GLADIO E IL MOSTRO, UN’ANALISI DEI PATTERN RICORRENTI

dott. Carlo Palego 1 e dr. parker 2

the master of san casciano”?

Premessa.

Questo articolo non ha un’attinenza diretta riscontrata ufficialmente con i delitti dei mostri di Firenze. Tuttavia, si intende mettere in evidenza alcune tecniche e pratiche adottate dagli uomini delle reti stay-behind (s/b), comunemente note come Gladio, che potrebbero mostrare analogie con alcuni pattern associati, in determinate circostanze, al caso del mostro.

Le reti s/b.

Le reti stay-behind, conosciute in Italia come Gladio, ma in realtà attive all’interno di un più ampio e articolato insieme di sigle e gruppi organizzati tra i quali certamente anche Gladio, erano strutture paramilitari segrete a composizione mista (militari e civili) sviluppate durante la Guerra Fredda e inizialmente ispirate a reti s/b precedentemente create dai tedeschi e da alcuni reparti italiani della Xª MAS prima dello sbarco americano in Italia. Il loro obiettivo ufficiale, in particolare per quelle impiantate direttamente dagli angloamericani nel primo dopoguerra, era quello di prepararsi a fronteggiare un’eventuale invasione sovietica. Tuttavia, nel corso degli anni Cinquanta del secolo scorso e soprattutto all’acme della guerra fredda (cioè tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta), l’obiettivo e la composizione originari di queste strutture clandestine subì, su spinta della CIA, un’evoluzione significativa, che comportò che queste reti fossero primariamente dedicate all’obiettivo, divenuto strategico nel difficile contesto di quella fase della Guerra Fredda, della cosiddetta stabilizzazione del fronte interno: obiettivo da perseguire anche con tecniche di guerra psicologica e non convenzionale che nei documenti del servizio segreto italiano dell’epoca (il SIFAR) troviamo sinteticamente definite come “guerra rivoluzionaria 3”. Addirittura il SIFAR costituì al suo interno, attorno al 1960, una specifica unità denominata “Guerra non ortodossa e Psy.Ops”, la cui direzione fu affidata al maggiore (poi asceso sino al grado di generale) Adriano Magi Braschi 4, che fu uomo di particolare fiducia del servizio segreto statunitense. Il modello organizzativo che si adottò per le unità s/b con questi mutati scopi fu quello della francese OAS 5, che aveva operato con successo nell’ultima parte della guerra d’Algeria. La principale conseguenza di tale evoluzione fu che l’operatività delle reti clandestine stay-behind si focalizzò sullo Stato-ospite, divenendone strumento di quantomeno potenziale condizionamento delle ordinarie dinamiche interne (anche politiche), al fine di prevenire cambiamenti passibili di pregiudicare l’integrità e la stabilità del blocco occidentale a guida USA/GB. È un fatto che molte delle operazioni di queste reti a partire dalla fine degli anni Sessanta rimangano, ancora oggi avvolte nel mistero, alimentando speculazioni su possibili connessioni con eventi e dinamiche che andrebbero non solo molto oltre il loro scopo dichiarato, ma anche al di fuori delle leggi degli Stati-ospite dove si è operato. Da un punto di vista storiografico e con specifico riferimento al caso italiano, la presenza e la complicità di reparti s/b durante il rapimento dell’on. Aldo Moro rappresentano un dato ormai consolidato. Così come è storicamente certo che uomini chiave di queste unità si siano resi protagonisti di operazioni di depistaggio anche nel contesto di episodi stragistici della massima gravità, quali ad esempio gli attentati di Piazza Fontana (1969) e della stazione di Bologna (1980).

Collegamento tra le tecniche e i delitti.

Pur non essendoci prove definitive di un legame diretto ufficialmente riscontrato tra le operazioni stay-behind (c.d. psy-ops e black-ops) e i delitti del mostro o dei mostri di Firenze, alcune dinamiche e tecniche operative utilizzate dalle unità che furono incaricate di condurre operazioni di guerra psicologica o non convenzionale e in particolare dalla Gladio, mostrano analogie significative. Queste tecniche possono offrire spunti di riflessione su schemi ricorrenti o pattern che paiono emergere in circostanze legate alle uccisioni delle coppie attribuite al cosiddetto mostro. Tale analisi permetterebbe anche di ipotizzare che tali protocolli maturati in ambiente addestrativo s/b siano stati ripresi possibilmente nel contesto dei duplici delitti.

