Da Arce al mostro di Firenze. Quei processi mai chiusi di una giustizia in confusione
Ieri riesumati i resti di Salvatore Vinci, ucciso nel ’93: fu sospettato di essere il serial killer della Toscana
Stefano Zurlo
Il piccolo cimitero di Montelupo Fiorentino. La riesumazione di un morto, incaprettato, ucciso e nel lontano 1993. Ma quelle ossa e quell’urna portano ancora più indietro: al mostro di Firenze, uno dei grandi misteri italiani, e ai troppi punti di domanda di quell’indagine. Oggi i pm di Firenze cercano di capire se quei resti dissotterrati siano quelli di Francesco Vinci, a suo tempo sospettato di essere il mostro; in particolare lui e il fratello Salvatore furono a lungo nel mirino perché ritenuti gli autori del primo duplice delitto del serial killer, a Lastra a Signa nel 1968.
Già la distanza temporale, cinquantasei anni, da quella data oggi ancora attuale, mette a disagio in una storia che è uno specchio delle anomalie e delle contraddizioni della giustizia italiana e dei suoi apparati investigativi. Presunti misteri, spesso pasticci senza fine.
Problematiche ogni volta diverse ma ricorrenti in una sfilza di procedimenti ai confini dell’archeologia processuale: basti pensare che sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio 1974, l’anno in cui cominciava la seconda sequenza di delitti del mostro di Firenze, sono partiti due processi a due diversi imputati di strage e uno di questi, per un perfido paradosso, si tiene davanti al tribunale dei minori perché all’epoca Marco Toffaloni aveva 16 anni anche se oggi ha passato i sessantacinque.
Sempre negli anni Ottanta fu stuprata, uccisa e abbandonata in un bosco Lidia Macchi, studentessa di Varese dal profilo inattaccabile. Che cosa successe e a chi appartiene la mano che ne fece scempio? Pochi giorni fa Stefano Binda, arrestato nel 2016 e parcheggiato tre anni e mezzo, in carcere, ha ricevuto 212mila euro per l’ingiusta detenzione subita. Cifra ridotta perché con i «suoi silenzi avrebbe contribuito all’errore». Contorsioni e capriole che lasciano basiti: l’ergastolo in primo grado, l’assoluzione in appello.
Confusione e approssimazione. Basti dire che il campione di Dna trovato nel luogo del delitto si è incredibilmente perso da qualche parte negli uffici del tribunale di Varese.
Sembra incredibile, ma se si vuole si può andare ancora più indietro. Ribaltando la storia come se fosse cronaca. Alla corte d’assise di Como è appena partito il processo a 4 presunti sequestratori di Cristina Mazzotti, vittima di un atroce delitto: fu rapita nel 1975 e infilata in una buca in provincia di Novara. Un tubo di plastica le permetteva di respirare, in un contesto disumano. Non poteva durare a lungo. Lei non sopravvisse anche se il padre, morto d’infarto l’anno dopo, aveva pagato un riscatto superiore al miliardo di lire. Allora furono condannati gran parte dei malviventi, ma all’appello mancavano gli ideatori e gli esecutori materiali del sequestro. Ora i pm ci riprovano, anche se il clima che si respira, quello della grande criminalità calabrese, lascia immaginare fessure strettissime per aprire squarci di verità.
E però il farraginoso sistema italiano ci ha messo del suo con il consueto mix di sciatteria e approssimazione, superate solo con un pizzico di fortuna. Può sembrare inaccettabile ma, combinazione, non si trovavano più le carte di quel dibattimento, andato in scena quasi mezzo secolo fa. Gira e rigira, si è scoperto che quasi tutti i faldoni erano a casa di uno dei magistrati dell’epoca che, per ragioni sconosciute, si era portato migliaia di pagine a domicilio.
Più recente, si fa per dire, è l’omicidio di Serena Mollicone ad Arce, in provincia di Frosinone: dopo lunghissime ricerche, la procura di Cassino ha imboccato la strada che porta a un carabiniere, il comandante della stazione di Arce Franco Mottola, al figlio e alla moglie. Ma la sentenza d’appello, qualche mese fa, ha detto che non ci sono prove. Tutti assolti, sulla sabbia dei dubbi e delle supposizioni. E questo accade a più di vent’anni dai fatti, con almeno un presunto mostro, il carrozziere del paese, Carmine Belli, messo alla gogna e poi precipitosamente riabilitato con tante scuse.
Parliamo di processi diversi fra loro e non facilmente paragonabili, a volte straordinariamente complessi, ma in cui, per una ragione o per l’altra, si è smarrita la strada più diritta e ci si è persi in complotti, teorie cervellotiche, ragionamenti barocchi che non hanno afferrato i colpevoli.
Solo ora, fra incertezze e passi falsi, si è arrivati a portare alla sbarra tre possibili autori del delitto di Emanuele Scieri, il parà morto in circostanze ancora oscure nella caserma Gamerra di Pisa nell’estate del 1999. Il teste chiave Alessandro Meucci, terrorizzato, allora si era bloccato e non era stato sollecitato, così si sono persi anni e anni. Ora siamo ai verdetti, ancora in fieri. Sentenze che fanno a pugni. Assoluzione, definitiva, in un troncone, col rito abbreviato; due condanne nell’altro in primo grado. Si vedrà ma almeno si segue una strada.
Quella su cui polizia e carabinieri si misero a litigare a proposito del mostro. I militari erano convinti che la soluzione del rebus fosse da cercare fra i sardi e nell’ambiente in cui era maturato l’assassinio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, quello del 1968 che oggi torna a interrogarci.
Polizia e magistratura sposarono altre congetture e si inerpicarono verso Pacciani, Vanni, Lotti, i compagni di merende.
E poi di derivazione in derivazione si seguirono spunti inverosimili dietro sette, grandi vecchi, fantomatici e immancabili terzi livelli e via elencando in una galleria di luoghi comuni truccati con prove.
Misteri & pasticci, ma più i secondi che i primi, per chi volesse scrivere la storia dell’Italia noir.