Nel lago, i misteri del medico

di Gabriele Martelloni

In un pomeriggio ottobrino mite e soleggiato, eccentricamente estivo, una Honda rossa spegne i motori dopo aver alzato nuvole di polvere sulla darsena di San Feliciano, versante orientale del Lago Trasimeno. Il centauro la parcheggia sotto un platano e si dirige verso il proprietario del porticciolo, che gli cede le chiavi di un motoscafo, anch’esso rosso, e gli consiglia di non allontanarsi troppo, perché il serbatoio è semivuoto. «Faccio solo un giretto» lo tranquillizza il giovane prima di salire sul suo Grifo Plaster da settanta cavalli, in rotta verso l’isola Polvese. Non farà più ritorno. È l’8 ottobre 1985, un mese esatto dall’ultimo omicidio del mostro di Firenze. Il centauro è in realtà gastroenterologo e docente universitario, ha trentacinque anni, porta un nome normalissimo, Francesco, e un cognome pesante, di una delle famiglie perugine più influenti: Narducci.

Il padre Ugo, affermato ginecologo e noto massone, è affiliato alla loggia Bellucci, come pure l’altro figlio Pierluca e il suocero di Francesco, Gianni Spagnoli. Lui no, non appartiene ad alcuna loggia, ma è forse parte di un’organizzazione ben più segreta: la “Setta della Rosa Rossa e della Croce d’Oro”, che a San Casciano Val di Pesa celebra riti satanici con i feticci delle vittime uccise e mutilate dal Mostro di Firenze. È il gruppo stesso, per i pm che indagano sui killer delle coppiette, ad armare l’assassino con la tristemente celebre calibro 22, dopo avergli commissionato i delitti. A detta di alcuni, tra cui lo storico Ferdinando Benedetti, anche lui massone, Narducci, all’interno dell’organizzazione, ricopre il ruolo di “custode dei feticci”. Il medico è anche un ottimo tiratore. È iscritto al poligono di Umbertide, dove si allena con una Beretta, calibro 22.
Alle sei di sera è già buio pesto ma del motoscafo di Francesco Narducci neanche l’ombra. Peppino Trovati, proprietario della darsena e custode della barca, inizia a preoccuparsi. Chiama Pierluca, il fratello minore di Francesco, poi esce a cercarlo. Quando attracca, sono quasi le otto. Telefona ai carabinieri di Castiglione del Lago. «Alle nove di sera eravamo tutti al circolo dei canottieri, – racconta Celestino Scarchini, pescatore di San Feliciano -, quando ci dissero che un medico del posto era partito con la barca e non aveva fatto ritorno. Ugo Mancinelli e Peppino Trovati uscirono subito in acqua per andare a cercarlo, insieme con altri pescatori del posto». Versione confermata dallo stesso Mancinelli: «Ho sentito le sirene d’allarme dopo cena, girava la voce che non si ritrovava il figlio del professor Narducci. Così sono andato alla darsena di Trovati, ho preso una barca insieme ad Alberto Ceccarelli, suocero di Pierluca Narducci, e mi sono diretto verso il Muciarone, nella parte nord-ovest dell’Isola Polvese».

Francesca Spagnoli, giovane moglie del medico scomparso, arriva alla darsena poco prima della mezzanotte, pazza di gelosia, convinta che il marito sia andato incontro a un’amante, anziché alla morte. Il motoscafo lo ritrova mezzora più tardi proprio Ugo Mancinelli, insieme con il suocero di Pierluca. È alla deriva, con il motore spento, il cambio in folle, senza alcun danneggiamento, abbandonato vicino al castello diroccato dell’Isola Polvese. A bordo non c’è nessuno. «Ho trovato la barca vuota in mezzo ai canneti, con la chiave ancora attaccata e un paio di occhiali da sole» ricorda Ugo Mancinelli, che a distanza di anni parla della vicenda con evidente fastidio. Sull’imbarcazione ci sono anche il portafoglio di Francesco e un pacchetto di Merit. Il suocero di Pierluca si avvicina a Ugo Narducci e gli sussurra: «Ho fatto tutto come se fosse stato mio figlio». Francesca Spagnoli origlia, ma non comprende. La notte cala come una scure fredda, portandosi dietro l’eco di quella frase enigmatica.