Sappiamo da documenti di rilevante valore storiografico, rinvenuti nel corso dell’indagine sulla Gladio condotta all’inizio degli anni Novanta (dopo le dichiarazioni dell’on. Andreotti e la scoperta della versione estesa del memoriale Moro nel covo milanese delle BR di via Monte Nevoso a Milano) dai procuratori militari di Padova Sergio Dini e Benedetto Manlio Roberti, che gli uomini delle reti s/b furono sottoposti, in particolare nel corso degli anni Sessanta e fino ai primi anni Settanta, ad intenso programma di addestramento alle varie tecniche di guerra non convenzionale in basi militari USA/NATO godenti del principio della extraterritorialità.

In Italia un centro di addestramento per “gladiatori” di particolare importanza fu la base NATO di Capo Marrargiu in Sardegna. Altre scuole di tecniche di guerra non convenzionale furono la base USA di Camp Darby in Toscana, oltre che in campi paramilitari “clandestini”.

Oltre alle tecniche più prettamente militari nonché connesse all’utilizzo degli esplosivi (tra le quali segnaliamo peraltro “forme di guerriglia urbana e di campagna; le azioni tipiche delle guerriglie; obiettivi e compiti della guerriglia; la guerriglia negli abitati e prove pratiche di imboscate 6”), i “gladiatori” (più precisamente: gli uomini stay-behind delle specializzazioni “Collegamento con i livelli superiori” e “Informazioni e propaganda”, rispettivamente squadra di specializzazione “C” e “I”) furono istruiti in ordine alle tecniche d’indagine (anche scientifica) e alle connesse tecniche del depistaggio delle stesse. Va detto che questi organici stay-behind, specie quelli di livello medio-alto, erano prevalentemente (ruolo non in incognito) uomini appartenenti a corpi aventi funzione investigativa (nel caso dell’Italia in maggioranza carabinieri) spesso con legami – anche di appartenenza, tramite l’istituto del distacco – con il mondo dei servizi di intelligence 7 e pertanto conoscitori, anche per mestiere, delle tecniche di polizia e del controllo del territorio.

Protocolli Gladio.

Oltre alla nota circostanza che il cosiddetto mostro di Firenze utilizzò per le sue aggressioni la tecnica dell’imboscata in luogo aperto, va sottolineato il suo track record di bersagli neutralizzati (uccisi purtroppo) pari al 100%. Questo risultato è unico se si considerano i casi di serial killer – peraltro molto pochi – che impiegavano sistematicamente questa tecnica di assalto. Inoltre, il mostro utilizzava un’arma a basso potere di arresto, come la pistola semiautomatica calibro 22, forse una Beretta.

Le tecniche descritte mostrano inoltre similitudini con alcune dinamiche ipotizzate nei delitti del mostro di Firenze, come il controllo delle aree e l’uso di depistaggi. Sebbene queste connessioni siano speculative, offrono un’interessante chiave di lettura.

  1. Cinturazione delle aree.

In alcuni dei delitti attribuiti al mostro di Firenze è stato ipotizzato che uomini di non meglio specificate forze dell’ordine o armate spazzassero le scene del crimine dalla presenza di guardoni (cd. indiani), che per altrimenti avrebbero potuto interferire o assistere ai delitti.

A tal proposito, si segnala che, secondo Fosco Fabbri, un guardone della zona, una Ford blu avrebbe ripetutamente azionato una sirena per disturbare e allontanare i guardoni nei pressi di Mosciano la notte del delitto. Tale evento potrebbe sovrapporsi con una tecnica prevista nel quadro delle operazioni s/b: “Sul terreno […] a volte era necessario garantire la sicurezza lontana in modo che un attacco simulato ad un particolare obiettivo o aviolancio notturno non venisse disturbato da coppiette o malati di insonnia. Veniva allora richiesto il supporto dei CC per creare una cintura di sicurezza con posti di blocco che impedissero a distanza tutti gli accessi alla zona dove si svolgeva l’esercitazione. Tenuto conto che la richiesta di aiuto doveva avere tutti i crismi dell’ufficialità – i CC mai e poi mai si muovono o ti ascoltano ufficiosamente, e comunque a scanso di equivoci prendono nota – bisognava inventarsi altre storie che garantissero un minimo di credibilità che, tra l’altro, si sapeva avrebbe dovuto superare il vaglio di tutta la catena gerarchica, il che non è decisamente un’operazione facile. Devo dire che la collaborazione è sempre stata ottima anche perché non raccontavamo frottole ma la verità, solo non tutta la verità. Parlavamo di attività di personale del Servizio e ci dimenticavamo di accennare alla presenza degli esterni.” Inzerilli 8, 1995.

