Il 17 gennaio 1993 Pacciani in manette. Ma trent’anni dopo ancora dubbi e misteri
Dalle perizie sulla cartuccia dell’orto nuove verità su quella stagione: c’era la volontà di incastrarlo? Suor Elisabetta: “C’è qualcosa dietro”
irenze, 17 gennaio 2023 – «Non sono io quello che cercate”, urlava Pietro Pacciani con le manette che gli vennero stretti ai polsi la mattina del 17 gennaio. E quel grido, trent’anni dopo, si è trasformato in una domanda a cui, neppure le sentenze sui delitti del mostro di Firenze, hanno dato una risposta esaustiva. Un po’ perché la morte, che lo coglierà un lustro dopo il suo arresto del 1993, interruppe il procedimento giudiziario a suo carico, dove aveva incassato sì una condanna per 14 omicidi (tutti meno che il primo, quello del 1968) ma anche un’assoluzione in appello, poi annullata in Cassazione.
Ma soprattutto perché la storia è andata oltre i processi ai suoi amici e complici, i compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti, e qualcosa comincia a traballare, quanto meno sulla stagione che portò alla sua individuazione.
La cartuccia dell’orto, spuntata nella maxi perquisizione a Mercatale Val di Pesa che seguì di qualche mese il suo arresto, oggi non è soltanto argomento di discussione tra innocentisti e colpevolisti su un tema, quello del mostro, che ancora appassiona; ma è addirittura oggetto di un fascicolo della procura che finora, grazie a nuove perizie, ha stabilito che i segni che sembravano il segno dell’incameramento nella pistola (mai ritrovata) degli otto duplici omicidi, siano in realtà altro e niente di genuino.
Una prova fabbricata, insomma, che all’epoca doveva servire – a prescindere dalla responsabilità del contadino nei delitti delle coppiette – a indirizzare verso di lui indagini e sospetti.
Il resto verrà da sé. D’altronde, Pacciani, che nei paesi dove tutti hanno un soprannome lui era il ’Vampa’ perché s’arrostì il viso improvvisandosi mangiafuoco, un “povero agnelluccio”, come si definiva, non era. L’avviso di garanzia quale presunto mostro lo raggiunse mentre scontava una condanna per abusi sulle due figlie, e nell’impatto emotivo, anche a processo, ebbe un gran peso. A lui, l’allora capo della Sam, Ruggero Perugini, ci arrivò incrociando i dati, interrogando i rudimentali computer dell’epoca.
Partendo dall’assunto che il mostro fosse un individuo con precedenti per reati di natura sessuale, la scrematura consegnò il suo nome. Certo, alcuni aspetti erano molto suggestivi (l’essere nato in Mugello ed essersi spostato in Val di Pesa, stesso percorso fatto anche dall’assassino seriale), ma la condanna arrivò al termine di un processo super indiziario. Tra quelli che hanno sempre creduto al complotto, c’era suor Elisabetta. “Mi domando cosa ci sia dietro, perché ancora oggi non si vuole far venir fuori la verità”, dice.
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