Mostro di Firenze, intervista a Giuttari: «Eravamo a un passo dalla svolta, la procura di Firenze ci bloccò»
di Antioco Fois e Francesca Marruco
L’ultima battaglia sul Mostro di Firenze Michele Giuttari la combatterà come parte civile. In tribunale, negli ultimi frammenti processuali relativi al presunto depistaggio sulla morte e sul giallo del presunto ”doppio cadavere” di Francesco Narducci. L’ex capo del Gides, il Gruppo investigativo sui delitti seriali, al servizio delle Procure di Firenze e Perugia fino al 2007, ha chiesto l’ammissione come parte lesa nel capo d’imputazione che riguarda l’ex questore di Perugia Francesco Trio, l’avvocato Alfredo Brizioli, uno degli amici più stretti del medico morto nel lago Trasimeno, e il giornalista Mario Spezi, accusati di aver ostacolato l’attività della squadra antimostro.
Inchiesta defunta In tribunale a Perugia, di quell’assurda vicenda di sangue e mistero iniziata quarantacinque anni fa, quando quella Beretta 22 fece fuoco sulla prima delle otto coppie di amanti sorprese ad amoreggiare in auto, arriva ancora qualche eco. Ma le ultime briciole processuali per lo stesso superpoliziotto in pensione, diventato scrittore di successo, non saranno sufficienti a tracciare la strada fino alla verità. “L’inchiesta è defunta”, commenta Giuttari ricordando la guerra tra procure che avrebbe ulteriormente rallentato, fino a bloccare, le ultime indagini su una storia di per sé densa di intrighi e presunti ostacoli alle inchieste. Restano soprattutto i misteri, gli interrogativi insoluti e gli spunti di indagine in sospeso, che forse avrebbero contribuito a diradare la nebbia attorno al caso di cronaca nera più fosco e spaventoso della nostra storia recente.
Dottor Giuttari, che significato ha la sua costituzione di parte civile assieme ad altri ex componenti del Gides?
«Ha il significato di voler contribuire all’accertamento della verità in una vicenda a dir poco assurda, in cui i dipendenti, per avere fatto solo ed esclusivamente il loro dovere di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, evadendo doverosamente e per compiti istituzionali le deleghe del pubblico ministero, si sono ritrovati ingiustamente penalizzati e mortificati sia come persone sia come professionisti. Alla chiusura del Gides nel 2007, tra l’altro, nessuno fu restituito dal questore dell’epoca all’ufficio di provenienza, ma assegnati ad altri incarichi meno importanti».
Con la parte del processo sul caso Narducci rimasta in piedi a che risultati si può arrivare?
«Sul piano processuale penale a nessun risultato, almeno di rilievo, essendosi i capi d’imputazione già prescritti a eccezione di quelli riguardanti il Brizioli che a suo tempo ha rinunciato alla prescrizione. E a far maturare la prescrizione certamente hanno contribuito gli oltre due anni necessari al gup Micheli per redigere le mille pagine di una sentenza (che nel 2010 ha decretato che Narducci non è stato assassinato, ma si è suicidato, ndr) fortemente criticata dalla Cassazione».
Ad ora che speranza c’è di scoprire le relazioni che la Procura ha ipotizzato tra Narducci e i delitti seriali del Mostro?
«Nessuna speranza. L’indagine ormai ha perso i suoi ritmi, essendo stata bloccata di fatto dall’iniziativa della Procura di Firenze del 2006 con la contestazione a me e al pm di Perugia, Giuliano Mignini, del reato di concorso in abuso d’ufficio per una presunta “indagine parallela” svolta da Mignini rispetto a quella che in quel momento era in corso alla Procura di Genova nei confronti miei e di due miei collaboratori per la trascrizione di un colloquio intervenuto tra me e il pm Canessa. Se entrambi i procedimenti si sono risolti con un proscioglimento, l’indagine per abuso d’ufficio aveva tuttavia portato al sequestro presso il mio ufficio di tutti gli atti sul caso Narducci, con la conseguenza del blocco investigativo anche delle numerose deleghe in corso, rimaste inevase e che nessuno ha più sviluppato. Alla luce di tutto questo non ci potranno essere speranze per ulteriori progressi. L’inchiesta è defunta!».
C’è una perizia sul Mostro, commissionata dall’allora servizio segreto al criminologo Francesco Bruno, mai divulgata. Che fine ha fatto?
