L’omicidio del palermitano Antonio Lo Bianco, il mostro di Firenze, i misteri: riesumati i resti di Francesco Vinci
I carabinieri hanno recuperato il corpo dell’uomo, sepolto nel cimitero Montelupo Fiorentino: sospettato e poi scagionato, venne trovato morto carbonizzato nel 1993. Attesa per gli esami del dna
iesumati i resti di Francesco Vinci nel cimitero di Montelupo Fiorentino. L’operazione straordinaria ordinata dalla procura di Firenze arriva per fare luce su una delle figure chiave nella “pista sarda” sui delitti sul mostro di Firenze. Tutto è partito dall’omicidio di un muratore palermitano di 29 anni, Antonio Lo Bianco.
Vinci venne trovato ucciso e carbonizzato nel 1993 nella sua auto insieme all’amico e Angelo Vargiu, ma i familiari hanno sempre ipotizzato che il cadavere non fosse il suo. La svolta è però arrivata soltanto adesso, dopo che la vedova Vitalia Velis e i figli avevano chiesto in via autonoma la riesumazione del corpo del loro congiunto per sapere, grazie all’esame del Dna, se è veramente il corpo dell’uomo trovato ucciso, incaprettato e carbonizzato nel bagagliaio di un’auto nell’agosto 1993, nella campagna di Pisa.
Mostro di Firenze, riesumati i resti di Francesco Vinci
Sul posto sono intervenuti oltre ai carabinieri e alle due pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti, anche uno dei figli di Francesco Vinci. I resti sono stati portati all’istituto di medicina legale di Firenze, dove saranno esaminati dagli esperti incaricati dalla procura, il medico legale Martina Focardi e il genetista Ugo Ricci, e da quelli nominati da Vitalia Velis, il genetista forense Eugenio D’Orio e il medico legale Aldo Allegrini.
Vinci, originario di Villacidro (Cagliari), fu arrestato nell’ agosto ’82 dopo il duplice delitto di Signa perché sospettato di essere l’autore dei delitti delle coppiette e poi fu scagionato e scarcerato nell’ ottobre ’83, dopo che il “mostro” uccise due giovani tedeschi, uno dei quali scambiato probabilmente per una donna, a Giogioli. L’8 agosto 1993 in un’ auto carbonizzata nelle campagne di Chianni, nel Pisano, furono ritrovati due cadaveri uno dei quali identificato come Francesco Vinci, l’altro come Angelo Vargiu. I funerali si tennero poi nel maggio successivo quando fu depositata la relazione del medico legale per avere la certezza allora che la salma era quella di Vinci.
L’omicidio del palermitano Lo Bianco
Ma i dubbi sono sempre rimasti: all’epoca dell’omicidio, a causa delle condizioni in cui era stato rinvenuto il corpo, il riconoscimento avvenne tramite un anello e l’orologio. Nel 1982, nell’ambito della cosiddetta “pista sarda”, Vinci venne accusato di essere il mostro di Firenze, dopo che gli omicidi seriali vennero collegati a un primo delitto avvenuto nel 1968 a Signa maturato in un clan di sardi. Vinci sarebbe stato infatti uno degli amanti della vittima, Barbara Locci, uccisa con un altro amante, Antonio Lo Bianco, un muratore palermitano, con alcuni colpi di una calibro 22, la stessa arma usata poi dal “mostro”. Per il delitto del 1968 era stato condannato solo il marito della donna, Stefano Mele, mentre Vinci venne scagionato nel 1983 da un successivo delitto, avvenuto mentre lui si trovava in carcere. Poi nel 1993 il duplice e brutale omicidio, che dopo 30 anni resta un grande punto interrogativo.
Ma chi era Antonio Lo Bianco? Nato il 23 novembre 1939 a Palermo, verso la fine degli anni Cinquanta era trasferito in Toscana con alcuni parenti. Il palermitano si era sposato con la conterreanea Rosalia Barranca, e aveva avuto tre figli con cui abitava vicino Firenze, a Lastra a Signa. Nell’estate del 1968 conobbe Barbara Locci, una casalinga di 32 anni, che abitava a Lastra a Signa.
Antonio Lo Bianco: la vittima del primo delitto del mostro di Firenze
La notte di mercoledì 21 agosto 1968, Lo Bianco si trovava con Barbara Locci all’interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata in una strada sterrata vicino al cimitero di Signa. Quella sera i due amanti si erano recati al cinema di Signa per vedere, stando ad alcune fonti, il film giapponese Nuda per un pugno di eroi. Il gestore del cinema li riconobbe, successivamente, dalle foto pubblicate sui giornali; lui escluse, però, la presenza del figlio della donna, che aveva sei anni, in quanto, considerato il film proiettato, non lo avrebbe fatto entrare. Sostenne, infine, che dopo l’entrata della coppia al cinema entrò soltanto un altro uomo del quale, però, non ricordava la fisionomia. Secondo ulteriori fonti, una cassiera del cinematografo vide invece la Locci con in braccio il figlio semi-addormentato all’uscita del cinema. A serata conclusa, i due si erano poi appartati in macchina. Sul sedile posteriore dormiva Natale “Natalino” Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L’assassino, secondo gli inquirenti il marito di Barbara Locci, si avvicina all’auto ferma e spara complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l’uomo. Verranno recuperati cinque bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester con la lettera “H” punzonata sul fondello.
Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, sospettato di aver commesso il delitto per gelosia il quale prima negò ogni addebito, poi accusò gli amanti della moglie (Salvatore e Francesco Vinci) e poi li scagionò, alla fine, il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio, confessò di essere lui il colpevole. Nel 1970 Mele fu condannato a 14 anni di carcere. Durante il processo, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele e anch’egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che “potrebbero spararci mentre siamo in macchina” e, in un’altra occasione, gli aveva raccontato che c’era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti. Fino al 1982 non vi erano collegamenti fra questo delitto e quelli che dal 1974 verranno attribuiti al Mostro di Firenze; a seguito del ritrovamento in archivio di alcuni bossoli che, dopo le analisi, risultarono identici a quelli trovati sulle altre scene dei crimini, si dedusse che la pistola usata dal mostro era la stessa usata dall’assassino che aveva ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nell’estate del 1968. Nonostante questo collegamento, il duplice delitto non è mai stato attribuito comunque con certezza agli stessi autori degli altri omicidi.
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