La maledizione del Mostro di Firenze
lunedì 7 marzo 2011
E’ di qualche giorno fa la notizia della tragica morte, anch’essa in circostanze misteriose, di Ugo Baiocco, il pescatore che nell’ottobre del 1985 trovò nel lago Trasimeno il cadavere di Francesco Narducci, l’insospettabile medico umbro ritenuto il vero “mostro di Firenze”.
E’ morto a 74 anni cadendo dalla barca. Anche lui annegato, come nel 2001 era accaduto, nelle stesse acque, al suo inseparabile cognato, Arnaldo Budelli.
Ugo Baiocco, ex presidente di una cooperativa di pescatori, conosceva quelle acque del lago Trasimeno perfettamente, come le sue tasche. Il 13 ottobre del 1985, insieme al marito di sua sorella, Arnaldo Budelli, furono loro a scoprire, tra le sette e le 7 e le 8 del mattino, il corpo di un uomo che fu attribuito al dott. Francesco Narducci, scomparso in circostanze misteriose a 35 anni, nel pomeriggio dell’ 8 ottobre 1985. L’uomo che aveva fatto perdere le sue tracce era un affermato ginecologo perugino, primario dell’ospedale di Foligno, diventato nel 1984 il più giovane docente associato d’Italia, assegnato alla cattedra di Fisiopatologia Digestiva dell’Università di Perugia, ed in seguito, anni dopo, ritenuto il vero “mostro di Firenze”.
Anche l’inchiesta relativa alla morte di Ugo Baiocco, la cui barca si sarebbe ribaltata intorno alle 11,50 del 3 marzo scorso, è stata affidata al pm Giuliano Mignini, che ha già coordinato l’inchiesta su Narducci e sul caso della studentessa inglese Meredith Kercher. Mignini, proprio per l’inchiesta sul caso del gastroenterologo, il 22 gennaio 2010, è stato clamorosamente condannato ad un anno e quattro mesi di reclusione dalla procura di Firenze che lo ha accusato di “associazione a delinquere finalizzata al depistaggio”, insieme al poliziotto-scrittore Michele Giutteri, accusato anch’egli di aver esercitato indagini illecite e pressioni indebite su alcuni indagati nell’inchiesta sul medico scomparso. Naturalmente il pm beneficia della sospensione condizionale.
Stupisce la circostanza della morte a seguito di un incidente banale, quale quello occorso a Baiocco, un uomo esperto delle acque del lago Trasimeno, che messa in confronto con altre morti di personaggi collegati tutti al ritrovamento del cadavere di Narducci nel 1985, fa sorgere qualche dubbio e qualche sospetto all’italiana, arrivando a lambire il vero e proprio complotto pynchoniano. Ovviamente, solo per i “malpensanti”.
Dr. Narducci I presume?
“Non sembrava Narducci, non sembrava nemmeno un uomo bianco. Aveva labbra tumefatte, molto grosse, la pelle scurissima. Aveva una camicia e, attorno al collo, una cravatta allacciata molto stretta, tanto che pensai che il colore scuro dipendesse dalla strozzatura della cravatta”, dichiarò il maresciallo Bricca dei carabinieri, accorso sul posto, la mattina del 13 ottobre 1985. Anche Baiocco – era stato lui a chiamare le forze dell’ordine – rimase stupito dall’insolito dispiegamento di autorità intorno al cadavere portato su un pontile del lago. Oltre a polizia e carabinieri, erano presenti infatti il questore di Perugia, Francesco Trio ed altre personalità, il giudice della Corte d’Appello, dottor Arioti; il sostituto procuratore della repubblica, Federico Centrone; il procuratore, Nicola Restivo; il capo del nucleo radiomobile operativo dei carabinieri, capitano Roberto Fioravanti; il suo stesso comandante Francesco Di Carlo. Della famiglia Narducci era presente Pierluca e due colleghi del fratello, il dottor Antonio Morelli ed il gastroenterologo Ferruccio Farroni.
Un dispiegamento di forze insolito anche nelle dichiarazioni rese ai magistrati dal maresciallo dei carabinieri Lorenzo Bruni. Anomalo rispetto al ritrovamento di un annegato in un lago dove mediamente muoiono tre o quattro persone all’anno per le stesse cause.
