Per un anno in carcere accusato di essere il Mostro di Firenze: riesumato il cadavere di Francesco Vinci
Secondo i famigliari potrebbe essere ancora vivo: il suo dna sarà confrontato anche con reperti degli otto duplici omicidi
Daniele Pirola
Francesco Vinci (in copertina) è stato sospettato a lungo di essere coinvolto nei delitti del cosiddetto mostro di Firenze.
Indicato come responsabile di alcuni degli otto duplici omicidi di coppiette avvenuti in Toscana dal ’68 all’85, fu scagionato quando il mostro tornò a colpire proprio mentre lui si trovava in carcere da circa un anno. Era la cosiddetta “pista sarda” poi lasciata cadere dagli inquirenti (Vinci era originario di Villacidro, Sud Sardegna).
Riesumato il cadavere di Francesco Vinci
Vinci fu ritrovato carbonizzato e incaprettato nel 1993 (otto anni dopo l’ultimo delitto del mostro) all’interno della sua Volvo data alle fiamme e spinta in un burrone. Ma c’è chi pensa che quel cadavere non fosse il suo (all’interno dell’auto ce n’era anche un altro, identificato in Angelo Vargiu, un amico di Vinci legato all’anonima sequestri).
In primis ne sono convinti i suoi parenti più stretti: in particolare la moglie Vitalia Velis e il figlio che ipotizzano addirittura che Vinci sia ancora vivo (oggi avrebbe 81 anni).
La moglie qualche giorno dopo l’omicidio dichiarò persino di aver visto il marito che si allontanava in auto salutandola: lo disse ai Carabinieri, ma la cosa non ebbe seguito.
Ora invece a dare credito a questa ipotesi è anche la Procura di Firenze che ha disposto la riesumazione del corpo di Francesco Vinci, effettuata ieri, venerdì 27 settembre 2024, nel cimitero di Montelupo Fiorentino. Seguirà l’analisi del DNA, che non solo sarà comparato coi profili di famiglia, ma anche con alcuni reperti conservati dopo gli otto duplici omicidi del serial killer.
Come Francesco Vinci entra nell’indagine del mostro di Firenze
Il primo delitto del mostro si consuma nel 1974, poi passano ben sette anni: il serial killer ne commette due nel 1981 e un altro nel 1982. Ed è a quel punto che c’è il colpo di scena.
L’indagine e la storia fanno un improvviso salto carpiato nel passato. Un maresciallo dei Carabinieri ricorda che 14 anni prima, a Signa, nella piana fiorentina, c’era stato un omicidio simile a quelli del “maniaco delle coppiette”, ma, soprattutto, un assassinio che era stato consumato sempre con una calibro 22.
Non ci crederete, ma la pistola era la stessa. Faticano a crederci tutti, all’epoca: la sorpresa è tanta, a 14 anni di distanza, eppure è così, gli esami su bossoli non lasciano spazio al minimo dubbio. E la faccenda s’ingarbuglia ancor più, perché anche questo non è per nulla un delitto “normale”.
Il cosiddetto “delitto zero” si consuma la sera del 22 agosto 1968 a Signa, nella Piana fiorentina. Antonio Lo Bianco e Barbara Locci sono amanti e si trovano a bordo della Giulietta bianca di lui in uno spiazzo accanto al torrente bignone, in una zona isolata non lontano dal cimitero del paese.
Mentre fanno l’amore vengono raggiunti da 4 colpi di pistola ciascuno. Sul sedile posteriore c’è il figlio della donna, di soli 6 anni, che dorme: qualcuno (con tutta probabilità l’assassino) lo prende e lo porta fino a un casolare a un chilometro di distanza (leggenda vuole cantando nel mentre la canzone “La Tramontana” di Antoine) e lo lascia lì, scalzo.
Beh, facile, penserete: basterebbe capire dal piccolo Natalino chi è stato ad accompagnarlo. In teoria sì, in pratica no: non si saprà mai con certezza cosa è successo al bambino.
Intanto, però gli inquirenti stringono il cerchio sull’indiziato più probabile, vale a dire il marito della donna e papà di Natalino, Stefano Mele, che finisce in galera. Non solo, Mele confessa il delitto e si becca una condanna a 16 anni.
La pistola dice d’averla buttata, ma rimangono 5 bossoli e 5 proiettili. Il colpo di fortuna è che sarebbero dovuti finire nella spazzatura, dopo tanti anni, e invece quando gli investigatori che si occupano del “maniaco delle coppiette” vanno a vedere scoprono che si sono miracolosamente salvati. E le analisi sono incontrovertibili: quella pistola è la stessa utilizzata dal “mostro”.
Ma a quel punto è anche evidente che Mele, ancora in carcere per il delitto del ‘68, non può essere l’autore dei quattro delitti successivi. E allora i riflettori si girano su un conterraneo, il muratore sardo di Montelupo fiorentino Francesco Vinci: secondo Mele sarebbe stato, infatti, proprio lui a dargli la pistola.
E così Vinci viene indagato e finisce in carcere, ma non può essere nemmeno lui il “mostro”, perché proprio mentre si trova dietro le sbarre, avviene il quinto delitto.
Il quinto delitto è il più anomalo della serie perché le vittime sono due uomini. Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch sono due studenti tedeschi 24enni in vacanza e la sera di venerdì 9 settembre 1983 si trovano a Scandicci, in località Gioboli, a bordo di un furgone posteggiato in uno spiazzo erboso.
Il mostro li fredda con 7 colpi (si trovano però anche questa volta solo 4 bossoli), ma poi s’accorge che, malgrado i capelli lunghi, ha di fronte due maschi e quindi abbandona in fretta e furia il luogo del delitto.
Bye Bye Francesco Vinci, che viene inevitabilmente scarcerato ed esce di scena, le indagini ripiombano nel buio più fitto.