Mostro di Firenze: un incubo iniziato 54 anni fa, forse ora una nuova pista

di Luca Marrone

Tutto inizia mercoledì 21 agosto 1968. Barbara Locci e Antonio Lo Bianco si appartano in auto in una strada tra il cimitero di Signa e Sant’Angelo a Lecore, nei dintorni di Firenze.

Lei, casalinga sarda di trentadue anni, sposata con Stefano Mele e madre di Natalino, di sei anni. Lui, muratore siciliano ventinovenne, sposato e padre di tre figli. Con loro c’è anche il figlio di Barbara, addormentato. Qualcuno si avvicina alla macchina e fa ripetutamente fuoco contro i due, con una pistola che risulterà essere una Beretta .22, mai recuperata.

Sarà proprio il figlio di Barbara, Natalino, a consentire la scoperta del duplice omicidio: verso le due del mattino, bussa alla porta di un casolare a circa un paio di chilometri dalla scena del crimine, riferendo al proprietario che la mamma e lo “zio” sono morti in macchina e che suo padre è a casa malato. A causa di alcune ritrattazioni, non si saprà mai con certezza come abbia fatto il bimbo a raggiungere la casa, forse da solo, forse accompagnato da qualcuno che lo teneva sulle spalle.

In ogni caso, del duplice omicidio viene ben presto accusato il marito della Locci, un manovale sardo emigrato in Toscana anni prima. L’uomo, a detta degli investigatori, non si mostra eccessivamente sorpreso e addolorato per la morte della moglie e, nelle sue dichiarazioni successive, ammette il delitto, poi ritratta, poi torna a confessare, cercando di coinvolgere nell’azione omicida alcuni dei numerosi amanti della donna, ben nota nella zona per la sua esuberanza sessuale.

Il movente, secondo chi indaga, potrebbe essere appunto passionale. Invero, risulterebbe arduo riferire tale movente a Stefano Mele che, a quanto emerge, ha sempre accettato i reiterati tradimenti della moglie e addirittura tollerato la presenza dei suoi amanti in casa. Si tenta anche la strada del movente economico, senza approdare a scenari più convincenti. In ogni caso, l’uomo viene processato e, nel 1970, condannato in via definitiva per il duplice omicidio. Una perizia, nel corso del procedimento, accerta che l’uomo è affetto da oligofrenia.

Uno sgradevole caso di cronaca nera estiva, che viene presto dimenticato. Certo, allora nessuno poteva immaginare che esso rappresentasse il primo atto di una vicenda criminosa destinata a dispiegarsi per tanti anni, nel corso della quale sarebbero state uccise altre quattordici persone. La consapevolezza che, nelle campagne circostanti Firenze, si aggirasse un serial killer è comprensibilmente maturata per gradi, man mano che il modus operandi e la firma del soggetto si andavano delineando da un delitto all’altro.

Passano sei anni. Sabato 14 settembre 1974, Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore vengono uccisi in circostanze decisamente simili: appartati in auto, vengono raggiunti da uno sconosciuto che fa fuoco contro di loro con una Beretta .22 e infligge loro anche vari colpi di arma bianca. Poi, prima di dileguarsi, pratica sul corpo della vittima femminile macabre incisioni con la lama e compie altri atti post mortem. Gli investigatori affrontano il caso con quello che potremmo definire un approccio tradizionale, senza approdare a risultati utili.

Sette anni dopo, altri due duplici omicidi. Vittime, Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi (sabato 6 giugno 1981), Susanna Cambi e Stefano Baldi (giovedì 22 ottobre 1981). L’omicida pone in essere le aggressioni sempre nello stesso modo, con una Beretta. 22 che carica proiettili Winchester serie “H” e, proprio dal 1981, inizia ad asportare il pube della vittima femminile. Ormai è certo, i delitti risultano riconducibili a un unico soggetto, che opera reiterando un ricorrente schema comportamentale.

Proprio al 1981 risale il primo tentativo degli inquirenti di valersi del contributo di quel tipo di analisi criminologico-investigativa definita criminal profiling. Lo psicologo Carlo Nocentini viene incaricato di esaminare i delitti per individuare tratti peculiari delle motivazioni e della personalità dell’omicida. Secondo l’esperto, si tratta di un soggetto che agisce per punire le coppie appartate in cerca di intimità, condotta da lui ritenuta inaccettabile e scandalosa. Ritiene, Nocentini, che l’assassino sia affetto da paranoia e prevede: colpirà ancora.