«In effetti sono stati due gli studi svolti su incarico dei servizi segreti dal prof. Bruno negli anni Ottanta per delineare il profilo dell’assassino. In essi il professionista aveva riferito tra l’altro di un significato religioso dei delitti. Di questi studi agli atti fiorentini non c’era traccia e ne siamo venuti a conoscenza durante le indagini svolte quando ricoprivo l’incarico di capo della Mobile. Li abbiamo trovati a seguito di perquisizioni e poi lo stesso Bruno ci ha fornito i chiarimenti del caso».
Dove trovaste gli «identikit» del crimonologo Bruno?
«Trovammo una sua perizia durante una perquisizione nella casa di un ex funzionario del Sisde, al quale le nostre indagini ci avevano condotto. Poi, Bruno ci consegnò anche la copia di un altro suo studio (quindi in tutto sono stati due, uno nel 1984 e l’altro nel 1985). E, davvero collaborativo, Bruno spiegò di averli redatti a suo tempo perché richiestigli dall’allora direttore dei Servizi, Vincenzo Parisi. Spiegò pure di non sapere che fine avessero fatto le sue relazioni, perché il suo compito era stato solo quello di redigerle e di consegnarle all’ufficio nella persona di Parisi».
Quegli studi contenevano l’ipotesi della pista esoterica, presa poi in considerazione dalle indagini sui mandanti. Perché non vennero posti all’attenzione degli inquirenti?
«In quelle relazioni, circa il possibile movente, Bruno ipotizzava quello religioso, adombrando la possibile presenza di una setta. E questo ovviamente avrebbe comportato la partecipazione di più persone.Gli ulteriori accertamenti consentirono di appurare che da Roma quegli studi erano stati trasmessi alla dipendenza fiorentina dei Servizi, ma né in Questura né in Procura ne esisteva traccia».
Il Gides è stato sciolto. Il vostro percorso investigativo si era esaurito o vi erano spunti e piste d’indagine ancora da percorrere?
«C’erano numerose deleghe del pm Mignini da sviluppare con spunti interessanti, tra cui quello sulla taglia di cinquecento milioni di lire messa dopo l’ultimo duplice omicidio e poi revocata a distanza di qualche mese. Nessuno, da quanto mi risulta, ha sviluppato quegli accertamenti».
Quali sono le altre deleghe del pm che non sono state sviluppate?
«Le deleghe inevase a causa del blocco delle indagini erano diverse. Oltre quella sulla taglia, c’erano quelle volte ad approfondire gli accertamenti sulla presenza del Narducci sul territorio fiorentino, su alcuni personaggi che, stando ad alcune testimonianze, conoscevano e frequentavano il Narducci, sulla presenza di investigatori fiorentini a Perugia per indagare a suo tempo sul Narducci».
Per la taglia di 500 milioni di lire venne detto che era stata revocata per le migliaia di segnalazioni, poi risultate infruttuose, giunte da soggetti interessati ad incassare la ricompensa. C’è forse qualche altra spiegazione?
«Sulla taglia, ma soprattutto sulla sua revoca a distanza di qualche mese e comunque dopo poco la morte del Narducci, il pm Mignini avrebbe voluto vederci più chiaro e aveva rilasciato la delega, una delle ultime, per ricostruire la vicenda. Su di essa non è stato possibile fare nulla, essendoci pervenuta poco prima che si scatenasse il “terremoto” giudiziario, che ho già spiegato, che ha reso il Gides non più di fatto operativo».
Quali sono gli aspetti inesplorati della vicenda, gli elementi sui quali non si è, o non si è potuto, indagare e quelli dai quali potrebbe ripartire un’indagine sul Mostro e sull’eventuale collegamento con la morte di Francesco Narducci?
«C’erano degli aspetti inesplorati, che avrebbero potuto condurre a un maggiore chiarimento delle vicende, non solo favorevoli all’accusa, ma eventualmente anche a favore di possibili sospettati, ma ormai è tardi. Tutto tace e solo alcuni familiari delle vittime mi risulta che non intendono rassegnarsi perché vorrebbero sapere una verità più piena, oltre quella ormai cristallizzata per alcuni delitti e alcuni esecutori materiali dalle sentenze definitive. Mi riferisco all’ultima Sentenza della Cassazione del 26 settembre 2000 sulla colpevolezza di Vanni e Lotti. Alcuni ancora mi contattano, ma io non posso fare più nulla».
Quali sono nello specifico gli aspetti inesplorati della vicenda?
