Zodiac il serial killer americano e il cosiddetto mostro di Firenze sono la stessa persona?
Sono passati più di cinquant’anni dal primo delitto del cosiddetto “Mostro di Firenze” ma la verità a livello giudiziario non è ancora emersa.
All’inizio sembrava che questi delitti fossero opera di uno sbandato schizofrenico ma dal delitto del 22 ottobre 1981[1] gli abitanti di Firenze e soprattutto le forze dell’ordine si resero conto che ci si trovava di fronte un maniaco omicida che va a caccia di coppiette appartate nelle notti senza luna. E stavolta l’opinione pubblica toscana è spaventata, poiché si trovava di fronte a una persona organizzata, le cui turbe, per quanto gravi, gli permettono di agire in maniera fredda e lucida. È un pazzo ma non uno schizofrenico. Gli inquirenti hanno ora di fronte qualcosa che in Italia prima di allora, si era visto soltanto al cinema. Un serial killer “all’americana”.
Il primo a pagare con la galera una parola di troppo fu Enzo Spalletti[2], guidatore di autoambulanze. Spalletti praticava uno “sport” molto in voga nella provincia di Firenze degli anni Ottanta: il guardone, che consisteva nello spiare le coppiette appartate in auto. Durante la notte i guardoni andavano nei boschi a caccia, armate di binocolo a infrarossi e microfoni, per osservare le coppiette che facevano l’amore in auto. Molti di loro, l’indomani, si trovavano nelle taverne per scambiarsi fotografie e registrazioni audio.
Spalletti la mattina del 7 giugno 1981 prima zappetta l’orto, poi va al bar, dove dice agli avventori di avere visto i corpi delle due vittime. Viene subito arrestato. Tre mesi dopo il “Mostro” colpisce di nuovo a Calenzano. Questo fatto di sangue porta alla liberazione di Spalletti.
Per sette anni gli investigatori avevano seguito le tracce del “Mostro” a partire dai bossoli trovati nel 1982 in un faldone di un processo per un duplice omicidio maturato in ambiente sardo (quello inerente l’assassinio di Barbara Locci e di Antonio Lo Bianco compiuto il 22 agosto 1968). I bossoli erano identici a quelli rinvenuti sulle scene del crimini del “Mostro” dal 1974 in poi. Ma per il delitto del 1968 esisteva già un colpevole, che era in carcere: il marito di Barbara Locci, Stefano Mele.
Si pensò che il “Mostro” avuto potesse in qualche modo avere avuto accesso alla pistola usata nell’omicidio del 1968 e averla usata successivamente. Furono arrestati uno a uno tutte le persone che potevano avere partecipato al delitto del 1968: Francesco Vinci, Piero Mucciarini, Giovanni Mele. Fu arrestato anche Salvatore Vinci. Non si trovò nulla.
Quando i fiorentini scoprono che l’indagato principale della Procura di Firenze è Pierino Pacciani, di mestiere contadino, la gente scuote il capo. Ci vorrà tutto l’impegno dei mass-media per fare accettare ai fiorentini che il Vampa – come era soprannominato in paese – sia l’assassino che aveva terrorizzato la città per un lustro e dal quale i cittadini si sentono ancora minacciati. Ma la Procura della Repubblica guidata da Pier Luigia Vigna ne è certa: il “Mostro” è lui.
C’è stata una selezione nella ricerca di chi era il “Mostro”. Prima era toccato al guardone, in seguito ai Sardi e adesso a un contadino. L’accusa si mise di impegno per trovare qualcuno che raccontasse qualcosa di compatibile con il quadro accusatorio (un assassino seriale, calmo, lucido e soprattutto sobrio)[3]. Forse Pacciani terrorizzava qualcuno a San Casciano? Nemmeno questo. Si scoprì che il Vampa non le aveva soltanto date le botte ma ne aveva prese e tante: una bastonata nel 1951 da Giampiero Vigilanti un ex della Legione Straniera; molte borsettate da “Cinzia”, prostituta che batteva tra la Via Scopeti e la Cassia; qualche schiaffone dal guardiacaccia Gino Bruni, che Pacciani aveva minacciato con un forcone. Storie di paese, queste, che però appaiono più autentiche delle analisi “scientifiche” sulla “personalità segreta” di Pacciani che giravano sui giornali in epoca processuale.
L’ex Procuratore generale di Firenze, Piero Tony – che rappresentava l’accusa al processo d’appello sul mostro – chiese l’assoluzione di Pacciani, e l’ottenne.
L’ex Pg di Firenze ha sempre criticato il metodo che la Procura decise di utilizzare per arrivare all’identità del “Mostro”. Egli sostiene che il meccanismo per il quale si era rivolta l’attenzione su Pacciani fu il seguente: fra le tante cose, si presumeva che il serial killer avesse attirato l’attenzione di qualcuno. Pacciani era stato segnalato da una lettera anonima, egli aveva dei precedenti penali (aveva ammazzato un uomo nel 1951 e aveva abusato per anni delle proprie figlie), abitava a San Casciano e non era in galera quando il “Mostro” aveva ucciso. Si dedusse quindi che Pacciani potesse essere il serial killer.
Se si stava ai parametri che gli inquirenti si erano dati il nome di Pacciani doveva essere fuori dalla lista dei sospetti. Non rispettava per niente il profilo stilato dai criminologi e al tempo dei delitti non era in salute (aveva avuto un infarto).
Agli inizi del 1993 nemmeno Ruggero Perugini della Squadra Anti Mostro sembrava essere certo della colpevolezza di Pacciani. Perugini si era appellato pubblicamente al “Mostro” ancora senza volto. Perugini gli aveva offerto una mano per “uscire dall’incubo”. Come reagì all’appello il “Mostro”? Pochi mesi dopo, in aprile, gli investigatori durante una perquisizione trovarono un proiettile calibro 22 nell’orto di Pacciani.
Durante il processo d’appello, la Corte e la Procura furono avvertite informalmente dal perito della difesa Enrico Manieri, che quel proiettile era un falso poiché era stato caricato su un’arma diversa da quella del killer. La conclusione era ovvia: qualcuno aveva voluto incastrare Pacciani.
Il quadro accusatorio che il Pm Canessa aveva portato in tribunale crollò pezzo dopo pezzo al processo d’appello. Le testimonianze chiave vennero demolite. La più importante era stata quella di Giuseppe “Joe” Bevilacqua, ex sergente dell’esercito USA con 20 anni di carriera e un turno di servizio in Vietnam, nonché ex agente del Criminal Investigation (CID) dell’esercito e funzionario del cimitero americano di Firenze dal 1974 al 1988.
