non grave, non così patologico come quello che trovate in questo processo. Ma quando le cose sono diverse, questo scrittore – no, non è uno scrittore, è uno scienziato – questo scienziato… Dicevo prima il dottor Perugini, dice nel suo libro di aver tenuto questo testo come una specie di Bibbia, per le sue indagini. Il dottor Perugini è uno che legge i libri, li legge. Le studia, le cose, eccetera. E fa anche bene. Si sa che certe cose o si studiano o non si studiano, vero. Per dirla anche al collega, là, che legge le carte, vedendo con, finisce con… Come diceva Che Guevara: “El nino che no estudia no es un buen revolucionario”. E io dico che l’avvocato che non studia, non è un buon accusatore. In questo capitoletto il signor Stoller intitola il capitolo con questa espressione: “Faut de mieux”, “In mancanza di meglio”. Quando la scelta di un certo tipo – e ne parla a proposito della bestialità, ne parla a proposito della bestialità – e dice: “Nel caso dei pastori, ad esempio, si presume di solito che il coito con le pecore sia dovuto alla mancanza di qualcosa di meglio e non al fatto che le pecore siano i loro oggetti di amore preferiti.” L’unica eccezione che conosco appare in un film di Woody Alien, che infatti il film è: “Tutto quello che voi avreste dovuto sapere sul sesso…”, eccetera. Spero che lo abbiate visto, perché è delizioso. Bene. Quindi poi continua in questo capitolo intitolato “Faut de mieux”“Un uomo può indursi a rivolgersi a prostitute in mancanza di meglio; può essere un minatore delle miniere d’oro dello Yukon e le uniche donne disponibili possono essere prostitute. Ma se si tratta di – un agente di cambio di New York che è impotente tranne che con una donna ufficialmente degradata?” Ecco, il minatore là, dello Yukon, eh, lui va con le prostitute perché sono le uniche disponibili; l’agente di cambio di New York, che trova soddisfazione e riesce ad avere l’orgasmo solamente con la prostituta, eh, no. Lì è perché lui cerca la degradazione e riesce ad ottenere soddisfazione dei sensi, come si dice, solo con la donna degradata. Ha qualcosa a che vedere con gli agenti di cambio di New York, il signor Mario Vanni? Con la moglie che, insomma, è in quelle condizioni che sappiamo? Con le sue condizioni personali, ‘ anche di carattere psicologico, di rapporto, che sono quelle di essere “torsolo”? Va con le prostitute perché non ha altro da fare. “Faut de mieux”. E come lui ci sono tantissime persone. E non ci mancherebbe altro che tutte queste persone, non solo minatori dello Yukon, ma anche, che devo dire, postini di San Casciano; ma anche, che devo dire, contadini di Barbiana; ma anche, che devo dire, non so, i muratori di Caltanissetta. . . Ma insomma, tutta questa gente, sono tutti perversi secondo il Pubblico Ministero? Ma dove siamo? Però usa il vibratore. E questo del portarsi dietro il vibratore, questo sì, questo è indizio di perversione. Non è per niente vero. Casomai è indizio del contrario. Volendo darvi una… li vendono questi affari: “Il vibratore lo usa chi considera, o sente come componente del proprio piacere, il piacere altrui” – no? – “del partner.” “E non…” Intendete, vero, si sta parlando di cose scabrose, siamo entrati, ho detto, in quello che abbiamo richiuso la finestra, a questo punto. È rientrato quell’odoretto di cui dicevo prima. Ma che si deve fare? Il processo è questo qui, parliamo anche di questo. Ahimè, mi dispiace per la signora che mi ascolta, perché è una cosa noiosissima. “Considera…” Quindi: “Chi usa il vibratore, considera come componente del proprio piacere il piacere altrui” – evidentemente, no? – “del partner. E non potendo procurarlo, questo piacere altrui, con lo strumento normale, ne usa uno artificiale.” Strumento artificiale, d’altra parte, larghissimamente in commercio, strausato, proprio perché corrisponde a questo scopo, a questa funzione. Che ha a che fare, questo, con la forma erotica dell’odio, sulla perversione? Ma qui, voglio dire, capite, non è che ora si sta facendo una discussione teorica: perversione, non perversione; questa è perversione, questo no; questo di qua, questo di… No, no, no. Qui, noi, a questo punto, abbiamo come punto di riferimento quei delitti; abbiamo come punto di riferimento questa ostilità, questo odio che questa persona manifesta nei confronti dell’elemento femminile, della donna. E, usando questo termine medico di sessuologia, di sessuopatologia, stiamo cercando di trovarlo, in qualche modo, vicino a questo signor Mario Vanni. Perché lui va dalle prostitute, perché lui usa il vibratore. E troviamo questo aspetto. Che ha a che fare l’uso del vibratore con l’ostilità verso l’oggetto? Nulla. Avete un qualsiasi dato, è venuto qualcuno, qualche testimone a dire che lui abbia usato il vibratore, per esempio, per straziare, per far male, per intormentire, per dar fastidio, per degradare? No. Sapete che una volta gli è cascato in autobus. Cosa che ha fatto ridere mezzo paese, perché era il periodo delle Brigate Rosse e lo hanno preso per un terrorista. Nero, magari. Eh, Mario?

