Il Mostro di Firenze: 55 anni fa l’inizio dell’orrore
Il delitto del 1968 – considerato il primo di una lunga scia di sangue – ha in comune con tutti gli altri solamente una cosa: la pistola utilizzata, una calibro 22, e i proiettili provenienti dallo stesso lotto. Ed è in questo dettaglio che, forse, si nasconde la risoluzione del caso
Gianluca Zanella
Era la notte 21 agosto del 1968. Vicino al cimitero di Signa, nei pressi di Firenze, otto colpi di pistola rompono il silenzio delle colline avvolte dal buio e consegnano alla storia della cronaca nera italiana quello che – dopo 55 anni – viene considerato il primo omicidio del Mostro di Firenze.
Non tutti sanno che però l’attribuzione di questo delitto al cosiddetto Mostro sarebbe avvenuta molti anni più tardi, nel 1982. Un’attribuzione che si basa su un elemento più solido che mai: l’arma del delitto.
In una vicenda quanto mai torbida, costellata da indagini lunghe che si sono inerpicate su piste spesso prive di sbocchi, tra “compagni di merende”, sette sataniche, massoneria e filoni che si spingono in Umbria e addirittura in Sicilia e nel Cadore [il riferimento è all’omicidio del medico perugino Francesco Narducci, avvenuto nel 1985, allo strano suicidio di Elisabetta Ciabani, studentessa fiorentina morta a Baia Saracena nel 1982, e alla scomparsa, nel 1975, di Rossella Corazzin, ndr], un ruolo di primo piano l’hanno avuto personaggi che, nell’anonimato, hanno cercato di indirizzare le indagini.
Una pistola, sedici omicidi
È esattamente quanto avvenuto nel 1982: poco dopo l’assassinio di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, una lettera anonima giunge ai carabinieri. In questa lettera si suggerisce di rispolverare gli atti di un delitto di quattordici anni prima. Un delitto risolto. Quello, appunto, di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci. Risolto perché in carcere c’è finito il marito della Locci, Stefano Mele, condannato a 14 anni di carcere e – negli anni Ottanta – rinchiuso in un convento a Verona, incapace di camminare e in uno stato psichico fortemente debilitato.
I carabinieri indagano. E scoprono che l’anonimo suggeritore è molto ben informato. L’arma di quel delitto è la stessa utilizzata dal Mostro di Firenze. La stessa pistola che nella notte del 21 agosto 1968 uccise Lo Bianco e Locci – una calibro 22, probabilmente una Beretta, mai ritrovata –, ha fatto fuoco il 14 settembre 1974, il 6 giugno 1981, il 22 ottobre 1981, il 19 giugno 1982, il 9 settembre 1983, il 29 luglio 1984, l’8 settembre 1985.
Quattordici vittime. Sette coppie sorprese in luoghi appartati, in cerca di una parentesi di intimità all’interno della propria automobile che si è trasformata nella loro tomba. Ragazzi e ragazze con una vita davanti, sogni, speranze, desideri troncati dai proiettili di una calibro 22 – proiettili modello Winchester “H”, rivestiti in rame – con un piccolo difetto sul percussore, che ha lasciato un segno caratteristico su tutti i bossoli ritrovati sulle scene del crimine.
Peccato che – eccezione fatta per la pistola – tra il delitto del 1968 e i successivi non vi sia alcun punto di contatto. Nessuna traccia di quei “rituali” che caratterizzano in modo marcato le scene del crimine dal 1974 in poi. Poco importa. La pista è interessante e gli investigatori decidono di percorrerla fino in fondo. O quasi.
Una pista insanguinata
Nasce in questo momento quella che viene chiamata “la pista sarda”. Una pista che si chiuderà definitivamente nel 1989, salvo essere rispolverata nei primi anni Duemila in un libro che causerà non pochi problemi ai suoi due autori. Ci arriviamo.
Scavando nel passato, i carabinieri ricostruiscono le prime indagini seguite all’assassinio del 1968, avvenuto – orrore che si aggiunge all’orrore – alla presenza del piccolo Natalino Mele, sei anni, figlio di Stefano e Barbara Locci, addormentato sui sedili posteriori dell’automobile al momento dell’omicidio e rimasto illeso.