Baiocco, allontanato subito dopo che la pilotina ebbe riportato sul pontile il morto, dichiarò in seguito il suo stupore per il colore del cadavere e per la posizione che aveva nell’acqua. Il corpo era in posizione supina e con le braccia alte, come crocifisso. Avendo fatto il bagnino per molti anni ed avendo visto diversi morti annegati, Baiocco sapeva bene che l’acqua rallenta il processo di putrefazione anzichè accelerarlo e che, anche dopo diversi giorni, la pelle si saponifica e diventa più bianca. Non scura.
Se quello era davvero il corpo del medico, stupisce poi che nella testimonianza della moglie di Narducci, Francesca Spagnoli, il medico, che era tornato improvvisamente a casa ad ora di pranzo il giorno in cui scomparve, interrompendo le lezioni e gli esami previsti per tutta la giornata all’università di Perugia dopo aver ricevuto una misteriosa telefonata, in seguito alla quale sarebbe apparso allarmato agli occhi dei suoi colleghi di facoltà, quando uscì, dopo aver telefonato al proprietario della darsena di San Feliciano sul Trasimeno, dove la famiglia aveva una villa, indossava i suoi jeans Burberrys ed una maglietta blu. Non una camicia né, tantomeno, una cravatta.
Le ricerche condotte da subito nel lago avevano portato al rinvenimento della imbarcazione di Narducci nel canneto del lato sud ovest dell’isola Polvese, vicino al Castello, con ancora le chiavi inserite, il cambio in folle, un paio di occhiali sul cruscotto, un pacchetto di sigarette ed un giacchetto di renna. Ma anche il cadavere visto da Baiocco e Budelli aveva un giubbotto, esattamente un giacchetto di renna “marrone in due tonalità, una più scura e una con due riquadri, uno a destra e uno a sinistra, chiuso davanti, ma l’enorme ventre premeva sull’indumento”, come dichiarò anche una testimone, Francesca Raspati.
I rilievi sul corpo ritrovato nel lago durarono appena una ventina di minuti. Il maresciallo Bruni dichiarò, in seguito, che il corpo dell’annegato “…era gonfio, con macchie. Mi dissero che era stato ripescato dentro un tofo, una rete dei pescatori. Indossava un paio di jeans tirati giù fino alla metà e una maglia scura, una specie di tuta con cerniera, e un giubbotto scuro di pelle, sembrava un sommozzatore, erano nere anche le scarpe.(…) Era stempiato ma dei capelli ricci parevano formare un semicerchio sulla testa. Dalle fattezze e dalla forma sembrava un negroide”. Il maresciallo notò anche l’orologio di metallo al polso. Miracolosamente però, dalla tasca del corpo, che era stato diversi giorni nell’acqua, spuntò fuori la patente del dott. Narducci, completamente asciutta, nonostante il fatto che non fosse plastificata, con persino tutti i bolli degli anni passati ancora attaccati.
Il corpo, secondo il brigadiere Aurelio Piga, presente sul posto, presentava “vistosi ematomi sul petto, sulla zona mammaria e sulla parte sinistra del costato“. Ma non vennero fatte foto, non fu chiamato il medico legale di turno e non fu effettuata l’autopsia.
Il medico legale di turno quella mattina, la dottoressa Francesca Barone dell’istituto di medicina legale dell’università di Perugia, non venne nemmeno avvertita, venne convocata invece la dottoressa Daniela Seppoloni, dell’ospedale di Castiglione del Lago. La Seppoloni dichiarerà poi ai magistrati di aver subito pressioni per non portare il corpo alla camera mortuaria, e di essere stata costretta da un uomo in “uniforme con gradi sulle spalle” di eseguire subito l’accertamento della morte, “…ricordai a me stessa che dovevo accertare solo la morte e non le cause della morte. Di sicuro il verbale di riconoscimento del cadavere, dove c’era scritto che Narducci era morto da 110 ore, non fu opera mia ma venne redatto materialmente nel locale della cooperativa…” di pescatori “Alba”.
Quando nel 2002 la Procura di Perugia fece riesumare il corpo di Narducci, il cadavere risultò essere “corificato” ed in buono stato di conservazione. Soprendentemente risultò indossare abiti diversi da quelli utilizzati e descritti dai suoi parenti all’atto della composizione della salma quali, pantaloni blu chiusi, non elasticizzati, taglia 48 small, incompatibili con le dimensioni e lo stato del corpo ripescato nel lago. Aveva inoltre capelli folti castano chiaro, unghie e peli integri al loro posto. Lo stato di perfetta conservazione del corpo, e l’assenza di microrganismi tipici delle acque lacustri, portò a non poter accertare la causa di morte per annegamento dopo la riesumazione.