Mario Vanni: Eh…

Avv. Nino Filastò: Lì per lì, questo… che si sia messo a saltabeccare… non so se è scritta una cosa di questo genere. Può esser vera. Comunque… Ma testimoni, persone, prostitute. Sperduto a parte che fa quel raccontino sul quale dovremo, in qualche modo, tornare proprio con l’uggia addosso di doverlo fare. Fare del male a chi? Vanni va con le prostitute, perché la moglie gli si nega e perché non è un agente di cambio di New York, ma è un postino di San Casciano Val di Pesa. Usa il vibratore quando capita e quando gli vien consentito – chissà quante poche volte lo ha usato – perché, dopo una certa età, lo strumento naturale non funziona più tanto bene.

Mario Vanni: Uhm.

Avv. Nino Filastò: È così, Mario? Sì, o no? Che un gli funzionava più tanto bene?

Mario Vanni: Uhm…

Avv. Nino Filastò: Sì o no?

Mario Vanni: Vero.

Avv. Nino Filastò: “Fout de mieux”, appunto. Ma quale perversione? E poi ci sono le lettere. Per capirlo, per capirlo. Le lettere, a furia di parlare di queste lettere, l’ho volute leggere, eh. E insomma, faccio una istanza di arresti domiciliari, di modificazione della custodia cautelare dal carcere, lui stava morendo in carcere. Faccio questa istanza: eh, le lettere di minaccia! Uno icché deve fare? Insomma, ecco. Non si può mica sempre veder tutto. Alla fine, alla terza o quarta volta che sento parlare di queste lettere di minaccia del povero Mario Vanni, da cui si dovrebbe ricavare la pericolosità, non lo so – la sua perversione parrebbe di no, perché, ma insomma – comunque, la sua aggressività, cattiveria… Ho detto alla signora Chiara Mazzeo, ho detto: ‘senti, mi fai un piacere? Me le ordini in copia?’ Mi ha telefonato in studio. Dice: ‘avvocato, ma sono 220’. È così che ha detto, no? 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: (voce non udibile)

Avv. Nino Filastò: ‘Sono duecento… Tutte?’ ‘Sì, tutte’, dico io. ‘Ma guardi, sono tutte uguali’. ‘Tutte !’ Ora sono là, tutte in studio. Voi, le avete anche voi, eh. Un malloppo alto così. Tutte uguali, Presidente. Salvo due o tre che lui scrive, mi pare, ai parenti di Pucci, gli dice delle contumelie… Tutte uguali: ‘io sono innocente, non c’entro nulla. Mi hanno messo in galera, non c’entro niente. Per colpa di quei due grulli’ -“grulli”, dice – poi: ‘pazzi’, poi che altro usa -: ‘Lotti e Pucci che, quando esco, glielo fo vedere io’. Eh, vorrei anche vedere che non dicesse questo! “Questi du’ grulli e questi du’ pazzi.” E queste lettere, ma questo è importante, a chi le spedisce al Pucci, al Lotti per intimorirli? No, è persona troppo onesta per fare una cosa di questo genere. Lui le spedisce a tutto il paese: all’ortolano, al prete, alla Misericordia…

Mario Vanni: Sì.