Il padre del bambino – sin da subito il sospettato numero uno – torchiato dagli inquirenti accusa due suoi conoscenti. Due fratelli, entrambi a loro volta amanti della moglie e inseriti in un contesto di piccola ma feroce criminalità locale: Salvatore e Francesco Vinci.
Sembrerebbe una storia maturata all’interno di un contesto molto chiuso com’era quello degli emigrati sardi in Toscana. Una storia di tradimenti, gelosie, vendette. Sebbene i due fratelli accusati siano poi stati scagionati dalla ritrattazione del conterraneo Stefano Mele, entrambi tornano nuovamente sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori che adesso non si stanno più occupando di una storia di corna, ma dei delitti seriali più sconvolgenti della storia d’Italia.
Si scava nel passato dei due e da quello di Salvatore, il maggiore, emerge un fatto inquietante. È il 1960, siamo a Villacidro, in Sardegna. La moglie di Salvatore, Barbarina Steri, nonché madre di suo figlio Antonio, di appena un anno, muore. Ufficialmente si tratta di un suicidio. La donna si sarebbe asfissiata con il gas all’interno della sua camera da letto. Gli ematomi e le ecchimosi presenti sul corpo non destano sospetto.
Poco dopo la disgrazia, Salvatore si trasferisce in Toscana, dove verrà raggiunto quattro anni dopo da suo figlio, nel frattempo cresciuto con alcune zie. La sua e quella del fratello Francesco è una storia fatta di violenze. Sul percorso della famiglia Vinci inciamperanno anche altre due donne dal destino crudele: Milva Malatesta e Milvia Mattei. La prima, amante di Francesco Vinci tra il 1982 e il 1983, verrà trovata carbonizzata insieme al figlio di tre anni all’interno di un’automobile il 20 agosto del 1993; la seconda, una prostituta coinquilina di Marinella Tudori, compagna di Fabio Vinci, figlio di Francesco, deceduto nel 2002, viene strangolata all’interno della sua abitazione da mani rimaste ignote.
Tanto Salvatore, quanto Francesco – e per un breve periodo anche il giovanissimo Antonio – finiranno nel gorgo della vicenda del Mostro di Firenze. I primi due ne usciranno perché, mentre sono reclusi in carcere con l’accusa di essere gli autori dei delitti, il mostro colpisce, scagionandoli di fatto e, come detto, la “pista sarda” si esaurisce nel 1989. A questo punto si apre il filone della setta satanica e a prendersi la scena, suo malgrado, arriva il mostro perfetto: Pietro Pacciani.
Resta insoluto, dunque, l’enigma della pistola calibro 22.
Un libro dimenticato e un’indagine scomoda
Già all’epoca delle indagini sul delitto del 1968, tuttavia, gli inquirenti ritenevano improbabile che Stefano Mele potesse aver fatto tutto da solo, men che meno che potesse essersi procurato una pistola. Veniva ritenuto probabile che qualcuno gliel’avesse fornita. Quel qualcuno, una volta commesso il delitto, invece di distruggere un’arma “sporca” l’aveva conservata evidentemente ben nascosta. Fin quando non era tornata a fare fuoco, stavolta in un contesto ben diverso.
Parte da qui, nei primi anni Duemila, l’indagine giornalistica di Mario Spezi, cronista de La Nazione, oggi deceduto, e Douglas Preston, autore americano di thriller di successo. I due iniziano a ragionare sul percorso di questa pistola e, inevitabilmente, tornano a immergersi in quella pista sarda accantonata dagli inquirenti.
Il risultato di questo lavoro di squadra si concretizza in un libro oggi introvabile, Dolci colline di sangue, edito negli Stati Uniti con il titolo The Monster of Florence. La vicenda collegata a questo libro è a sua volta una storia incredibile: Mario Spezi, infatti, viene arrestato su mandato della procura di Perugia, accusato di concorso esterno per l’omicidio di Francesco Narducci. Se in Italia la vicenda è passata pressoché sotto silenzio – fatta eccezione per alcuni giornalisti coraggiosi come Edoardo Montolli – in America e in Europa ha avuto un’ampia eco che ha consentito a Spezi di lasciare le patrie galere dopo tre settimane di reclusione, fino a uscire definitivamente dalla vicenda poco tempo dopo.