Francesco Narducci era membro di una famiglia potente e molto in vista a Perugia, suo padre Ugo era membro della loggia massonica Bellucci, e per nascondere lo scandalo di un coinvolgimento del figlio nei delitti attribuiti al “mostro di Firenze”, vi sarebbe stato uno scontro all’interno della massoneria toscana, come rivelato in un articolo del Corriere della Sera l’8 febbraio 2004. In quell’articolo, un autorevole membro della massoneria rivelò che “…il padre del dottore e quello della moglie erano entrambi iscritti alla loggia Bellucci. Ci fu una riunione straordinaria su questo caso… Furono fatte indagini e alla fine si accertò che Narducci era purtroppo coinvolto nei delitti del mostro. L’ ordine fu quello di mantenere la segretezza sulla vicenda, ma una parte fu dissenziente, perché voleva far emergere la verità. Mi risulta che i massoni iscritti al Pri volevano fare chiarezza, mentre gli altri volevano coprire tutto. Alla fine fu questa la linea che prevalse”.
Altri dubbi sulle cause della morte di Narducci sono stati suffragati anche dalla testimonianza di un pescatore, Enzo Ticchioni, il quale riferì delle confidenze fattegli da un poliziotto durante le ricerche del medico. Parlando del più e del meno, l’uomo gli riferì di un inseguimento infruttuoso fatto al dottor Narducci qualche giorno prima della scomparsa, dalle parti di Cortona. “Quello prima o poi lo acchiappiamo”, disse il poliziotto a Ticchioni, che dichiarò ”…mi disse che stavano pedinando da tempo il medico, perchè avevano trovato dei resti umani femminili dentro al frigorifero di una sua abitazione a Firenze”. In seguito, durante il processo, in fase di incidente probatorio, Ticchioni, già malato gravemente di tumore, riferì di non ricordare quelle dichiarazioni. Il poliziotto era Emanuele Petri, ucciso in un conflitto a fuoco con le cosiddette Nuove Brigate Rosse nel 2003, durante una normale operazione di controllo dei documenti su un treno sul tratto Roma-Firenze, nei pressi della stazione di Castiglion Fiorentino.
Se le dichiarazioni di Ticchioni fossero vere significherebbe che Narducci sarebbe stato quindi oggetto di una indagine “coperta”, che aveva portato ad individuarlo come possibile responsabile delle morti attribuite al “mostro di Firenze”. Molti anni prima dell’apertura dell’inchiesta.
Nel 1985 per stanare il “serial killer” sarebbe stata infatti creata una squadra speciale, creata dal direttore del Sisde, Vincenzo Parisi. Seguendo i simboli ritrovati accanto ai cadaveri delle vittime (un tralcio di vite, una piramide tronca) ma anche le date e gli orari scelti per uccidere, gli investigatori arrivarono alla conclusione che facessero parte di un rituale preciso, in cui i pezzi anatomici delle vittime venissero asportati per celebrare delle messe nere, o rituali satanici, a cui partecipavano probabilmente influenti esponenti della società fiorentina. Il rapporto finale degli 007 non fu però mai consegnato agli inquirenti, che continuarono a cercare l’assassino con altri sistemi di investigazione, arrivando solo al primo livello, quello di Pacciani e dei “compagni di merende”. Quando l’inchiesta fu riaperta si scoprì inoltre che i fascicoli erano stati “alleggeriti“.
Elementi questi, materiali e fatti, sufficienti per scrivere ed alimentare altre elucubrazioni sulla natura reale del potere in Italia. Un paese dove sono esistiti e tuttora esistono poteri paralleli, trasversali, presenti fin nei corpi ed apparati dello stato, fuori dall’ordinamento costituzionale, che dimostrano la loro incommensurabile forza su inermi cittadini.
Una forza i cui vertici si situerebbero nei poteri occulti di una democrazia che non riesce proprio ad intraprendere la strada della trasparenza, del rispetto delle regole, preferendo celare i propri “mostri” nel segreto. Un paese nel quale è possibile anche arrivare a sospettare che l’esercizio del potere si attui proprio attraverso lo strumento del ricatto, della concussione, in un processo di selezione per gradi, attraverso la complicità e la condivisione di un segreto, proprio come avviene nelle organizzazioni mafiose. Un sistema da sè sufficiente anche solo ad indurre pezzi di apparato statale e del sistema dell’informazione a depistare e sviare chi cerca la verità, fino a distruggere con il fango chi si oppone a questo tipo di potere arcaico e delirante.