Mostro di Firenze, il Dna sul proiettile può essere dell’assassino?
A ormai mezzo secolo dagli orrendi delitti del mostro di Firenze, a sorpresa un nuovo capitolo nelle indagini per risalire all’identità del maniaco omicida: un Dna misterioso sul proiettile. Possibile?
Di Ruggero Pettinelli
In questi giorni è stata ripresa da molti organi di informazione la notizia di una clamorosa scoperta nell’ormai pluridecennale vicenda del mostro di Firenze, il serial killer che compì omicidi ed efferatezze intorno al capoluogo toscano tra la fine degli anni Sessanta e il 1985. La novità consisterebbe nel fatto che Lorenzo Iovino, esperto ematologo, in qualità di consulente tecnico di uno dei legali dei parenti di due delle ultime vittime, sarebbe riuscito a isolare un Dna nuovo su uno dei proiettili sparati dall’arma dell’assassino e scoperto, anni dopo il delitto, incluso in un cuscino della tenda dove si trovavano due delle vittime del maniaco. La sequenza di Dna rilevata dal consulente si ritroverebbe anche, parzialmente, su altri due proiettili repertati in altri due duplici omicidi del mostro e sarebbe differente rispetto ai Dna delle vittime e anche rispetto al Dna di uno dei periti balistici che avevano a suo tempo maneggiato i reperti.
“Il Dna dell’assassino potrebbe essere rimasto impresso mentre incamerava i proiettili”, ha dichiarato Iovino alla stampa, e il legale per conto del quale ha effettuato l’esame sarebbe pronto a chiedere l’esumazione di Stefania Pettini, uccisa sempre dal mostro di Firenze nel 1974 e che, secondo la consulenza del medico legale, potrebbe aver lottato con il suo assassino, trattenendo magari (questo è l’auspicio) lembi di pelle dell’assassino sotto le unghie.
Possibile?
La domanda da porsi in questo specifico frangente è se sia possibile che una traccia biologica dell’assassino venga “depositata” sul proiettile e possa quindi essere rinvenuta dopo l’impatto (su un corpo o su oggetti), ancora sufficientemente integra e “leggibile” per consentire una profilazione Dna utile alle indagini.
In linea di principio tutto è possibile a questo mondo, occorre tuttavia sottolineare che, tecnicamente, quanto auspicato e suggerito dal legale di parte civile e dal suo consulente è molto improbabile. Nella fase di estrazione delle cartucce dalla loro confezione e nella fase di inserimento delle cartucce nel caricatore dell’arma (una Beretta serie 70, a quanto si tramanda), ovviamente c’è di sicuro una manipolazione delle cartucce stesse con le dita e, quindi, in astratto potrebbe essere depositata una impronta digitale sul proiettile, magari anche qualche minutissimo frammento di epidermide. Tutto ciò premesso, occorre ricordare che in particolare i proiettili delle cartucce calibro .22 long rifle di cui si parla, nella maggior parte dei casi prevedono sulla superficie del proiettile un film lubrificante, destinato ad agevolare l’alimentazione in camera e diminuire l’attrito nella canna, che si può in gran parte disperdere già durante il tragitto del proiettile lungo la canna, sia per l’attrito contro le pareti interne della canna (ma l’ogiva vera e propria del proiettile non tocca le pareti), sia a causa del riscaldamento dovuto sempre all’attrito in canna. Gran parte del restante lubrificante viene normalmente rimosso (così come eventuali impronte digitali) per azione meccanica all’impatto contro gli abiti, l’epidermide e i tessuti biologici della vittima o all’impatto contro le altre superfici che abbiano arrestato il moto del proiettile. Anche nel momento in cui quello specifico tipo di cartucce .22 lr non fosse dotato di lubrificazione del proiettile, valgono le medesime considerazioni circa il deposito sul proiettile stesso di eventuali tracce biologiche del tiratore: la frizione meccanica dell’impatto del proiettile sulle superfici che ne arrestano la corsa le asporterebbe verosimilmente. Da quanto esposto appare evidente che le probabilità che tracce biologiche (già di per sé non grandissime, non stiamo parlando di lembi importanti di pelle, bensì forse giusto di impronte digitali o poco più) siano “sopravvissute” all’azione di frizione meccanica della superficie del proiettile contro i mezzi incontrati all’impatto sono molto esigue, ancor più se si pensi che tali tracce biologiche siano presenti non su uno specifico reperto, bensì addirittura su tre. Giova ripeterlo: non è del tutto impossibile, una possibilità esiste, diciamo tuttavia che questa possibilità è molto, molto inferiore rispetto a quella che i reperti possano essere stati inquinati successivamente al loro ritrovamento, nel corso delle manipolazioni subite negli anni successivi e che, di conseguenza, le tracce biologiche presenti su di essi appartengano a soggetti che nulla hanno a che vedere con l’omicidio, se non per il ruolo assunto nella ricerca dei responsabili. Naturalmente speriamo di essere smentiti dalle ulteriori indagini e che finalmente sia possibile dare un nome e un volto a questo vero e proprio “mostro” che ha insanguinato la Toscana per così tanti anni.
Mostro di Firenze, il Dna sul proiettile può essere dell’assassino?