  1. Interferenze telefoniche.

In alcune circostanze sono state riscontrate anomalie che hanno causato improvvisi distacchi nelle telefonate, ma ci sono altri aspetti ancora più significativi. Un esempio rilevante è l’incidente di Baccaiano: poco dopo l’omicidio, la linea telefonica nella zona avrebbe subito un guasto improvviso, interrompendo ogni possibilità di comunicazione. Tuttavia, su questo punto non esistono riscontri documentali concreti. Se tale evento venisse confermato, potrebbe rappresentare un elemento determinante, indicando l’applicazione di risorse e assetti tipici di chiaro ambito d’intelligence.

Vale la pena di sottolineare che gli anni di piombo sono caratterizzati da blackout e anomalie elettriche e telefoniche, che sono un pattern ricorrente nelle operazioni coperte. Ecco alcuni esempi: il blackout telefonico durante e dopo la strage di Capaci, quello nel corso del rapimento dell’on. Aldo Moro, i blackout telefonici durante gli attentati a Roma del 1993 (il presidente del Consiglio Ciampi pensò a un colpo di stato vedendo il Quirinale isolato), l’eccidio di via Volturno a Bologna nel 1991 ad opera della Uno Bianca, che avvenne durante un blackout telefonico. Questi casi sono numerosi e includono anche azioni delle Brigate Rosse, come il rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi a Genova nell’aprile del 1974, quando tutti i lampioni della via erano spenti (tale rapimento può essere considerato la prova generale del futuro rapimento dell’on. Aldo Moro).

Dal punto di vista tattico, il ricorso ai blackout durante attentati, stragi e delitti si rivelò molto efficace perché consentì operazioni di esfiltrazione in modalità protetta. Tuttavia, con le conoscenze attuali, è improbabile che tali tattiche verrebbero riproposte. Oggi, infatti, è possibile utilizzare questi blackout come indicatori dell’azione pianificata e supportata da certe strutture come Noto Servizio, Gladio, etc.

Per quanto riguarda il caso dei mostri di Firenze, per le anomalie telefoniche si fa riferimento al delitto delle Bartoline del 1981, quando la mattina successiva all’omicidio, con la notizia non ancora divulgata e i corpi probabilmente non ancora ufficialmente scoperti, accadde un episodio strano. Intorno alle 10.00, qualcuno telefonò a casa di Maria Nencini, zia di Susanna Cambi, chiedendo insistentemente di parlare con la madre della ragazza. La telefonata si interruppe improvvisamente a causa di un guasto alla linea e non ci furono ulteriori tentativi di contatto. Ciò che colpisce è che in quei giorni Susanna, insieme alla madre e alla sorella, si trovava temporaneamente a casa della zia, un’informazione nota a pochissime persone. Questo fa pensare che il misterioso chiamante fosse a conoscenza della loro presenza lì. La voce al telefono è stata descritta in modi diversi: alcune fonti la definiscono chiara e priva di inflessioni dialettali, mentre altre parlano di un accento toscano marcato. La zia di Susanna è sempre stata convinta che quella telefonata provenisse dall’assassino.

Un altro episodio sospetto riguarda una telefonata ricevuta da Stefano Baldi poche ore prima del delitto. Verso le 20.30 del 22 ottobre 1981, un presunto geometra lo chiamò a casa per discutere di una pratica relativa alla costruzione della casa che lui e Susanna stavano facendo erigere. La madre di Stefano rispose e riferì in seguito l’accaduto alle autorità. Tuttavia, nessuno dei geometri consultati confermò di aver effettuato quella chiamata. Resta quindi il dubbio su chi avesse cercato Stefano poco prima dell’omicidio.

Altre anomalie riguardano i numeri di telefono risultati inesistenti, come quelli contattati con la scheda telefonica utilizzata per minacciare l’estetista DF, che risultarono inesistenti, chiaro elemento del coinvolgimento di un’aliquota dedicata ad attività riservate.

Merita attenzione il fatto che nei locali dei Servizi presenti in tutte le sedi regionali della allora compagnia telefonica SIP, venivano effettuate intercettazioni e registrazioni telefoniche. Per accedere a questi locali era necessario un NOS (nulla osta di sicurezza) rilasciato dalle autorità militari. In tali contesti, il personale era in grado di interrompere le linee e fare chiamate riservate su linee particolari, anche in caso di blackout telefonico. Tale specialità sarebbe stata competenza della rete “Anello”, facente riferimento ad Adalberto Titta.

