Mostro di Firenze, parla Carmelo Lavorino: “Ecco la verità su Pietro Pacciani”
Il noto profiler, che fu consulente della difesa del contadino di Mercatale, svela a Cronaca Vera i retroscena sul processo che vide assolto Pacciani dall’accusa di essere il mostro di Firenze
Il nipote di Mario Vanni chiede ora la revisione del processo ai “compagni di merende” soprattutto alla luce del fatto che il proiettile rinvenuto nell’orto di Pacciani è stato ritenuto un falso
FIRENZE- Pietro Pacciani, tra il 1994 e il 1998, era l’unico imputato per i delitti del Mostro di Firenze. Veniva ritenuta prova decisiva a suo carico una pallottola, inesplosa per cilecca, scoperta nell’orto di casa sua durante una perquisizione.
La cartuccia era dello stesso tipo e modello, Winchester serie H, di quelle usate dall’omicida per sparare con alle vittime con la sua ancora oggi irrintracciabile pistola Beretta calibro 22 a canna lunga.
La difesa di Pacciani ha sempre contestato questa lettura rimarcando che non era certa l’appartenenza del proiettile alla scorta di munizioni dell’assassino e inoltre le circostanze e le modalità del suo ritrovamento erano oltremodo dubbie.
Dopo la condanna di Pacciani in primo grado, in appello i giudici avevano dato ragione alla difesa, assolvendo l’imputato. In seguito la Cassazione, per l’emergere di presunti correi di Pacciani, i celeberrimi “compagni di merende” , dispose il rifacimento del processo, che non poté celebrarsi per la morte del contadino toscano.
Nello scorso mese di luglio sono stati resi disponibili gli esiti di un’indagine, fino ad allora coperta dal segreto istruttorio – anche se ne circolavano indiscrezioni – condotta dalla Procura di Firenze per accertare la genuinità della cartuccia incriminata.
Si è così venuti a sapere che secondo un consulente esperto in balistica, Paride Minervini, quel reperto è visibilmente artefatto. C’è anche il responso dei Ris di Parma, che esclude che la cartuccia sia compatibile con una pistola di marca Beretta come quella del Mostro.
Al riguardo, abbiamo interpellato il professor Carmelo Lavorino, noto criminologo e investigatore forense, uno degli elementi di punta del collegio difensivo che assisteva Pacciani.
Innanzitutto una curiosità: lei che ha conosciuto Pacciani, è vero che era così incredibilmente taccagno da esser riuscito, grazie anche all’intraprendenza nel procurarsi lavori in nero, a risparmiare un ragguardevole gruzzolo?
Verissimo. Ricordo che aveva offerto a me e all’avvocato Marazzita una cena al ristorante, ma poi al momento di recarvisi lamentò un’indisposizione. E si finì che la cena ce la facemmo portare a casa sua. Ma quando si trattò di pagare lui accampò scuse, costringendo noi ad accollarci il conto.
Cosa pensa delle novità sul problema della famosa cartuccia?
Non mi stupisce che si sia arrivati ad una indagine penale sul reperto, col risultato di cui ora si sa. Era evidente fin dall’inizio, e noi della difesa di Pacciani lo sostenemmo con forza, che il filmato della perquisizione e il resoconto di quanti la effettuarono suscitavano, come minimo, forti perplessità. Basti pensare che si disse che era stato il luccichio dell’oggetto, parzialmente interrato, colpito da un raggio di sole, ad attirare l’attenzione. Ma quel giorno il cielo era nuvoloso, la cartuccia era coperta di terriccio e il palo dove venne rinvenuta la cartuccia era coperta da un telo per proteggere il tutto dalla pioggia… C’è di più: calcolando statisticamente la probabilità che la cartuccia venisse notata, in quelle condizioni e in quel punto dell’orto di Pacciani, veniva fuori una probabilità da vincita secca al superenalotto. E bisogna aggiungere che anche le altre prove contro Pacciani erano inconsistenti e/o sospette.
Per esempio?
Cito due casi. Il primo mi riguarda personalmente. Durante un sopralluogo in casa di Pacciani risultava sequestrato un portasapone di colore rosa identico ad uno appartenuto ai due giovani tedeschi uccisi a Giogoli nel 1983, e custodito nel loro furgoncino. Come d’uso, io sono solito leggere con pignola attenzione tutti gli atti di un’inchiesta di cui mi occupo. E scoprii che nel verbale del sopralluogo il portasapone veniva indicato di colore bianco ed assente dei contrassegni identificati presenti sul portasapone rosa, quali il marchio Deiss ed alcune bruciature di sigarette. Così la Corte d’Appello non tenne conto di questo presunto corpo del reato.
Analogamente, non venne presa in considerazione dalla Corte un’altra prova spuntata fuori attraverso una segnalazione anonima: un pezzo di una pistola Beretta dello stesso modello di quella appartenente al Mostro, “l’asta guidamolla”, avvolta in uno straccio che una perquisizione aveva notato in casa di Pacciani. Questi si lamentò, indignato, che qualcuno doveva averglielo sottratto a sua insaputa.
Poiché l’intervento di una manina ignota, non essendo impenetrabile l’abitazione di Pacciani, era verosimile, anche senza voler malignamente pensare che ad impadronirsi dello straccio fosse stato uno dei perquisitori, anche in questo caso la Corte di Appello considerò senza valore probatorio questo oggetto.
Ricordo anche l’emozione con cui il Capo della Squadra Antimostro che indagò su Pacciani, Ruggero Perugini, descrive, nel suo libro “Un uomo abbastanza normale”, il momento in cui scopre che l’annotazione manuale sulla copertina del bloc notes di marca Skizzen Brunner sequestrato a Pacciani, era stata vergata dalla commessa di un negozio tedesco presso cui si riforniva Horst Maier, vittima del Mostro nel 1983.
Peccato che, a prescindere dall’incerta attribuzione grafologica dello scritto, questo riportasse un prezzo incompatibile con quello praticato all’epoca del delitto per quell’articolo, ed anche questo fu motivo d’assoluzione per il vecchio e taccagno contadino.
Rino Casazza per Cronaca Vera
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