Risulta che era presente in California quando indagò sul caso “Khaki Mafia”. Nel 2017, Bevilacqua conservava ancora il libro su questa inchiesta scritto da June Collins e Robin Moore. La vicenda esplose sulla stampa americana l’1 ottobre 1969, in concomitanza con il caso Zodiac. L’indagato di rango più elevato di una sorta di “mafia militare” era il Sergente Maggiore dell’Esercito William O. Wooldridge. I rapporti investigativi della Criminal Investigation Division riportano che le indagini si focalizzarono in Vietnam e California, dove aveva sede Maredem, la società con cui i soldati indagati, fra cui Wooldridge, facevano affari con club e mense militari amministrati da personale corrotto[4].
Nell’inchiesta furono coinvolti decine di agenti CID in tutto il mondo, fra cui Bevilacqua. Almeno tre indagini si svolsero a San Francisco, a partire dal 1 luglio 1969 fino alla fine del 1970, nell’epoca in cui Zodiac colpì o inviò lettere. Una testimonianza risalente al gennaio 2019 al vaglio degli investigatori conferma che Bevilacqua abbia svolto attività d’indagine sotto copertura mentre era nell’esercito.
Altre testimonianze potrebbero aggiungersi, se le autorità statunitensi, che finora hanno negato l’esistenza di un dossier investigativo su Bevilacqua nel caso Zodiac, decidessero di verificare la sua presenza a San Francisco tra il 1968 e il 1971. Bevilacqua, nel 1968, era in turno di servizio in Vietnam. Questo però non gli impedì di volare con un’autorizzazione a San Francisco nel dicembre di quell’anno, quando nella vicina Vallejo una coppia di teenager appartati in auto venne uccisa da Zodiac con una pistola calibro 22. Un dettaglio che si aggiunge al fatto che uno dei colleghi di Bevilacqua abbia messo su casa a Santa Rosa, California, fra il 1973 e il 1974, quando Zodiac spedì una lettera dopo un’assenza di diversi anni, citando un delitto avvenuto proprio a Santa Rosa. Inoltre, la madre del genero di Bevilacqua (di San Francisco) abitava a 15 minuti d’auto da dove venne ucciso da Zodiac il taxista Paul Stine, nel 1969. Sul fronte Mostro, non c’è solo il fatto che, nel periodo degli omicidi a Firenze, Bevilacqua abitasse a 10 minuti di cammino dall’ultima scena del crimine del maniaco e a meno di mezz’ ora dalla maggior parte degli altri delitti. Ci sarebbe una prova che frequentasse il quartiere dove risiedeva Susanna Cambi, una delle vittime del Mostro, nei giorni in cui venne uccisa a Calenzano. Per qualcuno, Bevilacqua è un uomo vessato da molte coincidenze sfortunate. A breve, però, rischiano di diventare troppe.
Dopo la prima condanna, Pacciani fu assolto, scrive a proposito il giudice Ferri: “Pacciani viene condannato in primo grado senza le necessarie prove, sulla base di artifici dialettici, di palesi illogicità, di illazioni e di mere invettive”[5].
Ferri si dimise da giudice in polemica con la magistratura, definendo l’intero processo Pacciani “una colonna infame”. L’assoluzione sarà annullata dalla Cassazione, ma il contadino morirà prima di un secondo processo d’appello, il 22 febbraio 1997.
Giancarlo Lotti, detto “Katanga” è uno che è abituato a non tornare indietro, nemmeno quando sbaglia. Il fatto di non avere nemmeno la licenza elementare è uno dei motivi per cui deve elemosinare quotidianamente vitto e alloggio. Lotti non tornerà mai indietro sulle sue decisioni, nemmeno sulla testimonianza sui presunti “mostri” di Firenze.
All’inizio del 1996, mente Pacciani sta per essere assolto, lo Stato – di solito assente – arriva a casa di Lotti (cioè dal prete che lo ospita) gli offre un vero alloggio e uno stipendio. In cambio, Katanga deve fare una sola cosa: diventare il famoso testimone che ha sconfitto il “Mostro di Firenze”. Lotti conosce Pacciani. Sa che è una persona violenta. E poi è avaro: non gli ha mai dato un quattrino in vita sua. È così che Lotti, il quale non ha un soldo né per la benzina né per il vino, accetta e inizia a “cantare”.
C’è una ragione per cui Katanga è il testimone Beta e non Alfa: la sua testimonianza è successiva a quella del suo amico di “girate”, Fernando Pucci. Il testimone Alfa, Pucci, è l’origine della teoria accusatoria dei “compagni di merende”. Nel gennaio del 1996, Pucci aveva riferito alla squadra anti-Mostro guidata allora da Michele Giuttari che lui e il suo amico Lotti avevano visto Pacciani agli Scopeti, l’8 settembre 1985. Viaggiavano sull’auto (non assicurata) di Lotti. Si erano fermati alla piazzola dove erano i francesi per orinare, poi – racconta Pucci a processo – “si sentì uno, due spari, e s’andò a vedere che c’era”.Nel video girato al processo, le immagini successive al momento in cui Pucci racconta questa storia, si soffermano sul suo amico Katanga, in Aula, che alza la mano e dice: “Quelle cose, le ho raccontate io a Fernando”. La storia che Pucci ha appena raccontato è inventata: non era a Scopeti. E Pucci stesso conferma subito le parole dell’amico: “Sì, queste cose me le ha raccontate Lotti”. Ormai è chiaro a tutta la Corte che il certificato di oligofrenia (ovvero demenza) della Regione Toscana che Pucci aveva esibito prima di testimoniare gli era stato dato per un motivo.
L’ex procuratore Tony commenta la decisione di portare a processo Alfa e Beta così: “Lasciamo perdere Pucci, che – poveretto – aveva una malattia mentale. Rammento però che quando venne fuori il nome di Lotti, il prete che lo aveva in carico chiamò in Procura per avvertirci di non ascoltarlo”. Eppure sarà proprio lui, Beta, il pilastro (l’unico rimasto, dopo l’exploit di Alfa) della teoria dei cosiddetti “Compagni di merende”. Un gruppo composto dal contadino Pacciani, l’analfabeta Lotti e il postino Mario Vanni, detto Torsolo.
Osserva Tony che: “Né Torsolo, né Katanga sapevano sparare», e nessuno di loro aveva il fisico o la mente del serial killer. Nemmeno Pacciani”. Nessuno di loro, il 9 settembre 1983, con una damigiana di vino rosso sullo stomaco e un cuore infartato, sarebbe mai riuscito con un solo caricatore a colpire a morte i due giovani tedeschi Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch al buio, e attraverso le lamiere di un pullmino Volkswagen.
Conclude Tony che “Lotti ha sbagliato più volte a ricostruire le dinamiche degli omicidi Talvolta le sue menzogne sono odiosissime. Come quando sul delitto di Vicchio del 1984, nel quale persero la vita Pia Rontini e Claudio Stefanacci, racconta che la ragazza sia morta urlando e gemendo. Ma tutte le perizie dei medici legali dicono che Pia ha immediatamente perso conoscenza”.
