E l’esperto di serial killer giurò sull’innocenza di Pacciani
FIRENZE – «Mi chiamo Francesco Bruno e sono nato il 10 maggio 1948 a Celigo, provincia di Cosenza. Risiedo a Roma. La mia professione è di psichiatra criminologo. Sono professore associato di Psicopatologia Forense all’ Università di Roma la Sapienza». Era il 15 luglio 1994 quando il professor Francesco Bruno fece il suo ingresso nell’ aula bunker di Firenze nella quale era in corso il processo contro Pietro Pacciani, il vecchio contadino di Mercatale Val di Pesa sospettato di essere il «mostro di Firenze» e accusato degli otto duplici omicidi compiuti fra il 1968 e il 1985. Il professor Bruno fu ascoltato come consulente della difesa ed esperto di serial killer. Spiegò che si interessava del mistero del mostro sin dal 1985. Volle sottolineare – e la cosa suscitò un pizzico di perplessità fra i presenti – di aver collaborato fino al 1987 con il Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica (e cioè con il Sisde) e poi di essere stato consulente della Polizia di Stato. Dopo le presentazioni, Francesco Bruno spiegò con la consueta chiarezza – quella che in seguito ha fatto di lui uno dei criminologi più intervistati d’ Italia – che i delitti del mostro erano opera di un «serial killer organizzato, capace di prevedere e di pianificare molto bene la sua azione criminale». E certamente Pietro Pacciani, che mostrava piangendo ai giudici l’ immagine di Gesù e gridava: «Bruci all’ inferno il vero mostro», non aveva niente del «soggetto organizzato». Il primo novembre 1994 tuttavia Pacciani fu condannato. Il professor Bruno continuò a battersi per la sua innocenza e da allora egli stesso è divenuto parte, in un certo senso, di uno degli enigmi che continuano a costellare la vicenda del mostro di Firenze. Al processo di appello, dal quale sarebbe uscito assolto, Pacciani arrivò supportato da un formidabile pool difensivo, costituito, oltre che dai due avvocati «storici» di Firenze, Rosario Bevacqua e Pietro Fioravanti, dall’ avvocato Nino Marazzita, dal professor Francesco Bruno e dal criminologo Carmelo Lavorino, che alla vigilia del dibattimento dichiarò che il «gruppo di lavoro» della difesa era costituito da una ventina di persone. Ora, è ben vero che un processo come quello produce fama e gloria, ma un battaglione di tale portata di avvocati, consulenti e investigatori ha un costo notevole. Il povero Pacciani forse non era tanto povero. Fra l’ 81 e l’ 87, negli anni dei delitti, acquistò due piccole case e depositò circa 160 milioni in buoni postali. Da dove provenga quel denaro (che secondo un legale corrisponde a circa 900 milioni di oggi) è ancora un enigma. L’ ipotesi della polizia è che sia stato il compenso per i delitti e le mutilazioni. Una cosa è comunque certa. Per la sua difesa Pacciani, attentissimo alle spese, non ha tirato mai fuori una lira. E dunque chi sopportava i costi dell’ agguerrito pool difensivo? Che – è doveroso sottolinearlo – non ha mai cessato di sostenere Pacciani, fino alla sua orrida e strana morte (22 febbraio ’98) che gli inquirenti sospettano possa essere stata indotta da farmaci inadatti a chi, come lui, soffriva di diabete e di disfunzioni cardiache e continuava ad adorare il vino rosso. Prima del processo d’ appello il professor Bruno aveva annunciato che in caso di condanna di Pacciani avrebbe smesso «per protesta di insegnare in università queste materie». Così come dell’ innocenza di Pacciani, era altrettanto certo della fallacia della pista «delitto di gruppo», della banda dei «compagni di merende». «Quelli del mostro non possono essere delitti di gruppo», sostenne: «Spero che non ci si incaponisca su questa strada, che è assolutamente cieca e non porta da nessuna parte». Quella strada ha portato oggi all’ ipotesi della setta dei mandanti e del movente esoterico. Scenari inesplorati sui quali un’ analisi del professor Bruno potrebbe rivelarsi preziosa.
FRANCA SELVATICI