«Le indagini erano a un punto tale che avrebbero potuto consentire di far fare un ulteriore passo in avanti sia favorevole alle ipotesi, sia contrario. In ogni caso utile per aggiungere qualche ulteriore tassello di verità. Era di particolare significato il rinvenimento del fazzolettino con sangue trovato sulla scena dell’ultimo duplice omicidio (quello degli Scopeti); sangue che era risultato appartenere al gruppo B, che non era quello delle due vittime. E neppure dei condannati e indagati noti. Peraltro, nel processo a Vanni e Lotti, era emerso che sulla scena quella notte c’erano altri (una o due persone), che non è stato possibile identificare».
Il tassello mancante della vicenda, come ricostruita dagli inquirenti, è quello relativo ai mandanti dei duplici omicidi. Non esistono mandanti o non è stato possibile individuarli?
«L’ipotesi del mandante è stata proposta dai giudici che hanno condannato i complici di Pacciani sulla base di alcuni elementi oggettivi ritenuti abbastanza significativi: l’enorme disponibilità di denaro del Pacciani e in minor misura di Vanni, assolutamente non giustificata da entrate regolari e, guarda caso, proprio negli anni dei duplici omicidi. E le dichiarazioni di Lotti, rese nel dibattimento, secondo cui c’era stato un “dottore” che aveva pagato Pacciani. Al riguardo i giudici scrivevano che non si vedeva perché su questo punto Lotti non avrebbe dovuto essere creduto quando su tutti gli altri punti aveva fornito dichiarazioni puntualmente riscontrate».
Del resto anche il processo al farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, si è concluso con un’assoluzione.
«Il farmacista Calamandrei, defunto anche lui, è stato assolto in un giudizio abbreviato. E il pm Canessa, dopo la sua richiesta di condanna a trent’anni di reclusione, non ha fatto appello, per cui la sentenza è diventata definitiva. Nella sentenza il giudice ha dedicato un capitolo alle “convergenze investigative con le indagini della Procura di Perugia”, nelle pagine 172-202, per l’esattezza, in cui ha evidenziato le “ombre” sulla posizione dell’imputato proprio in relazione alla sua conoscenza del Narducci, da lui ostinatamente negata, ma confermata da plurime testimonianze».
Esiste ancora la setta che, secondo la ricostruzione della procura, commissionò i delitti e l’escissione delle parti anatomiche?
«Non sono mai emersi elementi oggettivi e certi sul coinvolgimento di una setta. Peraltro, quando ci si deve confrontare con quegli ambienti, ci si scontra contro un muro di segretezza che è difficile sfondare. E in un processo occorre portare elementi chiari e inequivocabili, non ipotesi più o meno valide».
La vicenda che si è intrecciata tra Firenze e Perugia è densa di intrighi, sospetti e presunti depistaggi, che hanno toccato i vertici dei tutori della giustizia. È possibile che esista un’associazione così coesa, coordinata e potente da organizzare e coprire un’operazione così complessa come lo scambio del cadavere di una persona assassinata?
«Sulla vicenda perugina il depistaggio iniziale mi sembra comprovato dall’episodio del recupero del cadavere nel lago Trasimeno la mattina del 13 ottobre 1985. Un cadavere che non è risultato assolutamente compatibile con quello del Narducci, così come hanno stabilito ben tre consulenze di altrettanti esperti che ne hanno ricostruito sia l’altezza, valutandola sul metro e sessantaquattro-sessantacinque, mentre Narducci era alto 1 e 82, sia la conformazione del fisico e soprattutto del volto, non corrispondenti al Narducci. E, oltre alle consulenze, che hanno potuto contare sulla unità di misura delle mattonelle della pontile, rimaste quelle dell’epoca, e sulle foto scattate nell’occasione del recupero da un fotografo (Pietro Crocchioni della Nazione, ndr), ci sono varie testimonianze, tra cui quelle del personale delle pompe funebri e di coloro che hanno vestito il cadavere, che portano a ritenere ragionevolmente che l’uomo del lago era un’altra persona».
Di chi sarebbe stato il cadavere utilizzato per lo scambio?
«Questo non si saprà mai!».
Dottor Giuttari vuole aggiungere qualcosa o ci sono degli aspetti che vuole sottolineare?
«Aggiungo che il capo XIV oggetto dell’udienza preliminare sull’ultimo tentativo di depistaggio messo in atto dal giornalista Spezi e altri per riportare l’attenzione sulla fantomatica “pista sarda” rimane un elemento fondamentale per leggere la vicenda. Il capo, confermato dalla Cassazione, fa capire le difficoltà con cui ci si è dovuti confrontare distogliendo l’attenzione degli inquirenti su punti più seri».