Avv. Nino Filastò: Alla Misericordia. Poi, al medico…

Mario Vanni: Ai parenti.

Avv. Nino Filastò: Ai parenti. A tutti. Perché? Perché è lì in galera, poveraccio, da otto mesi. È più di otto mesi, non vede nessuno. La moglie non lo va a trovare, perché è in quelle condizioni; gli hanno levato anche il telefono, non può telefonare, isolamento assoluto. E che fa in carcere?

Mario Vanni: Sequestrato ogni cosa.

Avv. Nino Filastò: Sequestrato ogni cosa, ecco. E scrive, e scrive, e scrive alla gente, capisce? Scrive alla gente, alle persone che sono nel paese. E dice: ‘ma come, voi mi conoscete…’, lui non si sa esprimere. In quelle lettere dice: ‘voi mi conoscete, non posso esser questo, ma fate qualcosa’. E’ un grido di aiuto. Sono 220 gridi di aiuto, quelle lettere

Mario Vanni: Bravo.

Avv. Nino Filastò: Ecco cosa sono? Altro che minacce. Ma dove? Poi, in qualcuna, si sarà anche lasciato andare. Nei confronti di qualcuno, avrà detto… una… poi pensando potesse, potesse avere influito, ha avuto… ci sarà stato dei nemici, forse avrà pensato, che ce l’hanno con me, avrà scritto a qualcuno… perché tutte e 220 non l’ho mica lette, vero, intendiamoci bene. Ha pensato di qualcuno che dice: guarda quello, è lui che ha suggerito al Lotti di accusarmi. Che deve pensare un poveraccio con quella capacità intellettuale, che oramai gli abbiamo saputo riconoscere, se si trova dentro in quel modo, da otto mesi, accusato di essere il “mostro di Firenze”? Ma che deve fare? E nessuno lo aiuta, e nessuno lo va a trovare. Se non apprezzate la realtà umana di Mario Vanni attraverso quelle 220 lettere di cui vi consiglio di fare una lettura rapida, sceglierle, fate una specie di, come dire, scelta a campione, come ho fatto io, una ogni dieci. Oppure scegliete quelle che vi indicherà nella replica il Pubblico Ministero. Se non serve questo, non so che dirvi. Quindi, le deformazioni del Pubblico Ministero sul Mario Vanni – e ho detto deformazioni – sono nelle lettere, sono nella bambina che nasce in seguito ai maltrattamenti – che nasce e muore in quel modo – in seguito ai maltrattamenti alla moglie; ma andando avanti il processo e, secondo me, rivelandosi la inconsistenza della prova a carico di Mario Vanni, queste deformazioni si accrescono. Udienza del 2 febbraio 1997, Tribunale della Libertà di Firenze. Si discute l’appello proposto da questo Pubblico Ministero contro la vostra ordinanza di arresti domiciliari. Sapete cosa ha avuto il coraggio di dire, devo dire così, eh, perché il Tribunale gli accogliesse l’appello? – No, io un voglio… non è per criticare, per carità, tanto lo stimo, ma per dire fino a che punto, tante volte l’empito, la deformazione e l’accusa può portare a delle cose… – che Mario Vanni è andato a finire in ospedale per incontrarsi con Pacciani. Tanto che nell’ordinanza di rigetto dell’appello, il Tribunale dice: “Né può essere motivo di sospetto o di preoccupazione quanto rilevato dal Pubblico Ministero, che ha evidenziato oralmente in udienza che il suddetto ricovero è avvenuto proprio nello stesso luogo ove fino a poche ore prima era stato ricoverato il Pacciani.” Capito? Allora: Pacciani simulatore, no? Si fa ricoverare all’ospedale Torregalli simulando chissà che malanno. Prova ne sia che è simulatore, perché dopo pochi giorni è morto. E Mario Vanni, il quale è cascato in terra tre volte, alla terza hanno chiamato il 118, anche lui va lì per incontrarsi con Pacciani. Per fare icché? Per dirsi cosa? Non so io, le indagini sono in corso, il mistero prosegue. “Pacciani è morto portandosi dietro i misteri”, titolava un giornale qualche tempo fa. Che prosa insopportabile! Per dirsi che? Ma voglio dire, lasciamo perdere la irrealtà del fatto, ma cosa si costruisce buttando là delle ipotesi di questo genere? Dove si vuole arrivare? Ma non è mica finito? Quando il Pubblico Ministero ha fatto la requisitoria orale, io, a un certo punto – mi perdonerà – a furia di sentir dire le stesse cose mi sono un po’, come dire, allontanato con la testa, mi sono messo a pensare alle cose che dovevo dire io, ai problemi di Mario Vanni e tutto il resto, e questa cosa non l’avevo sentita dire, sennò sarei scattato su, sarebbe successo un pandemonio, lo dico subito. Mi ero ripromesso che non avrei mai interrotto, ma in questa occasione, se l’avessi sentito, ma porca miseria se lo interrompevo! Ma anche per evitargli… Il provvedimento del Tribunale della Libertà, Presidente, è qui, ma dovreste averlo, immagino. A parte, lo avrete sicuramente, quindi, per la citazione… Il testo è sempre lì. Pagina 19, udienza del 23 febbraio ’98, requisitoria del Pubblico Ministero: _ “E sicuramente il Nesi vi ha detto qualcosa che oggi, a mio parere, non solo è utile ma utilissimo per capirlo.” Capire che? Vanni, si sta parlando di Vanni. “Utilissimo per capirlo”. Diceva Nesi: ‘guardate, andava da una prostituta in via Fiume che, diceva lui, era gentile ed educata, si trovava bene; poi è stata trovata morta ammazzata con un coltello’, una circostanza che, ovviamente, è un dato storico.” Che deve dire il difensore qui? Ditemi che deve dire. Non può far altro che indignarsi. Si sta parlando ai Giudici di un processo grave in quel modo. Si suggestionano con la moglie buttata dalle scale. Poi non basta, c’è la prostituta ammazzata col coltello. Mah, io dico, non lo so, dico, va bene? E regolare? Si può fare? Fino a poco tempo fa, perché poi capite, questa storia della prostituta ammazzata col coltello, che interviene qui in quest’ultimissima fase della requisitoria del Pubblico Ministero – sì, certo, il Nesi ha parlato di una prostituta che lui vedeva che è morta ammazzata, sì, si capisce; poi si parlerà anche di questo, di tutto il complesso – arriva nel momento in cui è crollata un’altra suggestione, crollata miseramente, l’ha fatta crollare il figlio. Anche qui nessuno ha mai detto: eh, Vanni, te e Pacciani vi se. . . Vanni lei, per caso, ha mica impiccato il signor Malatesta?