Racconta Nino Filastò all’epoca avvocato di Mario Vanni: “È un dato storico il fatto che nel processo ai “Compagni di merende” non ci fu una sola prova di colpevolezza che suffragasse le testimonianze. Anzi. Semmai ci sono le prove scientifiche del contrario. Una di queste, fu trovata da un certo “De Gothia”. Dietro a questo nickname si nascondeva un brillante “mostrologo” che per anni si è dedicato allo studio dei delitti del Mostro, divulgando le proprie indagini in pubblicazioni semi-clandestine sul web. De Gothia demolisce la testimonianza di Lotti partendo da un’immagine scattata da Ennio Macconi, fotografo de La Nazione, il 22 giugno 1982, all’indomani del delitto “numero 4” del Mostro. La fotografia immortala l’auto delle vittime, sotto sequestro nel parcheggio dei Carabinieri di Signa, e dimostra scientificamente che Lotti ha semplicemente “copiato” la versione degli inquirenti. Ma non ha visto nulla”.
La Fiat 147 nella quale Paolo Mainardi e Antonella Migliorini furono uccisi nel 1982 era stata trovata dai soccorritori e dalle forze dell’ordine pochi minuti dopo il delitto, in un canaletto di scolo che fiancheggiava la strada, nella parte opposta a quella dove le vittime l’avevano parcheggiata. Lo sportello del guidatore era bloccato.
Gli inquirenti, la stampa e Lotti hanno sempre sostenuto che i “Compagni di merende” abbiano aggredito la coppia e, quindi, che Paolo, nel tentativo di fuggire, sia finito fuori strada in retromarcia con l’auto. Le cose non andarono così. De Gothia smonta puntualmente la ricostruzione ufficiale del delitto, sulla base della legge di gravità. Nella fotografia scattata da Macconi all’auto delle vittime appare nitidamente una colatura di sangue perpendicolare al terreno sulla parte inferiore dello sportello del guidatore, all’altezza della guarnizione. Il sangue è colato sulla carena mentre l’auto era in piano e lo sportello era aperto. L’auto però fu ritrovata in posizione obliqua e con lo sportello chiuso e bloccato. Siccome il sangue rapprende in sei lunghi minuti, le vittime non potevano che essere già ferite a morte quando il killer aveva richiuso la portiera dell’auto. Evidentemente, conclude De Gothia, era stato il “Mostro”, non Mainardi, a guidare l’auto fuori dalla piazzola, sbagliando manovra e finendo nel canaletto. Lanciare con rabbia le chiavi dell’auto e sprecare tre proiettili – come il “Mostro” fece uno per fanale e uno sul parabrezza, dopo un simile scivolone, era sicuramente più logico che farlo prima di avere ammazzato i due ragazzi.
Lotti ha mentito. Questa è una prova scientifica. Non opinabile come lo erano, a parere della Corte, le altre sei testimonianze di quella sera che contraddicono la versione del testimone Beta.
Stando alle parole di Lotti, lui e i suoi conoscenti si spostavano per le stradine del Mugello e del Chianti con un intero parco macchine, per pianificare e portare a termine i loro delitti. “Secondo Lotti, la sera del 19 giugno del 1982 avrebbero parcheggiato due automobili lungo il rettilineo di Via Virginio Nuova», racconta Francesco Cappelletti, scrittore e specialista del caso Mostro, «ma nessuno le ha viste. Come è possibile?”.
Via Virginio è una striscia d’asfalto che si snoda per chilometri nelle campagne del Chianti. Il punto dove fu ritrovata l’auto di Mainardi è al centro di un tratto lungo centinaia di metri e senza traverse, a parte una vicolo chiuso. Commenta Cappelletti: “Eppure furono ben cinque i testimoni oculari che, quella sera, non videro né “Compagni di merende””. Prosegue lo scrittore: “I testimoni procedevano sulle loro automobili in direzione opposta lungo il rettilineo. Notarono la Fiat 147 delle vittime prima e dopo che fosse finita nel canaletto, ma non i due veicoli citati da Lotti. L’intervallo delle testimonianze è di pochi minuti. Se nessuno di loro ha visto uno dei Compagni di merende, né ha mai incrociato una delle loro automobili, è perché Lotti ha mentito”.
A suffragare il fatto che Lotti abbia raccontato una grossa frottola, oltre alla forza di gravità e agli occhi dei cinque ragazzi che quella sera videro la scena del crimine prima e dopo lo “spostamento”, c’è un sesto testimone, Lorenzo Allegranti, il barelliere che quella notte soccorse le due vittime. Allegranti ha sempre sostenuto che il ragazzo agonizzante si trovasse sul sedile posteriore e non su quello anteriore dell’auto, dove invece avrebbe dovuto trovarsi, secondo il racconto di Lotti. La testimonianza di Allegranti fu ignorata dalla Corte. Contro il parere della Procura generale guidata da Piero Tony (cioè l’accusa), la sentenza definitiva del Tribunale di Firenze trasformò il serial killer delle coppie, solitario, freddo e calcolatore, che sfidava con successo la polizia, in una grottesca combinazione fra l’” anima nera”, colta e secolare di Firenze, e una combriccola di avventori della Taverna del Diavolo di Scandicci che uccideva su commissione di una corrente deviata di una loggia massonica.
Dal singolo assassino su cui tutta la scienza criminologica puntava (e punta) il dito, si era passati via via a una comunità di peccatori più grande, senza mai arrivare al colpevole. Non è un caso che l’unica verità processuale esistente – ad oggi – è che non esiste alcun colpevole materiale dei delitti addebitati al “Mostro di Firenze”.
Vanni e Lotti, complici del sospetto “Mostro” Pacciani, non vennero condannati per tutti i delitti. Per questa ragione, l’inchiesta non si è mai conclusa. Nel 2017, un esposto in Procura dell’avvocato di parte civile Vieri Adriani aveva portato gli investigatori guidati prima dal Pm Canessa e, poi, dal Procuratore Aggiunto di Firenze Luca Turco a mettere sott’occhio l’ex legionario Vigilanti e alcune sue amicizie.