Il 13 ottobre, a cinque giorni dalla scomparsa di Narducci, un corpo riaffiora a duecento metri dalla riva di Sant’Arcangelo sul Trasimeno. Indossa il giacchetto di renna di Narducci, ha in tasca la sua patente, stranamente integra, nemmeno sgualcita dopo cinque giorni in acqua, e porta al polso un orologio a carica perfettamente funzionante, appartenente al medico disperso. È tumefatto, gonfio, calvo e in avanzato stato di decomposizione. Esclusi gli effetti personali, non ha nulla che ricordi Francesco Narducci. L’appuntato della motovedetta dei carabinieri di Castiglione del Lago prova a slacciare il giacchetto di renna del cadavere. «Non lo tocchi» gli intima Ugo Narducci. Sotto quel giacchetto c’è una camicia, non la Lacoste blu che indossa Francesco il pomeriggio della scomparsa. Due colleghi del medico, accorsi sul molo, riconoscono il corpo. Sono i dottori Morelli e Farroni. Nessuno chiama il medico legale. A certificare la morte per asfissia da annegamento è una giovane e inesperta dottoressa di turno: Donatella Seppoloni. Annegamento? Eppure Narducci è, a detta di tutti, un ottimo nuotatore. «Ma quelle sono lesioni» dice il maresciallo Aurelio Piga, notando ematomi sul petto del cadavere. Qualcuno gli dice di stare zitto. È il questore di Perugia, Francesco Trio, precipitatosi sul molo con un tempismo singolare, per alcuni addirittura sospetto. Donatella Seppoloni stila il referto, ma non è convinta. Dirà poi: «Cercai di oppormi, ma ero accerchiata». C’è anche chi nota fasce elastiche sui fianchi del cadavere. A cosa sono servite? L’ipotesi della procura di Perugia è che in corrispondenza di quelle fasce fossero stati posizionati pesi di piombo, poi sganciati da sommozzatori per far emergere il cadavere all’ora prestabilita. «L’unico fatto acclarato – dice Luca Cardinalini, giornalista e autore di un libro sul caso Narducci – è che il corpo ripescato non fosse quello del medico scomparso.

Un giornalista della Nazione riuscì a fotografarlo adagiato sul molo. Misurando il corpo in rapporto alle mattonelle, risulta più basso di otto centimetri». La riesumazione ordinata dal pm Giuliano Mignini nel giugno 2002 sembra confermarlo. Il cadavere nella bara è Francesco Narducci, ancora riconoscibile, con capelli e peli, senza lesioni, vestiti in perfetto stato di conservazione ma diversi da quelli scelti dalla moglie. Sui fianchi, uno strano asciugamano ricamato con spighe d’oro. L’autopsia, avvenuta solo diciassette anni dopo, dimostra che Narducci è stato strangolato. Il caso, nel 1985, è invece archiviato come suicidio.

Ma se il corpo ripescato non è quello nella bara, allora a chi appartiene? E se è vero, come sostiene la procura di Perugia, che ci sia stato una sostituzione di cadaveri, quando e soprattutto perché è avvenuto? E chi lo ha ordinato? Interrogati, cinque pescatori riferiscono che il corpo di Narducci è stato ritrovato, in realtà, il giorno dopo la scomparsa, legato mani e piedi. Incaprettato. Ucciso. Sarebbe poi stato portato alla darsena di Peppino Trovati, e la famiglia Narducci lo avrebbe nascosto nella villa di San Feliciano, in attesa di scambiarlo con quello riaffiorato vicino a Sant’Arcangelo. Per Peppino Trovati, però, l’argomento è tabù: «Se ne vada, non ho niente da dichiarare».
La mattina del 13 ottobre il carro funebre della ditta Moretti sta portando il corpo a Perugia, ma viene fermata e indirizzata verso la villa di San Feliciano, dove lo scarica in un garage. Una seconda agenzia funebre, la Passeri, si occupa della vestizione e del funerale. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la sostituzione del corpo sarebbe avvenuta proprio durante questo passaggio di consegne, per mano dei famigliari che volevano nascondere il fatto che Francesco fosse stato assassinato. Un omicidio che, secondo l’accusa che indaga sulla vicenda, ha a che fare con i delitti del Mostro di Firenze. «Fui io a parlare a Mignini delle due agenzie funebri – ricorda Luciano Dentini, ex addetto all’anagrafe di Magione, accusato di essere lo “sbianchettatore” che modificò la data della morte del medico sui registri comunali, posizione poi stralciata dal processo – a distanza di anni ebbi come un flash».

Marco Lorenzoni, direttore del periodico “Primapagina”, nel 1998, quattro anni prima che il caso Narducci fosse riaperto da Mignini, stava facendo un sevizio sulle morti nel Lago Trasimeno. Parlando con gente del luogo e poi verificando le informazioni, scoprì che non era stata fatta autopsia sul corpo trovato a Sant’Arcangelo, corpo che, a sentire i testimoni, non sembrava essere quello di Narducci. «Parlai con un giornalista della Rai di allora – racconta Lorenzoni -, s’informò sulla vicenda e poi mi disse di lasciare perdere, che quella roba era merda vera, del tipo che non vuoi calpestare; mi spiegò che il giornale non aveva le spalle abbastanza larghe, ne sarebbe stato sommerso».

Sommerso come il segreto che Francesco Narducci, misterioso mostro borghese, si è portato nella tomba.

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8 Marzo 2011 Stampa: zoo2000.it – Nel lago, i misteri del medico
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