Mario Vanni: No davvero.

Avv. Nino Filastò: No davvero, eh, Vanni? Ha ammazzato una prostituta col coltello lei, Vanni?

Mario Vanni: No.

Avv. Nino Filastò: No?

Mario Vanni: Mai.

Avv. Nino Filastò: Mai.

Mario Vanni: (voce non udibile)

Avv. Nino Filastò: Nessuno dice: guardate che secondo noi il signor Pacciani e il signor Mario Vanni si sono messi insieme e hanno strangolato, impiccandolo a un trave, il signor Malatesta, come diamine si chiamava di nome. No, si lascia immaginare, si fa venire un testimone, dice: ‘ma come l’è morto il su’ babbo?’, ‘impiccato’, ‘ah, sì? Però loro ci litigavano’, ‘ma sì, mi pare, ho sentito’. ‘Il Pacciani gli diceva…?’, ‘Mah, forse, l’ha anche picchiato…’. Ragazzo di dodici anni, fra l’altro, che all’epoca aveva dodici anni. Poi, a un certo punto questo ragazzo dice – Luciano Malatesta si chiama li ragazzo – dice… come? Luciano Malatesta, dice: “Il babbo era depresso, moltissimo, aveva manifestato varie volte l’intenzione di uccidersi. Una volta l’ho tirato giù io dal trave con la corda che si stava per impiccare. Non ve l’ho mai raccontato prima, lo racconto ora.” Allora, capito, tutta questa atmosfera, questa congiura, questa cabala che riguarda Mario Vanni e il Malatesta impiccato, eh, non se ne può più parlare perché il figliolo ha saputo che il padre voleva uccidersi. Addirittura l’ha tirato giù una volta lui. E allora, ah, arriva la prostituta ammazzata con una coltellata. Ma quante sono, signor Pubblico Ministero, le prostitute ammazzate a coltellate a Firenze in questi anni? Di cui non si è saputo un accidente di niente, né chi è stato, né perché, né percome. Tanto che, o ce n’è due di serial-killers in giro, o ce n’era due a quell’epoca, o ce n’è uno solo. La Rescignito, la Miriam Escobar, quell’altra ragazzina ammazzata…