Cappelletti elenca una serie di circostanze che portano a riflettere sugli errori di Carabinieri e polizia e sulla reale identità del serial killer: “L’ultimo delitto del Mostro è importantissimo per le indagini. Oltre ad essere l’ultimo delitto “ufficiale” del serial killer, è anche l’unico duplice omicidio in cui l’assassino ha nascosto le vittime, invece di ostentarle. Perché?”. Non è l’unica domanda che riguarda le anomalie del delitto degli Scopeti. “Nadine Mauriot era una donna sulla trentina, benestante. Jean-Michel un ragazzo più giovane di lei, che amava l’avventura e suonare la batteria. Quando arrivarono a Scopeti il 6 settembre 1985, decisero di piantare la tenda lì. Per quale motivo? Avevano incontrato qualcuno? Cosa avrebbero potuto visitare, lì?”. Le uniche due attrazioni accessibili velocemente usando l’automobile dalla piazzola dove i francesi avevano piantato la tenda erano il Cimitero monumentale americano e la casa dove Machiavelli scrisse il Principe. Per visitarle sarebbe bastato loro un giorno. Commenta Cappelletti: “Senza alcun motivo apparente Nadine e Jean-Michel, sono rimasti per ben tre giorni in una piazzola sporca, di fianco a una strada trafficata e distante svariati chilometri da Firenze. Perché?”. La risposta a questo quesito potrebbe essere la chiave della soluzione del caso.
Cappelletti nota che non fu trovato nessuno degli oggetti per la toilette delle vittime, nella tenda e nell’auto: commenta Cappelletti: “Dai verbali non risultano repertate né bottiglie d’acqua né cibo. Nessun dentifricio o spazzolino. Non avevano né sapone né deodorante”.
Che Nadine fosse una persona pulita lo dimostrano le sette mutandine che i Carabinieri elencano fra i suoi effetti personali. Più di una per ogni giorno del suo viaggio in Italia con Jean-Michel. Possibile che si fosse dimenticata il necessaire per lavarsi e non l’avesse comprato? A meno di una svista clamorosa dei Carabinieri (o di un segreto investigativo) il killer portò via ogni possibile elemento che potesse far risalire con certezza al giorno dell’omicidio. Spiega Cappelletti: “Collima con l’occultamento dei corpi delle vittime”.
A conferma dell’astuzia del “Mostro” c’è il fatto che nonostante sulla scena del crimine del 1985 per la prima volta fosse intervenuto uno specialista, il professor Francesco De Fazio, l’assassino riuscì effettivamente nell’intento di ingannare gli inquirenti (e il “testimone” Lotti). “Una recente inchiesta del giornalista Paolo Cochi, basata sulle osservazioni di esperti entomologici, ha dimostrato tramite lo studio delle larve di mosca carnaria fotografate sui cadaveri delle vittime a pochi giorni dal ritrovamento che la data dell’omicidio di Scopeti è quasi sicuramente sbagliata. Nadine e Jean-Michel non furono uccisi l’8 settembre – come sostenevano l’accusa e Lotti nel processo ai “Compagni di merende” – ma uno o addirittura due giorni prima”.
Conclude Cappelletti: “L’ipotesi è suffragata dagli scontrini ritrovati fra gli effetti personali dei francesi. Ne sono stati ritrovati molti, uno per ogni giorno del loro viaggio in Italia. I più recenti attestano la loro presenza la mattina del venerdì a Tirrenia, al ristorante La Terrazza, e poi a Pisa. Non è stato trovato alcuno scontrino risalente a sabato e a domenica”. Forse perché, la mattina di sabato 7 settembre, Nadine e Jean-Michel erano già morti.
Le bugie del testimone Beta sono arrivate a toccare il farmacista di San Casciano Francesco Calamandrei, che in quei giorni è sotto inchiesta come fantomatico “mandante” dei Compagni di merende. Cadranno tutte le accuse, ma l’assoluzione definitiva non farà molto rumore.
Vanni non ha mai parlato del “Mostro”, in un’aula di tribunale. Al processo, si era limitato a professare la propria innocenza e a mandare a quel paese i giudici e i Pm, appellandosi prima a Mussolini e poi a Gesù Cristo. Quando conversa con Nesi, l’ex impiegato delle Poste di San Casciano è già condannato in via definitiva. Non ha alcuna ragione per mentire. Parlando con il suo amico (il quale cerca di fargli ammettere che il “Mostro” è Pacciani) Vanni a un certo punto esplode con un: “Ma non è stato Pacciani!”. Torsolo difende con decisione il Vampa. Nesi è sorpreso. Poi al postino sfugge un’informazione che non si era mai sentita prima di allora. Dice: “È stato il nero, Ulisse, l’americano. È stato lui che li ha ammazzati tutti e 16, quella belva feroce”. Nesi è sconcertato: “Storie da grand’hotel”. Ma Vanni rincara: “È vero: veniva dall’America”.
Il pm Paolo Canessa dovrebbe fare un salto sulla sedia quando sente questa registrazione. La memoria degli inquirenti torna in un lampo al delitto di Calenzano del 22 ottobre 1981, a quei giorni in cui per la prima volta le cronache italiane sono contraddistinte dal vocabolo “serial killer”. Ricordano l’esclamazione di un anonimo detective: “Questa è un’americanata!”. Canessa chiede a Nesi di approfondire. Il postino non aggiunge nulla di più. Se ha accusato Ulisse, lo ha fatto perché non sapeva di essere intercettato. Quando al processo a Calamandrei l’accusa gli domanderà del misterioso americano, Vanni ripeterà la stessa storia, senza dire altro. All’indomani delle intercettazioni, la squadra di polizia capitanata da Michele Giuttari aveva interrogato una conoscente di Lotti, Patrizia Ghiribelli, e aveva ritenuto che l’americano di cui parlava Vanni fosse Mario Parker, uno stilista gay di colore residente in Via dei Giogoli a Villa “La Sfacciata”. “Lo chiamavano “Uly”” aveva raccontato la ben poco attendibile Ghiribelli.
Nel 2016 la Radford University ha calcolato che la maggior parte dei serial killer ha un’intelligenza sopra la media e che il 67,58 per cento di loro ha un passaporto statunitense[6]. È un fatto che il Mostro sia uno dei pochi serial killer che abbia preso di mira le coppie appartate, un caso raro, se non unico, in un Paese mediterraneo. E fu proprio questo il principale problema posto agli investigatori dai delitti del serial killer. Un’anomalia enorme, sottolinearono all’unisono i criminologi che si occuparono per primi del caso. L’antropologo Tullio Seppilli, intervistato poco dopo il secondo duplice omicidio, ascrisse il delitto a una matrice “anglosassone”. Notizie sui maniaci delle coppiette si incontrano scorrendo le cronache degli Stati Uniti e dei Paesi nordici europei. Non quelle italiane, a eccezione del “Mostro di Firenze”. Che cosa c’entra un “lovers’ lane killer” con Firenze? Vanni aveva raccontato qualcosa di inedito, ma coerente con l’anomalia riscontrata. Chi poteva essere “l’uomo del bosco” che si presentò a Pacciani come Ulisse?