Si ricorda al lettore che Titta, un ufficiale ex repubblichino e proprietario di una tenuta agricola situata nella zona di confine tra Val d’Elsa e Val di Pesa, presso la quale lavorava un Mele, parente dei Mele coinvolti nel duplice omicidio di Locci e Lo Bianco e, anni dopo, nella vicenda del mostro di Firenze, era molto vicino al capocentro SID, poi SISMI, di Firenze, il colonnello dei CC Federigo Mannucci Benincasa. Quest’ultimo, nel 1980, intervenne per risolvere i problemi che Titta stava avendo nella sua proprietà chiantigiana con alcuni locali delinquenti sardi.

In generale, le possibilità che potevano essere messe in atto dai soggetti in possesso di queste autorizzazioni o capacità comprendevano: blackout delle comunicazioni telefoniche, collegamenti a numeri riservati, deviazione delle chiamate verso altre utenze, apertura e chiusura di linee dedicate, nonché l’intercettazione e la registrazione delle conversazioni telefoniche.

  1. Lasciare tracce.

Un pattern ricorrente (nonché parte fondamentale dell’addestramento di alcuni uomini stay behind) consiste nel lasciare alcune tracce con obiettivi precisi: testare la lealtà dei membri dell’organizzazione e individuare eventuali falle nel sistema, intimidire gli esterni mostrando un’apparente invincibilità, depistare le indagini indirizzandole su false piste (c.d. false flag operations), monitorare chi si avvicina troppo alla verità per adottare contromisure e infine far perdere tempo al sistema comunicativo, distraendolo con aspetti marginali che distolgono l’attenzione dalle questioni fondamentali.

Nella vicenda del cosiddetto mostro paiono emergere diverse capacità della specie, in particolare quelle riconducibili alla categoria della “deception“ (inganno). Si pensi allo staging di alcune scene del crimine (es.: Rabatta, Travalle, Baccaiano, Scopeti), nelle quali vi è più di un’evidenza di intervento dell’assassino o degli assassini sulla scena del crimine verosimilmente al fine di indirizzare la ricostruzione degli inquirenti di certe dinamiche e si pensi alla capacità di non lasciare su queste scene tracce utili all’indagine scientifica, nonostante la violenza delle azioni omicide e il prolungato tempo di permanenza nei luoghi delle aggressioni anche per eseguire le complesse azioni post mortem sui cadaveri delle vittime (e in particolare sul cadavere delle vittime femminili) previste dal protocollo del mostro.

Infine, vale la pena di citare, le anomale circostanze dell’apertura della pista sarda nell’estate del 1982, con reperti balistici ritrovati spillati ad un fascicolo processuale (il fascicolo Mele/Signa relativo al duplice omicidio avvenuto in località Castelletti di Signa nell’agosto del 1968), anziché conservati nel deposito dei corpi di reato e senza documentazione da cui risultasse il loro “percorso”, grazie ai quali però si aprì una pista investigativa che non ha portato alcun risultato all’indagine sul cosiddetto mostro e che ha fatto anzi sprecare agli inquirenti prezioso tempo investigativo.

Nel possibile scenario di bossoli sostituiti nel fascicolo del processo Mele, ci si troverebbe di fronte a una classica operazione false flag. Il confronto dei segni identificativi dell’arma da fuoco presenti sul fondello dei bossoli esplosi eseguito tra i bossoli ritrovati nel fascicolo Mele/Signa nel 1982 (sicuramente bossoli esplosi dall’arma del mostro) e quelli sicuramente repertati nel 1968 a Castelletti di Signa quali descritti nella perizia Zuntini del ‘68 (confronto singolarmente mai fatto in alcuna sede ufficiale), fa propendere per questo scenario, atteso che questi segni identificativi dell’arma non sembrano corrispondere.

  1. Controllo del teatro operativo.

La ricorrenza di poliziotti che scoprono casualmente i cadaveri sulle scene del crimine è un elemento che solleva dubbi, creando un pattern sospetto. Nel caso del delitto del 6 giugno 1981, il poliziotto Vittorio Sifone, in borghese, scoprì i corpi il giorno dopo l’omicidio. Nel 1985, l’agente della DIGOS Edoardo Iacovacci si trovò per caso alla piazzola degli Scopeti e notò la scena, ma la sua presenza in un luogo strategico suggerisce che la ripetizione di tali circostanze potrebbe far pensare al fatto che non si tratti di una casualità.