Secondo Douglas Preston, che di quella vicenda conserva un ricordo vivido, la “persecuzione” verso lui e Mario Spezi sarebbe scaturita dai risultati della loro inchiesta. Viene allora spontaneo chiedersi: cosa hanno scoperto?
La pistola rubata
Molto semplicemente, i due – partendo dalla pistola calibro 22 – sono tornati a concentrarsi sulla storia familiare dei Vinci, ipotizzando che se nel 1968 Stefano Mele aveva fatto il nome di Salvatore e Francesco, non era poi così assurdo ritenere che la pistola gliel’avessero fornita loro. Allargando lo spettro delle loro ricerche, si soffermano anche sul figlio di Salvatore, quell’Antonio Vinci che nel libro Dolci colline di sangue viene chiamato “Carlo”.
I due autori scoprono un particolare inquietante. Un evento che coinvolge un giovanissimo Antonio. Siamo nell’aprile del 1974. Salvatore Vinci si reca in un commissariato di polizia a Rifredi per denunciare suo figlio, il quattordicenne Antonio, che ormai da un anno è scappato di casa. Il ragazzo, secondo la denuncia di suo padre, sarebbe entrato in casa forzando la serratura e avrebbe rubato qualcosa. Quando i poliziotti chiedono a Salvatore che cosa gli sia stato sottratto, l’uomo dice di non saperlo. Meno di quattro mesi dopo, a settembre, la pistola calibro 22 che secondo i due autori era stata rubata in casa di Salvatore Vinci uccide Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, le prime vittime del Mostro di Firenze.
Tante coincidenze, nessuna prova
Mario Spezi e Douglas Preston – che nel 2003 faranno il nome di Antonio Vinci come possibile autore dei delitti su M-rivista del mistero, testata diretta da Andrea Carlo Cappi – cercano di dare un senso anche a quel lungo spazio temporale che separa il delitto del 1974 da quello del 6 giugno 1981, che segnerà l’inizio di un’escalation terminata quattro anni dopo. I due segnalano che “Carlo”, alias Antonio, nel 1974 sia rientrato a Villacidro e lì sia rimasto fino al 1980, quando fa ritorno in Toscana e va a vivere a casa di suo zio, Francesco, che il 7 agosto del 1993 viene ritrovato evirato e incaprettato insieme a un altro sardo, tale Angelo Vargiu, nel bagagliaio di un’automobile data alle fiamme.
Secondo gli autori dell’inchiesta, il profilo di Antonio Vinci era quanto di più vicino a quello tratteggiato dai profiler dell’FBI che nel 1989 – su richiesta della polizia italiana – studiarono il caso: un serial killer solitario, maniacale, organizzato, di intelligenza media o superiore alla media, con alle spalle un grosso trauma. Ma se le coincidenze sono tante e suggestive, è lo stesso Douglas Preston che ci tiene a precisare “non c’è nessuna prova che Antonio Vinci sia il mostro di Firenze”.
“Non scorderò mai quando lo andammo a intervistare – ci racconta -, Mario [Spezi, ndr] alla fine gli chiese “è lei il Mostro di Firenze?”. La risposta fu agghiacciante”.
E se è corretto quanto contenuto nel libro “The Monster of Florence” [nella versione italiana questo episodio non viene inserito, ndr], la risposta sarebbe consistita in un “a me le donne piacciono vive”.
Non ci risulta che il signor Antonio Vinci abbia mai querelato Mario Spezi e Douglas Preston per le loro teorie, ma nonostante questo avremmo voluto offrirgli la possibilità di replicare, sebbene a distanza di tanti anni. Non siamo stati in grado – ad oggi – di rintracciarlo. Secondo il sito internet “Mostro di Firenze – un caso ancora aperto”, una sorta di archivio in cui viene raccolta buona parte del materiale relativo alla vicenda, il Vinci risiede attualmente a Firenze e svolgerebbe la professione di camionista.
Sarà nostra cura – se possibile e se lui lo vorrà – dare spazio a ciò che avrà da dire.