P.M.: (voce non udibile)

Avv. Nino Filastò: No, no, ho sbagliato nome.

P.M.: Comunque io ho sbagliato via Orsini con via Fiume. No, così si leva il dente. Lei ha sbagliato la Rescignito. Io ho citato via Fiume, ma era via Orsini.

Avv. Nino Filastò: Ma io non sto mica dicendo che lei ha sbagliato a citare la via, sa.

P.M.: Ah.

Avv. Nino Filastò: Io sto dicendo che lei ha sbagliato enormemente a citare la circostanza, eh. Perché o lei fa un processo a Mario Vanni per l’assassinio di una prostituta, oppure porta un minimo di indizio in questo senso qua. Oppure lei non ne parla di questo fatto a dei Giudici.

P.M.: Ne ha parlato un teste.

Avv. Nino Filastò: No, ne ha parlato lei.

P.M.: Ne ha parlato un teste.

Avv. Nino Filastò: Eccolo qui, ne ha parlato lei. Glielo rileggo.

P.M.: Ho riportato le parole del teste Nesi.

Avv. Nino Filastò: No, ne ha parlato lei. Ha detto lei che è utile, è utilissimo per valutare la persona. L’ha detto lei, non Nesi. “E sicuramente il Nesi ci ha detto qualcosa che oggi, a mio parere, non solo è utile ma è utilissimo, per capire Mario Vanni.” L’ha detto lei questo. Che poi abbia sbagliato tra via Fiume e via Orsini che me ne importa a me. E siccome me ne sono accorto tardi di questa cosa, i nomi delle prostitute uccise a Firenze io non me li sono trovati ieri. Ho fatto una ricerca, un po’ affannosa, in un archivio di giornale e non me li son trovati. Ma ce n’è tante, e di coltello. Di qua, di là, quella, per esempio, trovata con tutti i soldi, che nessuno gli ha toccato; milioni, in contanti. Quell’altra al Salviatino, che era una piccola prostituta di stazione. Accusato un certo Pasquale Soda. Difeso da me, come parte civile, feci la parte civile io a quell’epoca… in quel processo, ero parte civile. Venne il marito di questa ragazza da me a chiedermi di fare la parte civile nei confronti di questo Pasquale Soda. Lessi gli atti, vidi che non ci stava, feci una memoria difensiva io. E venne prosciolto in istruttoria. Beh, ultimo materiale per voi, utile, questo sì -non questi siluri, queste specie di mine vaganti che vengono fatte galleggiare in questo processo, per carpire la suggestione dei Giudici, per renderli meno sereni, meno obiettivi, meno tranquilli – leggetevi la deregistrazione, non la sintesi, il verbale riassuntivo, ma la deregistrazione dell’interrogatorio di Vanni Mario del 21 ottobre ’96, dove l’interrogante, in massima parte, è il dottor Pier Luigi Vigna. Esordisce Mario Vanni, poi però degli interrogatori di Vanni ne parleremo, sulle ammissioni di Vanni c’è un capitolo di questa mia discussione, che riguarderà le ammissioni di Vanni. Le ammissioni, parleremo anche di quelle; vedendo anche, anche lì, incontrando un episodio sgradevolissimo, molto grave secondo me, al punto… e voi però, a questo punto, quando ve ne parlerò vi ricorderete di oggi che vi ho parlato di queste amplificazioni, di queste esagerazioni, di queste suggestioni che vi vengono propinate. E invece quest’interrogatorio è un interrogatorio fatto dal dottor Vigna, con quel modo che lui ha di interrogare, che sì, cerca di anche tirar fuori la verità a una persona in tutti i modi, vero – non è che… è un Magistrato, della levatura che sappiamo – ma con una certa buona dose di umanità anche, tanto che il povero