Il mito racconta che l’eroe dell’Odissea di Omero, re dell’isola di Itaca, abbia portato le truppe greche alla vittoria contro la città di Troia grazie a un trucco. Con l’aiuto della dea Atena, lo “scaltro Odisseo” aveva ideato e fatto costruire – racconta Omero – un enorme cavallo di legno in onore dei nemici troiani. I greci avevano simulato una resa. Gli abitanti della città rallegrandosi dell’apparente vittoria, portarono all’interno delle mura il cavallo, non sapendo che nascondesse all’interno i soldati greci. Troia fu distrutta. Vinta la guerra – nel secondo volume dedicato alle sue gesta – l’eroe di Itaca affronta insieme ai suoi uomini un lungo viaggio costellato di disavventure per tornare in patria, perseguitato dall’ira di Poseidone, fratello di Zeus e dio degli abissi marini. Giunto a casa, Ulisse massacra i “proci” che insidiavano l’amata moglie Penelope. Finalmente la famiglia è riunita.
Non è spiegabile come l’opera di Omero possa essere entrata a far parte delle cronache dei “Compagni di merende”, se non perché l’episodio narrato da Vanni è vero. Quello che sconcerta del suo racconto, oltre al fatto che sia congruo con le prime impressioni degli investigatori e con le deduzioni dei criminologi, è che fra i nomignoli dei semi-analfabeti che componevano il gruppetto dei compagni di “girate” (e non solo di “merende”) di San Casciano – Vampa, Torsolo e Katanga – il nome di Ulisse spicca come un cuculo in un nido di passeri. Non può essere una loro invenzione.
Nella storia apparentemente sconclusionata di Vanni, Ulisse, dopo avere incontrato Pacciani nel bosco e avergli confessato di essere l’autentico serial killer di Firenze, avrebbe consegnato la pistola – la famosa Beretta – al «Procuratore che conta» e poi si sarebbe suicidato. Riascoltando le intercettazioni, le domande che negli anni si sono fatti gli inquirenti sono pressappoco le seguenti: perché Pacciani non aveva mai parlato di questa storia? Per paura? Di cosa? Se Ulisse era morto, perché nessuno aveva mai raccontato nulla agli inquirenti?
La verità è che in quel bosco di San Casciano, alla periferia di Firenze, il Vampa doveva essersi reso conto di avere fatto la conoscenza con l’uomo più terribile, folle e astuto che avesse mai incontrato nella sua esistenza. Un uomo che incarnava il “Male” con la maiuscola, secondo il contadino. Nessuno avrebbe mai creduto al Vampa, se avesse raccontato quella storia, a parte il suo amico Torsolo, a cui forse non disse tutta la verità. Quale poteva essere l’obiettivo di Pacciani? Se si pensa che per scagionare Pacciani sarebbe bastato un bossolo firmato dalla pistola del Mostro spedito alla Procura, è possibile ipotizzare che questo fosse l’obiettivo del contadino, chiedere aiuto a Ulisse in cambio del suo silenzio.
Sarebbe tutto filato liscio, per Ulisse, se alla fine il postino di San Casciano non avesse cantato e se non fosse stato individuato. Ma nemmeno l’americano – con la sua intelligenza – avrebbe potuto sapere quarant’anni fa che una legge del suo Governo avrebbe obbligato l’Fbi e gli uffici di polizia americani a rendere pubblici migliaia di documenti, pagine e pagine di investigazioni che risalivano fino ai suoi primi anni di attività negli anni Sessanta. Non poteva prevedere nemmeno l’avvento di Internet, grazie al quale quelle informazioni sarebbero state rese immediatamente disponibili a milioni di persone. Ulisse non poteva sapere che dagli inizi degli anni 2000, decine di siti web avrebbero iniziato a condividere documenti, a pubblicare verbali e atti processuali, come, per esempio, da anni fa il sito insufficienzadiprove.blogspot.com sul caso Mostro.
Ulisse se lo augurava, ma non poteva saperlo, che la sua fama sarebbe diventata mondiale e che il libro che nel 1986 rese celebre un quasi anonimo vignettista del San Francisco Chronicle, Robert Graysmith, sarebbe diventato vent’anni più tardi l’ispiratore di un film mondiale di successo. Una pellicola diretta dal Golden Globe David Fincher che avrebbe portato migliaia di persone ad appassionarsi ai suoi enigmi e a mettersi sulle sue tracce.
Del Killer dello Zodiaco – come è impropriamente chiamato in Italia – si possono dire molte cose, tranne che non avesse fatto l’inimmaginabile per la fama. A partire dal 1969, l’assassino seriale che aveva copiato la sua firma comprensiva di croce celtica da una marca di orologi per subacquei, la Zodiac, inviò un diluvio di lettere cupe e sarcastiche, terrorizzando gli abitanti della Bay Area di San Francisco con minacce e indovinelli sinistri pubblicati sulle gazzette locali. This is the Zodiac speaking (Qui è Zodiac che parla) si annuncia in tutte le sue lettere ufficiali, ad esclusione della prima e dell’ultima. Errori grammaticali facevano parte del suo stile letterario, sarcastico e cupo. “L’ho sempre detto che sono crack-proof” ironizzava il criminale nel 1971, quando nessuno era ancora riuscito a decifrare la sua identità. All’epoca, sosteneva di avere già ucciso 17 persone. Sicuramente aveva aggredito tre coppie di giovani, una ragazza e un tassista. Sei erano i morti accertati.
Quando tutto ebbe inizio, il 31 luglio 1969, ai giornalisti del San Francisco Chronicle, del San Francisco Examiner e del Vallejo Times Herald appariva poco credibile quell’assassino che nelle sue lettere minacciava di uccidere qualcuno se non gli avessero dato la prima pagina. Per provare di avere ucciso “la coppia di ragazzi al Lake Herman il 20 dicembre scorso e la ragazza al Golf Club a Vallejo il 4 luglio”, l’autore della lettera aveva riportato “alcune cose che solo io e la polizia sappiamo…”. Il killer pretendeva che i quotidiani pubblicassero anche un suo testo cifrato, altrimenti sarebbe andato «in giro a togliere di mezzo i vagabondi o le coppie appartate, poi proseguirò ammazzando altri, sino a quando non avrò ucciso una dozzina di persone
Alla fine, si dimostrò che l’autore delle lettere non mentiva sulle rivendicazioni. Era veramente l’autore dei due agguati alle coppie di teenager a Vallejo. Nelle tre parti di codice inviate ai tre quotidiani – decifrate da due insegnanti, i coniugi Donald e Bettye Harden – il killer sosteneva che fosse «molto divertente» uccidere essere umani e sosteneva che le sue vittime lo avrebbero servito in «paradiso». Gli ultimi 18 caratteri del testo non furono decifrati.