Nel contesto s/b era prevista per ogni missione una meticolosa preparazione logistica, articolata in diverse fasi e affidata a specifici nuclei operativi. Un nucleo “informativo” eseguiva un primo sopralluogo per raccogliere dati strategici, mentre il nucleo “propaganda” si occupava di operazioni di disinformazione e depistaggio. Parallelamente, il nucleo “evasione e fuga”, specializzato in esfiltrazioni, pianificava vie di uscita sicure. Le operazioni sul campo erano supportate da due nuclei “guerriglia” e due nuclei “sabotaggio”, dedicati rispettivamente all’azione offensiva e alla distruzione di infrastrutture nemiche. Ogni unità operativa operava con un livello elevato di coordinamento e precisione. Oltre alla scrupolosa preparazione, le operazioni erano eseguite con rapidità, accompagnate da un attento controllo del teatro operativo e da una presenza continuativa sul luogo anche dopo il completamento dell’azione, con l’obiettivo di depistare eventuali investigazioni o ricostruzioni.

Conclusioni.

Le tecniche analizzate mostrano come gli schemi complessi elaborati dalle reti stay-behind per il controllo del territorio, la gestione delle informazioni e il depistaggio, sembrano talvolta utilizzati anche dal cosiddetto mostro. Sebbene non vi sia ad oggi una connessione definitivamente accertata con i delitti del mostro di Firenze, l’analisi di queste dinamiche potrebbe offrire nuove prospettive per comprendere le circostanze che circondano questi eventi.

dott. Carlo Palego, dr. parker

“il contesto è tutto” Marco Montemagno

3 Spesso indicata come “guerra rivoluzionaria,” “guerra controrivoluzionaria” o “guerra non convenzionale,” questi termini descrivono il medesimo concetto.

4 Adriano Magi Braschi, generale di corpo d’armata, descritto da Carlo Digilio come il «responsabile della sicurezza della base NATO di Verona e capo della CIA per il Mediterraneo». Magi Braschi, dal 1962, è stato considerato uno dei maggiori esperti di guerra psicologica, elogiato per le sue attività di guerra non ortodossa, arrivando a dirigere quindi nel 1964 nel SIFAR il «Nucleo di guerra non ortodossa e difesa psicologica». Il generale Magi Braschi pubblicò anche un volume sulla guerra non ortodossa, in cui preconizzava un’alleanza tra civili e militari, ispirata ai «commando Delta» dell’OAS. Il suo obiettivo era la creazione di nuclei armati sul territorio, pronti a entrare in azione prima un’eventuale mossa comunista. Inoltre, è stato tra i relatori del convegno dell’Istituto Pollio del 1965, considerato la base teorica della futura «strategia della tensione». In un rapporto informativo del ROS, si legge che Magi Braschi era addetto militare in India «proprio nel periodo in cui Ananda Marga veniva importata nel veronese, dove Magi Braschi aveva interessi […]».

5 Le strutture organizzative a “nido d’ape,” tipiche delle cellule eversive e delle reti Gladio, seguivano una rigida gerarchia ispirata ai modelli operativi dell’OAS (Organisation de l’Armée Secrète), che a sua volta li aveva adottati dal Fronte di Liberazione Nazionale Algerino (FLN) durante la guerra d’indipendenza algerina. Queste organizzazioni erano caratterizzate da una struttura compartimentata: i membri erano suddivisi in cellule autonome, dove solo il capo aveva contatti con i livelli superiori. Questo garantiva elevata sicurezza, impedendo che la compromissione di un individuo potesse esporre l’intera rete. Erano previste anche squadre “M,” composte da un medico e un assistente, incaricate di fornire supporto sanitario senza coinvolgimento operativo, preservando così neutralità e professionalità. Questo modello mirava a garantire efficacia e segretezza, minimizzando i rischi di infiltrazioni. Nel contesto dell’eversione di destra, tuttavia, gruppi come Ordine Nuovo e Ordine Nero incontrarono difficoltà nell’adottare il modello dell’OAS, poiché i legami personali tra i membri ostacolavano la creazione di compartimenti autonomi, compromettendo l’efficacia della struttura.

6 Relazione Dini e Roberti alla Commissione Stragi, 1995.

7 Cfr. sentenza-ordinanza del Tribunale di Bologna “Italicus bis”, 1994.

8 Il generale Paolo Inzerilli, oltre a vari ruoli ricoperti dentro il servizio segreto militare (SISMI), fu anche responsabile per l’Italia dell’organizzazione segreta della NATO denominato Gladio, dal 1974 al 1986.

28 Gennaio 2025 Gladio e il mostro, un’analisi dei pattern ricorrenti del dott. Carlo Palego e dr. parker
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