Mario, che fino a quel giorno la musica aveva era stato tutta di un altro tono, a un certo punto sbotta e dice: ‘io con lei ci parlo bene, sa’. E Vigna dice: ‘mi fa piacere’. Ecco qua: “Che devo rispondere” – comincia – “ho fatto queste merende con il Pacciani e basta. Che io qui, là, io sotto, ma la DIGOS un ha trovato nulla, anzi, l’ha fatto veni’ male alla mi’ moglie che andava in terra e gl’è toccato andare a chiamare il professore.” Dice Vanni. Dice, poi: “Passeggiate con Lotti e Pucci, eh?” “Sì, sono andati loro e hanno detto o qui o là… poi non sono mai stato a Vicchio del Mugello, venne”, si rammenta del Rontini e la moglie. “Io gliene elencai, gli dissi la verità, che io non c’ero mai stato a Vicchio, c’ha tre case il mio nipote, nel Mugello, ma io a Vicchio del Mugello non ci sono mai stato, ecco.” A questo punto, però, siccome parlando del Mugello il Vanni si è espresso in un certo modo, il dottor Vigna gli chiede: “Allora, lei ha detto che questo Paolo c’ha delle case in Mugello.” “Sì, al Mugello.” Dice Mario Vanni. E il dottor Vigna chiede: “Che cos’è il Mugello?” E Mario Vanni risponde: “Che c’è al Mugello? Gl’è un paesino.” La conoscenza di questa persona di questi luoghi è a questo livello. Lui ritiene che il Mugello non sia una località, una regione, una mezza regione, uno spicchio di regione, come tutti noi sappiamo, ma un paesino. A un certo punto il dottor Canessa gli chiede: “Chi è questo avvocato di San Casciano?” E Vanni Mario risponde: “Gl’è il Corsi Alberto. Lo conosce?” Per dire fino a che punto la presenza, la consapevolezza di Mario Vanni nella vicenda processuale che lo riguarda. Siccome gli chiede del Corsi Alberto, lui crede che il Pubblico Ministero gli faccia una domanda per sapere così, delle informazioni su Corsi Alberto, uno chiede: sua cugina come sta? Lo zio? Ecco. “Lo conosce?”, dice il povero Mario Vanni. Su Pacciani. Dice: “Io sono arrivato fino a Pacciani laggiù. Fin da Pacciani arrivai a Mercatale. Sì, mi toccava portagli la posta, in casa non potevo andare, mi mise la cassetta, perché la moglie l’era gelosa. L’era la più brutta del mondo.” Dice il Mario Vanni. Poi gli chiedono perché ha smesso di fare il postino. “Smisi perché mi girava il capo, non stavo più in Vespa, non ce la facevo più.” Nel 1987, vero, a distanza di due anni dall’omicidio degli Scopeti, lui non ce la fa più a stare in Vespa, gli gira la testa, smette anzitempo. Poi siccome parla che è andato all’Unità, alla Festa dell’Unità, alla festa dei democristiani, Vanni Mario precisa: “Io sono fascista, eh. Senta, io son fascista.” “Abbiamo capito.” Dice il… “Cristiano e fascista. La guardi, questo glielo dico.” “Ci credo.” “Credo…”, eccetera. E così via. Poi, a un certo punto, poveruomo, sentite, eh. Domande su domande su questa lettera. Voglion tutti sapere che c’era scritto in questa lettera. E lui un po’ un se lo ricorda, un po ‘ un lo sa dire, ne parleremo a parte. Però, a un certo punto, ma pensate, no, voglio dire, questo è indicativo, perché chi ha esperienza come l’ho io, come l’hanno certamente i Giudici togati, del personaggio callido che si nasconde ed ha qualche cosa da nascondere, che ha paura della Giustizia, perché ha evidentemente qualche cosa che gli rimorde dentro e teme, ha paura di degli inquirenti, della