Mostro di Firenze, i familiari delle vittime chiedono l’avocazione delle indagini: «Troppe verità negate»
L’atto depositato dall’avvocato Biscotti, che difende la figlia di Nadine Mauriot, uccisa insieme al compagno nel 1985 a San Casciano. Dall’informativa dei carabinieri ai proiettili minatori, tutti gli elementi «dimenticati» nelle inchieste. Il mistero del Dna
Storia criminale d’Italia mai chiusa. Anzi. L’avvocato Valter Biscotti ha depositato la richiesta di avocazione delle indagini alla Procura generale di Firenze sul cosiddetto «mostro». Difende Estelle Lanciotti, figlia di Nadine Mauriot, uccisa insieme a Michel: francesi, lei commerciante e lui musicista jazz, erano alla prima vacanza. Il duplice omicidio avvenne nel settembre 1985 a San Casciano. L’azione dell’avvocato è conseguenza dell’impedimento di poter svolgere le indagini difensive, e si basa su differenti fatti, dalle mancate risposte alle legittime istanze di accesso agli atti (peraltro di processi definiti con sentenze dibattimentali da più di venti anni), alla mancata messa a disposizione della Corte d’Assise degli atti del fascicolo inerente Pietro Pacciani. Tra gli elementi centrali c’è la storia del proiettile trovato nel giardino del medesimo Pacciani, rinvenimento messo in fortissima discussione da una perizia. Di recente, insieme a due colleghi (Vieri Adriani e Antonio Mazzeo) che a loro volta difendono altri parenti delle vittime di quell’infinita stagione di sangue (nell’arco di undici anni 14 vittime accertate), Biscotti aveva chiesto la riapertura dei casi. Ottenendo, per tutta risposta, un mero disinteresse se non azioni d’ostacolo. Eppure, il materiale per ri-valutare quegli avvenimenti legittima quantomeno la coltivazione del dubbio. A cominciare dall’informativa.
Calibro 22
In un’informativa dei carabinieri dell’ottobre 1984, con intestazione a titolo «Rapporto di polizia giudiziaria e relative indagini», si ipotizzava che una pistola Beretta calibro 22, rubata anni prima in un’armeria e mai ritrovata, potesse essere collegata ai delitti del «mostro. La pistola portava a un uomo, già denunciato per reati contro la libertà sessuale: in fase di perquisizione, nella sua casa vennero scoperti 10 bossoli e 2 cartucce sempre calibro 22. Ma nell’infinito elenco delle persone esplorate per cercare fra loro il maniaco omicida armato sia di pistole sia di lame per amputare – un elenco di duecento identità infine ridotto a pochi nomi a cominciare da quello di Pietro Pacciani, contadino, deceduto nel 1988 alla vigilia di uno dei numerosi processi a suo carico –, quell’uomo non è mai stato considerato fra i possibili sospettati. Dunque i magistrati avrebbero ignorato il rapporto dei carabinieri (la Compagnia era quella di Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze) a fronte di una appunto copiosa e forse non ogni volta circostanziata oppure robusta selezione di presunti colpevoli. Perché mai? Quale sforzo aggiuntivo avrebbe comportato l’inserimento del nominativo?
Il Dna
L’accesso (per appunto finora negato) alla totalità degli atti potrebbe consolidare le indagini difensive poggiando su un dato oggettivo: per tre duplici delitti ricondotti alle attività sanguinarie del «mostro», ancora oggi mancano sentenze definitive sul responsabile o i responsabili. Del resto, nella complessità dei fatti e delle successive indagini, qualcos’altro sarebbe rimasto dimenticato – s’ignora se per approfondita valutazione, sottovalutazione oppure altro ancora –, unitamente ai consigli invano forniti dai carabinieri con quel loro dossier. Parliamo di una traccia di Dna isolata da una delle tre buste inviate dal «maniaco» a tre magistrati che si occupavano delle inchieste, e contenenti lettere di minacce e bossoli Winchester. Di nuovo calibro 22. Una coincidenza, forse. Ma negli omicidi, spesso le coincidenze possono divenire tracce. Dice Biscotti: «Noi vogliamo vedere tutti gli atti perché li c’è la verità degli otto duplici omicidi. Una verità a mio giudizio che non ha nulla a che vedere con istruttorie e sentenze fino ad ora conosciute».