Il mostro di Firenze. Un mistero lungo 55 anni. Foto e Dna: caccia a nuove tracce
Stefano Brogioni
Il 21 agosto del 1968 a Signa il primo delitto che è ancora un enigma: vennero trucidati due amanti
Firenze, 21 agosto 2023 – Un rompicapo che dura da 55 anni, a cui neanche tre processi, svariati filoni d’indagine e in ultimo perfino una commissione parlamentare d’inchiesta ispirata dal massacratore del Circeo Angelo Izzo hanno scritto la soluzione definitiva. Il mostro di Firenze, dopo più di mezzo secolo, è un cold case che fa ancora attorcigliare le menti.
Un caso di un killer – o forse un gruppo – ma anche la storia di sedici giovani freddati in un momento d’intimità. Era il 21 agosto del 1968, a Signa, quando la pistola del mostro – una calibro 22, probabilmente Beretta, mai ritrovata – uccise Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Erano amanti: dopo una serata al cinema, si erano appartati in una Giulietta; il figlioletto di lei, Natalino, dormiva sul sedile posteriore quando addosso alla coppia vennero scaricati gli ormai celeberrimi proiettili Winchester serie H, la firma dell’assassino. Sarà condannato il marito tradito della Locci, Stefano Mele, ma quello del 1968, compreso il collegamento di Signa alla serie dei delitti (avvenuto nel 1982, con la nascita della “pista sarda”), è uno degli enigmi nell’enigma.
Durerà diciassette anni, la striscia di sangue. Ma con intervalli ancora oggi incomprensibili. Rabatta, nel 1974. Due volte nel 1981, a giugno a Scandicci e a ottobre a Calenzano. Baccaiano l’anno successivo, Giogoli nel 1983. Di nuovo Mugello, nel 1984 e infine San Casciano, nell’ultimo delitto del 1985. Dopo aver ucciso i francesi Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili, che dormivano in una tenda in una radura in località Scopeti, all’unica pm donna che gli aveva dato la caccia, Silvia Della Monica, il mostro invierà un pezzo della pelle del seno della vittima: le escissioni delle parti femminili erano un’altra caratteristica, ancora da spiegare, del maniaco.
La pista dei mandanti della setta satanica è rimasta nel limbo. Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale, è stato condannato, poi assolto in appello, e morì prima di un nuovo processo ordinato dalla Cassazione.
Sono stati condannati i suoi complici, i ’compagni di merende’ Mario Vanni e Giancarlo Lotti, però soltanto per gli ultimi quattro duplici omicidi. Nessuno ha mai prelevato il loro Dna.
Oggi, pende la richiesta di riapertura delle indagini nei confronti del legionario di Prato Giampiero Vigilanti (quasi 93 anni) e una perizia ha stabilito che la cartuccia trovata nell’orto di Pacciani era stata manomessa per farla associare alla Beretta del mostro. Nel 2023, con due donne al timone – le pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti – si riparte proprio dalla caccia al Dna. Verranno ricercati reperti dei vecchi delitti che potrebbero conservare tracce del mostro. Finora, un Dna ignoto è stato isolato sulla tasca di un pantalone appartenuto a Kraveichvili.
Le figlie di Nadine Mauriot hanno pregato il loro avvocato, Vieri Adriani, affinché ottenga la restituzione della macchina fotografica Nikon con 17 fotografie scattate, che era nella tenda della coppia. Potrebbe contenere indizi utili alla ricostruzione degli ultimi giorni in Toscana dei fidanzati, oppure soltanto un ricordo da restituire a chi ha perso la madre da bambina. Una bambina, o poco più, era anche Pia Rontini, la vittima più giovane della calibro 22: aveva 18 anni quando con il fidanzato Claudio Stefanacci venne trucidata alla Boschetta, appena fuori dal suo paese, Vicchio.
Nei giorni scorsi, i ricordi di Pia sono spuntati all’improvviso da un baule di un garage vicino alla casa dove abitava. Erano lì perché suo padre Renzo, che andò in rovina per cercare l’assassino di sua figlia, gli aveva affidati a un amico quando vendetta la sua casa. Nella scatola c’erano abiti della ragazza e anche alcuni suoi quaderni, scritti in danese, la lingua di sua madre. Chissà.