persona che lo sta interrogando, perché? Perché lo sa lui perché. Perché lui ha fatto tutte queste cose pessime, quindi è in una posizione evidentemente guardinga. E lo stanno interrogando allo spasimo su questa lettera. Vogliono sapere che c’ha scritto. “Però a noi ci ha sempre…” Dice il dottor Vigna: “Lei ci ha sempre molto colpito questa sua paura, questa lettera che arriva e dove lei non ci ha mai voluto dire che cosa c’era scritto.” E il Vanni dice: “O non gliel’ho detto?” “No, Vanni, non ce l’ha mai detto.” E allora Vanni boccheggia un po’ e dice: “C’era scritto delle cene, di quella cosa, di quell’altra, allora?” E Vigna dice: “O Vanni…” E Vanni: “Lo metta lei” – pagina 42 – “lo metta lei icché c’era scritto.” E il dottor Vigna dice: “No, io non posso.” Va be’, ne dovremo riparlare perché, insomma, è l’oggetto del processo, Vanni Mario. Ve l’affido, v’affido la persona; perché poi ora parleremo delle, diciamo, delle prove a carico, tanto per intendersi, per modo di dire, insomma, niente prove. Ma vi si è già affidato lui, eh, come persona l’ha già fatto lui. Non è un simulatore, non è uno che finge, non è uno che quando si trova di fronte alla Giustizia inventa storie. Attenzione, quel processo, quel vecchio processo, quello che ha fatto cadere miseramente la caduta della moglie dalle scale -scusate questo orribile bisticcio, non lo fo più – vi dice questo, che lui quando gli viene contestato, dice: ‘si, sì, effettivamente è vero, l’ho percossa, sì, un ce la voglio a casa, sì’. Quando lo interroga il dottor Vigna: ‘che c’è nella lettera?’, ‘Ma lo metta lei, icché la vole’. Periti, periti, periti. Dopo la caduta, il sentirsi male e tutto il resto, è andato a finire all’ospedale. Ma, Presidente, fosse stato uno che aveva in mente la sua posizione, si fosse voluto difendere allo spasimo, avesse voluto in gualche modo imbrogliarvi da questo punto di vista qui, mah, insomma, voglio dire, a un certo punto arrivavano i periti, lui sta zitto, continua a balbettare come balbettava il giorno prima e è bell’e finito, vero. Per lo meno per ora il processo è finito per lui, eh. Perché un c’era versi. Per come stava quando l’ho visto io il primo giorno, Presidente, il processo un si poteva più fare a Mario Vanni, non c’era versi, vero. Lasciamo da parte che io non condivido le conclusioni dei periti sul punto e non le condividono i consulenti tecnici, ma sa, però, insomma, ora parla, ora alla televisione ha fatto un’intervistina, ha detto anche delle cose: ‘Ah… eh… boh… buh… accidenti…’ e poi si arrabbiava. Invece, invece, invece ai periti lui: “ora sto bene, ah, ah, ora ho ripreso, ora parlo”. E’ un personaggio così Mario Vanni, è per questo che son contento di difenderlo, è per questo che a lungo andare provo anche un certo affetto per lui. Se vi spogliate dal preconcetto, dall’idea del coltellaccio e dell’uomo che taglia, lo capite anche voi che è così lui, che la verità è questa. Che poi i preconcetti quando finiscono nelle sentenze si sentono, si avvertono; i contorcimenti, le cose, i tentativi di motivare. E qui questa sentenza di condanna a Mario Vanni è una sentenza di condanna, che se dovesse intervenire, questo difensore smette di fare l’avvocato, ma ne parlerà il mondo come esempio di Giustizia deficitaria, disattenta, assurda.