L’apice del confronto fra Zodiac e chi gli dava la caccia fu raggiunto l’11 ottobre del 1969, quando in una ricca zona residenziale in pieno centro di San Francisco, dopo avere ucciso con un colpo di pistola alla nuca il tassista Paul Stine, il killer si prese del tempo per tagliare la camicia della vittima e allontanarsi lentamente dalla scena del crimine, in Washington Street. Non passarono nemmeno due minuti. Un uomo con la corporatura robusta, lo stomaco prominente e una faccia sulla quale spiccavano occhiali a montatura spessa – una faccia che, in seguito, fu definita “normale” dai testimoni – venne fermato da una volante della polizia a sirene spiegate.
Un agente di polizia gli chiese se avesse visto una persona dall’apparenza sospetta, armata, correre da qualche parte negli ultimi cinque minuti. L’uomo rispose qualcosa come: “Certo, è andato di là”. Accadde quello che di norma si vede nei film: i poliziotti ringraziarono il serial killer per le indicazioni e si lanciarono all’inseguimento di un fantasma. L’uomo “normale” continuò a camminare lentamente, scomparendo nel parco della base militare del Presidio, “per non essere più visto”.
Per guadagnare la prima pagina, Zodiac si spinge ancora più in là, minacciando di far saltare uno scuolabus con una bomba. Poi, attorno al 20 dicembre, qualcuno che dice di essere Zodiac telefona a casa dell’avvocato Melvin Belli chiedendo di lui, ma non lo trova. Spiega l’assassino alla segretaria di Bell “Non posso aspettare oggi è il mio compleanno”. Alza il livello della sfida sino a invitare i “maiali” dell’Sfpd (il Dipartimento di Polizia di San Francisco) a decifrare i 13 simboli con cui era composto il suo nome. Le sue uniche “impronte digitali” lasciate sulla corrispondenza sono il suo sarcasmo, la sua perfidia, gli errori ortografici strani, come “cid” al posto di “kid” (bambino), e le parole in cui è contestuale la presenza del trattino e di una doppia consonante mancante (disap-eared, dif-icult, discon-ect).
Per trovare Zodiac, molte agenzie sono chiamate a collaborare al caso, vengono scandagliate le vite di centinaia di persone. Di concreto i detective hanno i suoi identikit, le sue lettere e, forse, alcune impronte parziali di palmi di mano. È molto probabile che Zodiac abbia trascorsi militari. I suoi messaggi cifrati? Eccetto il primo, non hanno trovato alcuna soluzione. Il killer non ha lasciato tracce o indizi sulle scene del crimine che possano portare alla sua identificazione, a parte le impronte parziali di una mano, di uno scarpone militare con suola lunga 30 cm. A Vallejo, San Francisco, sul Lake Berryessa, è stato visto. I testimoni oculari divergono solo sul colore dei capelli: castano quasi biondi, castano scuri, rossi. Viene descritto come un uomo sul metro e 72 centimetri, con un grosso stomaco. A San Francisco e soprattutto sul Lake Berryessa, dove ha agito in pieno giorno, però ci sono le testimonianze oculari. In entrambi gli identikit corrispondono, fatta eccezione per i capelli. A Napa lo descrivevano come una persona robusta, alto circa 1 metro e 80 centimetri, con un grosso stomaco e con i capelli scuri, con una riga sul lato sinistro.
Nel 1974, sulle tracce di Zodiac ci sono gli sceriffi di tre contee e i dipartimenti di polizia di due città, il Dipartimento di Giustizia, il giornalista del Chronicle Paul Avery e il vignettista Robert Graysmith. Zodiac ha ottenuto quello che vuole: la fama.
Nel 1971 il killer della Bay Area era già diventato “Scorpio”, in un film dell’ispettore Callaghan, Dirty Harry[7]. Hollywood già lo aveva ad archetipo del serial killer enigmatico. Scaltrezza, intelligenza e sangue freddo facevano in lui da contraltare alla vigliaccheria e alla malvagità dei suoi crimini. Era il “malvagio” perfetto.
Una personalità fitta di aculei velenosi, quella di Zodiac, che aveva mostrato poche sfumature di umanità: la passione per le sfide e per i libri, per esempio. Il suo ultimo “conteggio dei morti” si attesta a 37 vittime rivendicate. Nella primavera del 1974, manda ancora due lettere sarcastiche, firmate come anonimo “cittadino” e “amico”. È un super-ricercato. Sparisce. Non è morto. Non è in galera. Non si è pentito. Probabilmente ha cambiato nazione.
Quando la mattina del 15 settembre 1974, alle Fontanine di Rabatta, una piazzola a migliaia di chilometri di distanza dalla west coast americana, i Carabinieri si trovano di fronte ai corpi di Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore, nessuno sa ancora che l’autore del delitto è un serial killer. I fori della calibro 22 che l’uomo ha usato per esplodere i colpi sui teenager sono così piccoli da far pensare a un punteruolo. La ragazza, sopravvissuta ai proiettili, è stata uccisa con quattro coltellate. Il suo corpo, poi, è stato martoriato novanta volte con la punta della lama. La violenza usata nei suoi confronti è tale da far pensare in un primo momento a un delitto passionale. Poi però si scopre che, di quelle coltellate, la maggior parte sono superficiali. Non è ira. È in uno stato di psicosi acuta che il killer, dopo avere ucciso Stefania, l’ha spogliata, ha trafitto più volte il suo corpo con la lama e lo ha lasciato nudo sul prato, con le gambe divaricate e un tralcio di vite nella vagina. Il maniaco ha ripiegato i suoi vestiti, come se fossero gli abiti apparentemente ritirati in lavanderia quel giorno da Pasquale, e li ha lasciati a qualche metro di distanza dal corpo di Stefania.
Quel killer sette anni più tardi diventerà il “Mostro di Firenze”.
Dal 1981 il Mostro inizierà a mutilare il corpo delle ragazze. Non si sa se Zodiac, in quanto tale, abbia mai mutilato una vittima. Non si sa. È vero semmai che il Mostro abbia portato a compimento la minaccia che fece Zodiac, a Riverside, in una lettera del 29 novembre 1966 inviata al giornale locale e al capo della Polizia: “Taglierò le sue parti femminili e le lascerò per tutta la città”.
Infine Zodiac e il Mostro prediligono usare nei propri delitti scarponi militari. Niente di che, ma quando si scopre che la taglia delle impronte degli scarponi Wing Walker repertate sul Lake Beryessa, il 27 settembre 1969, e quella degli anonimi scarponi tecnici trovata a Calenzano, in Italia, dodici anni più tardi è quasi la stessa (44), si va ben oltre le analogie. Forse però nessuno avrebbe mai sospettato che il “Mostro” fosse qualcosa di più di un perfetto imitatore di un serial killer americano, se Ulisse fosse riuscito a resistere alla tentazione di comunicare a tutti che il “Mostro” è davvero lui, Zodiac.
