Mostro di Firenze. Perché la tesi dei “compagni di merende” in fondo non è mai stata in piedi
Francesco Amicone
La macabra busta che rappresentò l’ultimo atto “pubblico” della sfida del killer agli inquirenti non poteva di certo essere stata ideata da Pacciani e Vanni
La sfida pubblica fra il “Mostro di Firenze” (nomignolo dato dalla stampa al serial killer che uccise 14 persone a cavallo degli anni Ottanta nella provincia del capoluogo toscano) e gli inquirenti cominciò il 6 giugno del 1981, quando l’assassino diede inizio a una serie di omicidi che si concluse solo nel settembre 1985 e che rappresenta ancora oggi un caso unico nella storia criminale mondiale.
Dal suo ultimo “atto pubblico” firmato, una missiva, gli inquirenti hanno potuto farsi un’idea della sua reale identità. E si sono trovati di fronte a due sole opzioni: o il serial killer solitario è un uomo solitario con una grande conoscenza in materia criminale, oppure sono più persone associate fra loro, un gruppo di assassini, che mettendo insieme le proprie “competenze” sono riuscite a creare un “personaggio” che in realtà non esiste. Forse è proprio quella lettera la chiave del dilemma che in questi giorni la procura di Firenze, riaprendo le indagini, sembra voler tentare di risolvere definitivamente.
LA MISSIVA. All’indomani del massacro di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, l’ultimo a lui attribuito, l’assassino imbucò una busta vuota con un frammento di seno di Nadine, in una cassetta delle lettere di San Piero a Sieve. Era indirizzata al magistrato Silvia Della Monica, che si era occupata per breve tempo del caso del serial killer “fiorentino”. Della Monica aveva un’abitazione “top secret” proprio nei pressi del paesino del Mugello. Fu quello il giorno dell’armistizio. Il Mostro smise di rivendicare i suoi delitti e, da allora, a meno che non si trattasse di Pacciani, l’uomo che si celava dietro la maschera dell’assassino delle notti senza luna non è mai stato individuato.
UNA RIVOLUZIONE? In questi giorni Repubblica ha rilanciato l’ipotesi che le nuove indagini condotte dalla procura di Firenze confermino quello a cui la maggioranza dei fiorentini e degli addetti ai lavori non crede: cioè che il Mostro di Firenze fossero quattro avventori delle taverne di San Casciano. Una soluzione, quella prospettata dal quotidiano, che sovvertirebbe l’intera letteratura criminologica mondiale, mettendo in crisi anche gli specialisti dell’Fbi di Quantico. Che la procura di Firenze e il Ros abbiano in mano le chiavi per la rivoluzione copernicana in materia di scienze criminali si può dubitare anche senza conoscere le carte. L’unica concreta “pista” che il Ros di Borgo Ognissanti potrebbe seguire attualmente è quella che conduce, con discrezione e accortezza, a un definitivo abbandono della teoria dei “compagni di merende”.
L’IMPORTANZA DELLA BUSTA. Per capire come mai la giustizia italiana si sia concentrata sulla figura anomala di un assassino “dalle molte facce” non in senso lato (come può essere), ma in senso letterale, senza mai arrivare alla soluzione definitiva sul caso, si può prendere a esempio proprio l’ultimo atto “pubblico” del Mostro: la busta indirizzata al magistrato “Della Monica Silvia” (sulla busta il cognome precedeva il nome). Il killer, dopo avere massacrato almeno una volta all’anno, a partire dal 1981, una o più coppie di ragazzi nelle campagne fiorentine, interruppe anche la sua “storia” con una “comunicazione” diretta a chi stava indagando su di ui. “Il killer sono io” diceva il contenuto della missiva.
L’AUTORE È L’ASSASSINO. La busta recapitata a San Piero a Sieve fu sicuramente inviata dall’assassino o da un suo complice. Sono il contenuto e la data in cui fu spedita a dimostrarlo. E implica alcuni fatti non sono mai stati spiegati dagli investigatori e dai magistrati che si sono occupati del caso: se uno dei “super-indiziati” degli ultimi quarant’anni fosse stato davvero il vero serial killer, avrebbe saputo spiegarli, lui o la sua storia personale. Nessuna delle persone indagate fino ad oggi, invece, risponde al profilo di chi concepì quella lettera. Nemmeno l’attuale “super-indiziato”, Giampiero Vigilanti, l’ex legionario incontrato da Tempi ad aprile.