Presidente: Scusi, avvocato, che cosa sono queste espressioni? Vuole essere un’intimidazione alla Corte, per caso?

Avv. Nino Filastò: No, per carità!

Presidente: Allora, usiamo altri termini…

P.M.: Presidente, lo sono.

Presidente: Questo non lo deve dire.

Avv. Nino Filastò: No, Presidente, le spiego subito…

Presidente: No perché…

Avv. Nino Filastò: Ho captato… ha ragione lei e mi scuso.

Presidente: Bene.

Avv. Nino Filastò: Ha ragione lei e mi scuso. Ma ho captato…

P.M.: No, è tutta la mattina che sono… più di una minaccia. 

Avv. Nino Filastò: Minaccia?

P.M.: Non lo so!

Avv. Nino Filastò: Ah, lei parla di minaccia a me?

P.M.: Scusi, dice…

Avv. Nino Filastò: E io non minaccio mica…

P.M.: (voce non udibile)

Avv. Nino Filastò: Sa cosa posso minacciare io?

Presidente: Pubblico Ministero, Pubblico Ministero.

Avv. Nino Filastò: Io posso minacciare di scrivere. Questo posso fare io, non di far processi a nessuno. Le mie minacce sono diverse. Al massimo posso essere minacce di uno che sa tenere la penna in mano, va bene, che è pubblicato in tre lingue, va bene? E che se, a un certo punto, una cosa gli sta sullo stomaco, può anche mettersi li e raccontarla in giro. Con tutti i perché e i percome. E queste sono le mie minacce, se lei vuol saper delle minacce. Io non dico: attenzione, la responsabilità, questo sta dicendo, sta facendo delle illazioni, attenzione, perché qualcuno può essere anche chiamato ad esser ritenuto responsabile, perché dice… perché io non ho strumenti, da questo punto di vista. Lei sì, io no. Quindi non è un’intimidazione, Presidente. Ho captato un colloquio muto fra due Giudici popolari, mi è sembrato che fossero in disaccordo con me, in un certo quadro che facevo di questa persona. E ho detto: attenzione a non sbagliare, perché secondo me, secondo il mio parere, una sentenza di condanna – e lo ripeto pari pari, come ho detto prima, perché prima non ho detto altro, è registrato, c’è scritto – una sentenza di condanna di Mario è una sentenza da far parlare il mondo. E lo ridico. Sarebbe per forza, perché per forza, per forza, ci sarebbe da motivare un sacco di situazioni: il Lotti, il Pucci, che parlano in un certo modo, in un certo momento e poi in un altro, quello che hanno detto qui al dibattimento, come intervengono nel processo, come interviene l’ipotesi. Ora poi lo vedremo insieme, dipaneremo tutta questa materia via via. Un sacco di cose. E tutte, e tutte che ci congiungono e che indicano un coacervo di sospetti, di situazioni assurde, di deforinazioni, come quelle che io vi ho indicato poco fa: la moglie buttata dalle scale, la prostituta uccisa a coltellate, la simulazione di un ictus e di un ricovero in ospedale per andare a parlare col complice. Ve le ho indicate queste cose, eh. È certo che, come dice sempre il poeta Berthold Brecht: “Anche la collera per l’ingiustizia fa roca la voce.” E la mia voce tanto diventa roca, nonostante tutti gli sforzi che faccio per evitarlo, perché sono troppo impulsivo e di questo, se qualcuno se n’è avuto a male di quello che ho detto, ho detto che mi scuso. Dell’impulsività, ma non del contenuto. Presidente, se non le dispiace, io smetterei.

Presidente: Allora si sospende. Si va a domani mattina alle ore 09.00.

P.M.: Bene. Grazie, Presidente.

Presidente: Prego. Allora, il processo è rinviato a domani mattina alle ore 09.00, con nuova traduzione del Vanni. L’avvocato Mazzeo e Filastò producono sentenza 06/10/64, Tribunale di Firenze, a carico di Vanni Mario.

P.M.: Se serve, Presidente, da parte del P.M. nessuna opposizione. Ne avevo già dato atto io, durante il corso del dibattimento, perché dal certificato penale di Vanni…

Presidente: Vanni è incensurato.

P.M.: Io l’avevo detto durante il corso del dibattimento che la cosa era pacifica. Meglio ancora la sentenza, perché ora qui sappiamo che è per insufficienza di prova, eh, per quel che può servire.

Presidente: L’udienza è tolta.

5 Marzo 1998 64° udienza processo Compagni di Merende

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