Se fosse vera, la teoria dell’uomo in divisa con una “doppia personalità” giustificherebbe in parte come questo serial killer sia stato in grado di raggirare per mezzo secolo due intere nazioni. Da solo è riuscito a beffare gli sceriffi e i dipartimenti di polizia di mezza California, i Carabinieri, la polizia, la Procura di Firenze, i servizi segreti, la Cia, l’Nsa, l’Fbi, e –naturalmente – i suoi colleghi di lavoro e la sua famiglia. Personalmente ho dei dubbi.
Il coinvolgimento del militare americano nei delitti inerenti al cosiddetto “Mostro di Firenze” nasce bel maggio del 2018, quando il giornalista freelance Francesco Amicone pubblicò sulla rivista Tempi, fondata e diretta dal padre Luigi, una propria inchiesta tesa a dimostrare che il serial killer americano Zodiac e il Mostro di Firenze” fossero la stessa persona[8].
Ma la “pista americana “non è andata avanti, in procura a Firenze. Ed è invece arrivata alla conclusione quella per diffamazione a carico del giornalista, che è stato querelato da Bevilacqua (assistito dall’avvocato Elena Benucci) per i contenuti di una trentina di articoli scritti direttamente da Amicone o redatti riportando le sue tesi, pubblicati fino al maggio del 2021.
C’è da chiedersi se questa storia (molto cinematografica) che farebbe coincidere il serial killer Zodiac con il “Mostro di Firenze” sia l’ennesimo depistaggio (fatto da un esperto di guerra psicologica che mette assieme verità e menzogne utilizzando persone inconsapevoli).
Questa pista rimuove il fatto che il 3 agosto 1993 in Via Sant’Agostino 3 a Firenze, il proprietario dell’immobile, il marchese Bernardo Lotteringhi Della Stufa, era appena tornato in possesso dei locali che il padre, morto da poco, aveva concesso in uso ad una persona a cui era molto legato: Federigo Mannucci Benincasa, un colonello dei carabinieri che per oltre vent’anni è stato capocentro del SISMI (servizi segreti militari) a Firenze. Mentre con un falegname, stilava l’elenco dei lavori da fare per ammodernare un monolocale posto esattamente sotto l’alloggio dato a Federigo Mannucci, il marchese incuriosito per degli scatoloni pesantissimi infilati nel ripostiglio. Dentro, avvolti nella carta di giornali datati tra gli anni Cinquanta e Ottanta, c’erano munizioni e armi ben oliate, un vero e proprio arsenale.
Oltre alle armi e alle munizioni trovate negli scatoloni, furono rivenuti due barattoli di latta con un buco al centro del coperchio. Contenitori identici erano stati fatti trovare in una valigia sul treno Taranto-Milano, in quella che era stata definita l’operazione “Terrore sui treni” che sarebbe dovuta servire a costruire unna falsa pista investigativa per non arrivare ai colpevoli della strage del 1980.
Nella valigia c’era anche un mitragliatore Mab. Il pentito della banda della Magliana Maurizio Abbatino, dopo il suo arresto a Caracas nel gennaio 1992, riferirà che un’arma di quel tipo era stata consegnata a Massimo Carminati e questi non l’ha più restituita. E pure nel deposito della banda, c’erano gli stessi barattoli da conserva con il buco sul tappo per farci passare la miccia. Nella sentenza Cavallini, si raffigura la figura di Federigo Mannucci Benincasa e del suo ruolo depistante e assai oscuro che tenne nel corso delle indagini inerenti alla strage di Bologna.
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Analizzando la lista del sequestro delle armi del 1993, i carabinieri si sono accorti che negli scatoloni nel ripristino c’era anche una scatola con dentro 25 colpi di proiettili Winchester serie H, stesso modello e calibro (il 22) di quelli usati negli otto duplici omicidi avvenuti nella campagna toscana tra il 1968 e il 1985.
E’ anche vero, però, che proiettili di quel genere era possibile trovarli in uso a diversi personaggi, militari, frequentatori di poligoni di tiro anche della zona. Come, d’altronde, potevano essere corrispondenti quelli che vennero ritrovati a casa di Giampiero Vigilanti a Prato. Vigilanti, già appartenente alla Legione Straniera francese, che è stato uno dei vari sospettati del compimento degli omicidi.
Gli ultimi tre duplici delitti del “Mostro” avvennero nel 1983 nella frazione di Galluzzo appena fuori Firenze, nel 1984 alla Boschetta di Vicchio di Mugello e nel 1985 a Scopeti di San Casciano Val di Pesa. Qualcuno lega a questi omicidi anche quello della coppia uccisa nel 1984 nella Valle del Serchio a Sant’Alessio vicino Lucca. Ma non è questa la sede per ripercorrere le migliaia di dettagli che compongono la vicenda del “Mostro” e le sue ingarbugliate diramazioni e teorie, ci limiteremo per questo a toccare solo gli elementi più inerenti la nostra ricerca. E non ci dipaneremo neanche nelle decine di assassinii avvenuti a Firenze fino ancora a pochi anni fa, molti dei quali considerati come “morti collaterali” del caso del Mostro.
Alcuni dei delitti attribuiti al cosiddetto “Mostro di Firenze” avvennero nelle adiacenze di grandi e chiacchierate ville nobiliari. Secondo testimonianze ed ipotesi di indagine, indicibili festini a sfondo esoterico, sacrificale, sessuale pare si svolgessero in queste tenute alla presenza di personaggi aristocratici e borghesi ed in conseguenza di ciò avvenivano quindi i duplici delitti nella campagna fiorentina. La zona incriminata era quella della Val di Pesa dove, soprattutto a San Casciano, si incrociano vari personaggi legati ai fatti. Per alcune tesi investigative entrano in scena medici, farmacisti, nobili, come mandanti degli omicidi mentre un fitto sottobosco di guardoni rientrerebbero nella vicenda come autori materiali.
Secondo alcune ipotesi di indagine, almeno un paio di rampolli di queste famiglie furono considerati esser compromessi negli omicidi seriali. Uno dei segni che contraddistingueva i delitti del cosiddetto “Mostro di Firenze” era il furto di feticci, parti dei corpi femminili asportati in alcuni delitti e mai più ritrovati, considerati materiale imprescindibile per poter svolgere i rituali di queste cerimonie mascherate da ricevimenti di gala. Alcune voci davano questi feticci conservati, a seconda delle diverse memorie delle comparse testimoniali, in due location differenti, entrambi però riconducibili ad un medico appartenente ad una nota famiglia perugina, Francesco Narducci.