LA DOMANDA DEGLI INQUIRENTI. La domanda che si sono posti gli inquirenti per tutti questi anni è emblematica: se l’autore della missiva è l’assassino, come è possibile che il nostro Mostro, Pacciani, non possa essere l’autore della missiva? Non poteva essere Pacciani perché il contadino di Mercatale non poteva avere la certezza matematica, che invece il serial killer aveva, che quel lembo sottile di pelle sarebbe bastato ai medici del Careggi per identificarlo come materiale biologico di Nadine. Allora non esisteva, infatti, la prova del Dna. Chiunque avesse spedito quella prova possedeva conoscenze che solo alcuni esperti potevano avere.
LA SCELTA DELLA PROCURA. E quella non è stata l’unica occasione in cui gli investigatori si sono posti una domanda del genere. A pochi mesi dalla probabile assoluzione di Pacciani, gli inquirenti avevano due strade da percorrere: trovare un altro sospettato oppure aggiustare le anomalie del quadro accusatorio, trovando dei complici in grado di spiegarle. Scelsero la seconda opzione. Diversa da quella che era stata indicata prima dalla procura generale, guidata da Piero Tony, poi dalla corte d’appello di Firenze, che assolse il contadino di Mercatale. La procura di Firenze decise – nonostante le indicazioni dell’Fbi e dell’Università di Modena, dello stesso Ruggero Perugini che aveva condotto le indagini su Pacciani, della procura generale e poi della sentenza Ferri – che l’assassino non era solo, ma che avesse dei “compagni”. Ecco come nacque la storia dei “compagni di merende”. Siccome Pacciani non poteva aver lontanamente pensato di inviare un minuscolo lembo sottocutaneo del seno di Nadine per dimostrare di essere l’autore dei crimini, allora doveva avere un complice. Un dottore o un farmacista. Lo stesso ragionamento è stato fatto per i proiettili, per le automobili, per i cosiddetti “luoghi sicuri”. È così che sono saltate fuori le figure del postino, del carabiniere, del farmacista, del massone.
IL PIANO DEL KILLER. Nel settembre del 1985, il serial killer aveva in mente un piano preciso. Dopo il duplice omicidio avrebbe corso il rischio di inviare una missiva agli inquirenti. Così, nel primo weekend di settembre di quell’anno, dopo avere nascosto i corpi di Jean-Michel e Nadine in una piazzola che si trova all’altezza del borgo di Falciani, su una strada collinare a pochi chilometri da Firenze che porta nel Chianti, inserì nella busta già preparata un lembo del seno di Nadine e si diresse verso il Mugello. Per farlo avrebbe potuto anche passare per via dei Giogoli, Scandicci e Calenzano, dove aveva già ucciso. Alla fine di questo percorso di una quarantina chilometri in auto, senza nemmeno dover attraversare il centro del paese dove qualche nottambula avrebbe potuto vederlo, imbucò la busta con la sua “firma”.
TROVATEMI. Ecco cosa voleva dire sicuramente la comunicazione del serial killer: “Il contenuto prova che sono il Mostro di Firenze, che so esattamente cosa fornirvi per dimostrarlo, e che conosco il luogo di villeggiatura segreto di Silvia Della Monica”. Solo il vero Mostro, oggi, sarebbe in grado di fornire una spiegazione completa per quel suo ultimo “atto pubblico”. E forse l’obiettivo principale della lettera era evitare che qualche impostore si appropriasse dei suoi crimini. E che potesse, in futuro, nel caso, dimostrare di essere il vero Mostro.
SPIEGAZIONI MANCANTI. Assume quindi un’importanza fondamentale il fatto che, a proposito di quella busta, il “super-testimone” Giancarlo Lotti non seppe mai spiegare nulla. Lotti, soprannominato in paese “Katanga”, era l’uomo che dieci anni dopo quella missiva accusò la coppia Pietro Pacciani e Mario Vanni di avere commesso la maggior parte dei duplici omicidi del Mostro. Il Katanga confessò anche di avere partecipato ad alcuni dei duplici omicidi del Mostro. Eppure di quella busta non seppe dire niente.
ANALFABETISMO CRIMINALE. La missiva di San Piero a Sieve non poteva averla concepita né Pacciani né alcuno dei tre analfabeti in materia criminale che in epoca successiva all’arresto di Pacciani furono soprannominati dai media “compagni di merende”. Né il postino impotente Vanni, né tanto meno l’oligofrenico Fernando Pucci o il “pezzo di carne con gli occhi” Lotti. Quindi, chi può averla ideata?
Mostro di Firenze. Perché la tesi dei “compagni di merende” in fondo non è mai stata in piedi