Sabato 19 giugno 1982, vengono uccisi Antonella Migliorini e Paolo Mainiardi: stesse modalità di aggressione e stessa arma, ma questa volta l’omicida deve dileguarsi prima di praticare le mutilazioni sulla vittima femminile. Venerdì 9 settembre 1983, il mostro individua le vittime in modo impreciso e uccide due uomini, Horst Mayer e Uwe Rusch, giovani turisti tedeschi. Domenica 29 luglio 1984, cadono sotto i colpi della Beretta .22 Pia Rontini e Claudio Stefanacci, il soggetto reitera le mutilazioni alla vittima femminile, estendendole al seno sinistro, come farà sabato 7 settembre 1985 colpendo Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili, turisti francesi accampati in una tenda.

Questi i delitti. L’iter investigativo e processuale si rivela particolarmente problematico e tormentato. Molteplici le piste percorse, tanti i soggetti su cui si effettuano approfondimenti. Nel 1982, la presa d’atto che la Beretta del mostro ha colpito anche nel 1968 e che, dunque, bisogna ricomprendere nell’indagine anche il delitto Locci-Lo Bianco, che si riteneva del tutto chiarito. Nasce così la cosiddetta pista sarda, che si focalizza sui soggetti che gravitavano nell’orbita di Barbara Locci e che, dopo il duplice omicidio di allora, avrebbero potuto reiterare gli attacchi con la medesima pistola. Pista conclusa anni dopo con il proscioglimento di tutti i sospettati.

Si richiederà il contributo di altri criminologi, chiamati a proporre ulteriori profili dell’omicida: nel 1984-85, Francesco De Fazio e i suoi collaboratori dell’Università di Modena e, nel 1989, persino la celebre Unità di Analisi Comportamentale dell’F.B.I.

Poi, gli investigatori giungono a concentrare l’attenzione su Pietro Pacciani, contadino con significativi precedenti penali (un omicidio passionale negli anni Cinquanta e, più di recente, una condanna per molestie sessuali sulle figlie). Durante una perquisizione nel suo orto, viene rivenuto un proiettile ossidato che potrebbe essere uno di quelli impiegati dall’omicida. Il processo Pacciani si conclude con una condanna in primo grado e, in appello, con l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Sentenza, quest’ultima, annullata dalla Cassazione, il contadino muore prima che si celebri il giudizio di rinvio. Nel 2000 si giunge però alla condanna in via definitiva dei cosiddetti “compagni di merende” Mario Vanni e Giancarlo Lotti, per quattro dei duplici omicidi, che avrebbero commesso come complici di Pacciani.

Permangono comunque numerosi dubbi, sia dal punto di vista investigativo che criminologico. Senza utili approdi si concludono le indagini sugli ipotizzati mandanti esoterici dei delitti e, nel corso degli anni successivi, il caso ha continuato a registrare vari sviluppi, tutti rivelatisi inconcludenti.

Fino a questa estate, in cui gli organi di stampa hanno dato conto di un nuovo corso che appare promettente. Il Gip di Firenze ha autorizzato gli avvocati dei parenti di alcune delle vittime ad accedere alla documentazione del caso per effettuare indagini difensive.

Una perizia dei Ris di Roma ha poi stabilito che la cartuccia rinvenuta nell’orto di Pacciani (della cui autenticità dubitava anche la Corte d’Appello che lo aveva assolto e che, anni fa, era già stata sottoposta a una analisi che ne aveva rilevato alterazioni), non può essere stata alloggiata in una Beretta .22.

Spunta inoltre un dossier dei Carabinieri, risalente agli anni Ottanta, su un soggetto sospettato di essere coinvolto nel furto di una Beretta .22 avvenuto nel 1965 e, appunto, nei delitti del mostro. Costui in passato avrebbe subìto una denuncia per “reati contro la liberà sessuale” e, nonostante ciò, a quanto dicono i giornali delle scorse settimane, sarebbe stato “contiguo agli ambienti giudiziari”. Sul soggetto non si era più indagato. È lui il mostro di Firenze? Dopo cinquantaquattro anni dal primo delitto associato all’omicida siamo finalmente vicini alla verità? Non possiamo che augurarcelo, attendendo gli sviluppi di questo nuovo corso dell’indagine.

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