I pedinamenti effettuati, non si sa a quale titolo essendo appartenente ad un’altra unità territoriale, dal Capo della Squadra Mobile di Perugia Luigi Napoleoni nei confronti del medico portarono ad un appartamento in via dei Serragli a Firenze. Immobile, tra l’altro, ubicato a meno di cinque minuti a piedi dal covo Sismi di via Sant’Agostino ed inoltre, secondo alcune voci, location di una violenza sessuale commessa da un certo Paolo Poli. Collega di Napoleoni sulle indagini sul medico perugino fu Emanuele Petri, Sovrintendente di Polizia che nel 2003 fu poi ucciso sul treno Roma – Firenze all’altezza di Castiglion Fiorentino durante uno scontro a fuoco con le BR PCC, le stesse che uccisero Massimo D’Antona e Marco Biagi in precedenza. L’altro luogo dove risulterebbero esser stati visti i feticci umani conservati nella formaldeide, sarebbe una vecchia casa colonica nei dintorni di Sambuca Val Di Pesa. Proprio nella zona dove il suocero del dottor Narducci, Gianni Spagnoli, possedeva una azienda dolciaria. La famiglia Spagnoli oltre la fabbrica di caramelle “Fruttosello” in Val di Pesa era anche titolare di un impero finanziario del quale erano parte integrante la ben più nota fabbrica di cioccolata “Perugina”, la casa di moda “Luisa Spagnoli”, il parco divertimenti per ragazzi “Città della Domenica”, il “Perugia calcio” senza tralasciare gli stretti collegamenti parentali con l’azienda alimentare “Buitoni”.
Francesco Narducci pare frequentasse la Val di Pesa sia per le numerose amicizie che aveva nei dintorni, nate magari durante i mesi trascorsi a Firenze nel 1974 come militare di leva prima di esser riformato, sia anche per far visita all’azienda appena citata appartenente alla famiglia della moglie. A San Casciano sembra che uno dei suoi migliori amici fosse il patrizio don Roberto Corsini, il latifondista ucciso nel 1984, secondo la versione acclarata, dal figlio del suo fattore dopo esser stato scambiato per un bracconiere dal Conte stesso. Secondo alcune opinioni diffuse, proprio il nobiluomo era invischiato nella serie di omicidi delle coppiette. Delitti che cessano definitivamente l’anno dopo la sua morte ed un mese prima di quella del medico Narducci avvenuta nel 1985, ufficialmente annegato al largo del lago Trasimeno nel triangolo tra Sant’Arcangelo, l’isola Polvese e San Feliciano dove la sua famiglia era proprietaria di una villa. Sono numerose le versioni che ritengono il ritrovamento del corpo del medico perugino un falso storico dedito a nascondere i veri motivi del decesso, considerando questo scambiato con quello di uno sconosciuto, presumibilmente di un messicano senza famiglia conservato a Perugia in attesa di esser sbloccato burocraticamente dalla Procura. L’autopsia effettuata anni dopo, sul vero corpo di Narducci tumulato poi in seguito ed in gran segreto, confermerebbe le supposizioni addotte. Particolare lo scherzo del destino che si riversò sui due cognati pescatori che avvistarono il corpo e sul Poliziotto Provinciale delle Acque che ritrovò la piccola imbarcazione del dottore sull’isola Polvese, tutti e tre infatti morirono annegati nelle stesse acque a distanza di anni uno dall’altro. Secondo molti il medico di Perugia sarebbe l’autore o comunque un componente del gruppo che uccideva e praticava le escissioni sui corpi dei delitti del Mostro e, data la sua appartenenza ad una potente e conosciuta famiglia perugina, ad un certo punto fu ucciso egli stesso forse per porre fine allo scempio ed evitare lo scoppio di un grosso scandalo che avrebbe colpito anche varie istituzioni. Perugia era ed è una delle sedi massoniche più influenti in Italia.
Augusto De Megni, Maestro Venerabile, al quale l’Anonima sarda rapì l’omonimo nipote nel 1990. De Megni era collega di Loggia di Ugo Narducci, padre del dottor Francesco.
Un ipotesi sostiene, che il padre del dottore insieme al consuocero Spagnoli e con l’aiuto del Gran Maestro avvocato e di altri Fratelli della “Perugia bene” presero la triste decisione di eliminare il medico e provare a depistare la sua morte ma soprattutto ad insabbiare il ruolo che questi teneva nel gruppo degli assassini seriali.
In questo gruppo che in realtà sarebbe stato una vera e propria confraternita della quale, secondo una diramazione di questa tesi, sarebbero stati membri anche Angelo Izzo e Gianni Guido “i massacratori del Circeo”, Andrea Ghira arruolatosi poi nella Legione Straniera facendo perdere le sue tracce, il già citato Serafino Di Luia l’esponente di Avanguardia Nazionale implicato in alcuni attentati sui treni e presente a Fiumicino il giorno dell’attentato del 1973, Gianluigi Esposito personaggio a metà tra la malavita e l’eversione, celebre per la sua fuga dal carcere di Rebibbia in elicottero e che nel 2006 morì proprio a Firenze dove si nascondeva sotto falso nome.
Angelo Izzo accusò egli stesso e la sua confraternita di aver rapito Rossella Corazzin, scomparsa nel 1975 dalla Valle di Cadore in Veneto e mai più ritrovata, ed averla sacrificata ed uccisa proprio nella villa di Francesco Narducci sul lago Trasimeno.
[1] La notte del 22 ottobre 1981, Susanna Cambi e Stefano Bandi, furono uccisi da un colpo di pistola calibro 22.
[2] https://www.mostrodifirenze.com/1981/06/11/enzo-spalletti/
[3] uno dei testimoni al processo, dirà di averlo scambiato per il dio Bacco, mentre serviva vino a una festa dell’Unità degli anni Ottanta.
[4] https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/26994266/mostro-di-firenze-pista-porta-cimitero-usa-clamorosa-svolta-chi-killer.html
[5] https://ostellovolante.com/2018/05/23/mostro-di-firenze-zodiac/.
[6] C.s.
[7] Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry) è un film del 1971 diretto da Don Siegel. È il primo capitolo della serie dedicata all’ispettore della polizia di San Francisco Harry Callaghan, interpretato da Clint Eastwood. Il film è considerato una pietra miliare del poliziesco ed è liberamente tratto dalla vicenda del serial killer Zodiac. https://it.wikipedia.org/wiki/Ispettore_Callaghan:_il_caso_Scorpio_%C3%A8_tuo!
[8] https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/zodiac-inchiesta-1.7392777
ZODIAC IL SERIAL KILLER AMERICANO E IL COSIDDETTO MOSTRO DI FIRENZE SONO LA STESSA PERSONA?
30 cm di piede in U.S. corrispondono alla taglia 46 italiana.
Nella scena del crimine del mdf in italia è stata rinvenuta una traccia di scarponi marca francese taglia 44 e in questo articolo si dice che la taglia sia “quasi la stessa”. Sono due taglie di differenza
Salve, non è un nostro articolo, lo riportiamo per dovere di cronaca, infondo c’è il link all’articolo originale, posti li il suo commento.